Totò, dalla Sanità a Roma

1906 Antonio Clemente 000 000

Quando Totò aveva quattordici anni, già si muoveva con la sicurezza di chi, dal vicolo, era “uscito” – un po’ come si esce di galera: con l’aria di uno che ha visto cose e può, finalmente, raccontarle. Ma invece di farlo in conferenze o su Instagram (ahimè, era il 1913), lui lo faceva sotto l’arco di Porta San Gennaro, il salotto buono (si fa per dire) del proletariato chiacchierone di Foria.

Lì si radunava una fauna sociale variegata: garzoni, borghesucci ribelli, sigarette di carta igienica e barzellette con una morale dubbia. Si mettevano insieme le monetine per una pizza che, più che “margherita”, pareva un’ostia unta. E in mezzo a tutto questo, tra una beffa e un mozzico di spicchio, nasceva Totò: non ancora Principe, ma già aspirante giullare, emulo autodidatta di Gustavo De Marco, il fantasista del momento.

Il primo grande amore di Totò si chiama Vincenzella, nome da melodia triste, e canta melodie da periodica familiare: serate casalinghe in cui si recita poesia e si canta, ma guai a ballare! (ché quello è roba da peccatori col ritmo nel sangue). Totò, preso dalla foga ormonale e artistica, inizia a contorcersi sul tappeto di zia Assunta come un’anguilla tarantolata, e il pubblico, composto da zie e zii entusiasti, lo applaude come se fosse appena sceso dal palco del Salone Margherita.

1918 Antonio Clemente 000 000

Ed è così, a forza di colli flessuosi e imitazioni brillanti, che Totò diventa una star dei salotti, e la sua fama lo porta a frequentare baracconi teatrali della Napoli più popolare, quella dei Pulcinelli e delle donne barbute, dei cafoni in attesa del tram e dei teatranti disperati che, pur di non rimanere senza cast, assumerebbero anche un comodino con le gambe. Totò si presenta con umiltà: “Avete bisogno di una comparsa?”, e riceve in cambio calci nel sedere in senso letterale, cioè come parte della scena. È così che nasce “Clerment”, alter ego da palcoscenico, con l’ambizione nei pantaloni e i lividi nei glutei.

Intanto, tra un calcione e una scena, si consuma anche la love story con la figlia del fruttivendolo (povero, come da regolamento sentimentale). Totò, che guadagna una lira e ottanta al giorno, la dona ogni sera in busta anonima come un Robin Hood innamorato, venendo scambiato dal suocero mancato per un Munaciello dal cuore largo. Sarà amore eterno? Spoiler: no, ma il ricordo sì, tanto che Totò, decenni dopo, la rintraccia e le manda una somma anonima da benefattore in smoking.

Nel frattempo, le sberle teatrali diventano sonore: i suoi sketch, amati dalle zie, vengono massacrati dal pubblico pagante, con pernacchie che avrebbero steso anche un corazzato. La madre, esasperata, grida: “Basta con il teatro!”, e lui risponde con il classico colpo di scena: mi arruolo. È la Prima Guerra Mondiale, mica una scampagnata a Ischia.

1922 Antonio Clemente 000 001

Si presenta al distretto, sedicenne, minorenne, ma con più faccia che anni, e viene spedito con il 22° Reggimento a Pisa e poi ai confini francesi. Schiva le trincee ma non la gerarchia militare, che gli pare una versione senza umorismo dei suoi peggiori impresari.

Dopo la guerra, di nuovo a Napoli, Totò ci riprova. Ma le imitazioni non decollano, anzi affondano con la grazia del Titanic. Passa alla comicità “forte”: parodie grezze e allusive, come la rivisitazione della celebre canzone “Vipera”, ribattezzata “Vicoli”, che racconta di un malcapitato con una malattia venerea. Per portarla in scena, Totò si presenta con un catenaccio legato ai pantaloni, trovata che oggi lo porterebbe su TikTok e domani in tribunale.

Il pubblico applaude, ma non si può vivere a lungo solo di trovate scatologiche. E così, dopo un fallimentare spettacolo ad Aversa dove viene fischiato a prescindere, Totò capisce che Napoli non fa più per lui. Decide di partire per Roma.

Ma attenzione: partire per Roma, nel 1922, non è prendere l’Italo e postare una story da Termini. È un esodo. È un viaggio biblico con panini avvolti nei giornali e parenti che piangono come in una telenovela. È dire addio al mondo, per davvero. È un po’ morire.

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In sintesi (ma con la lente d’ingrandimento)

Totò è stato un ragazzo che ha cominciato a prendere calci in culo per lavoro, a contorcersi per amore, e a parodiare canzoni celebri col coraggio di chi non ha nulla da perdere. Ha tentato il successo tra barzellette, pizzette misere, teatrini cadenti, amori perduti, e una madre che sviene ogni tre decisioni. E quando Napoli ha cominciato a fischiarlo più forte delle onde del Golfo, ha fatto l’unica cosa sensata: andarsene, ma con stile.

Fuori dalla leggenda, dietro il principe della risata, c’è un ragazzo malinconico, testardo, disperato e geniale, che ha trasformato gli schiaffi della vita in applausi, le cotte in carriera, e le disgrazie in gag. E tutto cominciò, guarda un po’, sotto l’arco di Porta San Gennaro, tra una battuta, un mozzico di margherita e un sogno che non ci stava in tasca.


Riferimenti e bibliografie:

  • "Totò, principe del sorriso", Vittorio Paliotti - Fausto Fiorentino Ed., 1977