Questa è la vita - La patente
Rosario Chiarchiaro
Inizio riprese: ottobre 1953, Stabilimenti Titanus, Roma
Autorizzazione censura e distribuzione: 22 gennaio 1954 - Incasso lire 226.274.000 - Spettatori 2.283.185
Episodio «La patente»
Titolo originale Questa è la vita
Paese Italia - Anno 1954 - Durata 92 min - B/N - Audio sonoro - Genere commedia - Regia Aldo Fabrizi, Giorgio Pàstina, Mario Soldati, Luigi Zampa - Produttore Felice Zappulla per Fortunia Film - Distribuzione (Italia) Titanus - Fotografia Giuseppe La Torre - Montaggio Eraldo Da Roma - Musiche Carlo Innocenzi, Armando Trovajoli - Scenografia Peppino Piccolo, Salvatore Prinzi
Totò: Rosario Chiarchiaro - Armenia Balducci: Rosinella Chiarchiaro - Mario Castellani: giudice istruttore D'Andrea - Nino Vingelli: venditore di fuochi artificiali - Anita Durante: la moglie di Rosario - Fiorella Marcon: figlia di Rosario - Isabella Nobili: figlia di Rosario - Attilio Rapisarda: l'usciere - Carlo Giuffré - Lino Crispo - Renato Libassi
Soggetto
Rosario Chiarchiaro (Totò) è considerato lo iettatore del piccolo paese in cui vive: la cosa impedisce all'uomo e alla sua famiglia di vivere serenamente, e inizialmente Rosario pensa di denunciare i compaesani che mettono in giro questa voce. In seguito, però, ritira la denuncia e anzi pensa di farsi dare una vera e propria patente di iettatore, in modo che le persone a cui si avvicina debbano pagarlo per farlo allontanare e neutralizzare così i suoi influssi. Il progetto viene accettato e Rosario detta alla propria figlia, in lacrime per la vergogna e l'umiliazione, il listino dei prezzi che l'uomo chiede per allontanarsi da situazioni a rischio.
Totò era molto superstizioso e aveva lui stesso una gran paura degli iettatori; accettò di girare l'episodio - fra l'altro considerato uno dei più alti esiti della sua carriera cinematografica - e di vestirsi da iettatore (totalmente di nero, con occhiali neri e bastone con un pomo simile a un gufo) solo dopo aver provveduto a dotarsi di un buon numero di amuleti e di portafortuna.
Così la stampa dell'epoca
«Domenica del Corriere», 13 aprile 1952
I guai di Pirandello col cinema non accennano ad aver termine. Stavolta un produttore desideroso di mantenersi "à la page" col gusto vigente dei film ad episodi ha preso quattro delle sue Novelle per un anno, di intonazione, gusto e valore assai dissimili tra loro e le ha affidate a quattro registi, perché ne spremessero una sorta di "messaggio", tendente a dimostrare che la vita è una cosa bizzarra si, ma, tutto sommato, confortante. Al fine di poter giungere ad una simile conclusione, passabilmente in contrasto col pessimismo relativistico dello scrittore siciliano, non si è badato troppo per il sottile e, pur serbando spesso un ossequio esteriore quasi letterale per i testi pirandelliani, interpretati quali veri e propri treatments, si è fatto loro, se necessario, quel tanto di violenza che consentisse di indirizzarli nel senso desiderato. Per timore, comunque, che il messaggio non risultasse chiaro, lo si è fatto enunciare in apertura da uno speaker, con il volto e la voce di Emilio Cigoli, il quale ha avuto inoltre il compito di attribuire al modesto film nebulosi propositi di polemica antineorealistica.
[...]
La patente, pur essa ridotta da Pirandello per il teatro, espone il caso di quel tizio che, colpito e rovinato dalla fama di iettatore che lo perseguita, si reca dal giudice per pretendere da lui una regolare patente di menagramo, che gli consenta di speculare sulla propria disgrazia. Invenzione acre, pervasa da un riso ghignante e carico di piena e di risentimento per l'umanità, che qui è diventata pretesto per una spicciativa e superficiale farsa ad uso di un Totò abbastanza convenzionale. Gli scenaristi Vitaliano Brancati e Luigi Zampa (quest'ultimo ha diretto l'episodio) si sono concessi nella seconda parte, qualche libertà farsesco-surrealistica, per dimostrare con esempi la fondatezza della nomea del presunto iettatore. Del resto, la caduta del lampadario, lo scoppio dei fuochi artificiali e via dicendo hanno il loro precedente nella morte del cardellino del giudice, che Pirandello introdusse nella commedia. Ma quel che è più curioso ed incomprensibile è la frase dello speaker che suggella la narrazione, alludendo ad una misteriosa soluzione ottimistica dell'avventura di Rosario, soluzione di pace e comprensione con i suoi concittadini. Enunciazione priva di senso, che sta a dimostrare in maniera lampante quella volontà ad ogni costo, rilevata all'inizio, di volgere le pagine di Pirandello ad una significazione di comodo.
[...]
Nel complesso, una collana abbastanza gratuita di mediocri bozzetti. I quali, malgrado ogni scrupolo ostentato, non assurgono neppure alla modesta dignità di illustrazioni dei singoli testi letterari. Mentre, ovviamente, non possono essere considerati, né se lo proponevano, libere "interpretazioni" degli stessi. Di fronte alla povertà dei risultati, mi è sembrato quindi doveroso sottolineare il tendenzioso travisamento parziale dei significati, attribuiti dallo scrittore a figure e fatti, che gli autori del film hanno ipocritamente ostentato di voler rispettare ad oltranza.
«Cinema», 1954
Quattro registi commemorano Pirandello
Roma, dicembre
Verso quei film a episodi, legati per tradizione alla letteratura, e che racchiudono in un aneddoto un intero racconto, va rivolgendosi in questi ultimi anni l’interesse dei nostri registi. Cominciò Rossellini con Paisà, in cui i diversi episodi, sebbene frammentari, legati com’erano fra loro da un comune significato, davano al film una certa unità. Film come questi però devono la loro organicità più che all'esser legati ad uno stesso argomento, all'esser girati da uno stesso regista. Questa e la vita, il film che si sta girando in questi giorni a Roma, è diretto invece da altrettanti registi quanti sono gli episodi. Si tratta di quattro novelle di Pirandello che Fabrizi, Luigi Zampa, Soldati e Giorgio Pàstina non potevano onorare meglio che facendole rivivere sullo schermo. [...] «La patente», di cui Luigi Zampa ha voluto affidare la parte principale a uno degli attori preferiti dai pubblico italiano: Totò. Si tratta di un povero diavolo che rimasto vittima della mania di superstizione dei suoi compaesani trova il modo di ricavare dalla sua disgrazia alcuni vantaggi. Da quando e stato definito jettatore infatti Rosario Chiarchiaro, che nessuno vuole più vicino per paura del suo influsso malefico, è caduto nella più nera miseria. Scacciato dall'impiego e senza possibilità di trovarne un altro, Rosario Chiarchiaro per uscire dalla terribile situazione in cui è venuto a trovarsi decide di querelare quei compaesani che hanno contribuito alla sua qualifica di jettatore. Chiarchiaro però non mira alla sua riabilitazione che gli permetterà di ritornare quello che era. Il suo scopo è un altro. Da quando ha capito che la disgrazia che gli è capitata può trasformarsi per lui in una fonte di guadagni, non ha perso tempo « Sta bene », ha detto Chia chiaro, « voi avete paura di me? Pagatemi ed io vi starò lontano ». Però perché questo sia possibile, perchè i suoi compaesani lo temano al punto di essere disposti a pagare la sua lontananza, è necessario che la sua qualifica di jettatore divenga ufficiale E nessuno gli sembra più indicato a convalidarla di un tribunale. Per meglio convincere i giudici ad assolvere le persone da lui querelate e concedergli così la patente di jettatore, si presenta in tribunale vestito di un lugubre abito nero. [...]
Mario Agatoni, «L'Europeo», anno X, n.1, 3 gennaio 1954
[...] La patente è la biografia dì uno jettatore [...] L'episodio ondeggia fra il grottesco e la consueta perizia facciale di Totò [...]
Tullio Ceciarelli, «II Lavoro Nuovo», 4 febbraio 1954
Da un giacimento aurifero della narrativa italiana, i due volumi delle "Novelle per un anno", di Pirandello, sono stati estratti quattro racconti che, tradotti in immagini, hanno dato il lievito al film "Questa è la vita". Non costituiscono altrettanti episodi di un'azione in qualche modo unitaria; se c'é un filo ideale fra racconto e racconto è l'origine comune dal mondo pirandelliano, in cui si eccita il gioco del contrasti fra il nostro essere e il nostro apparire, anzi il nostro diverso apparire agli occhi di ciascuno; ma é un filo sottile. Il conferenziere fantomatico che, sullo schermo, presenta e interpreta i racconti, ne volgarizza il significato, raffigurandoli come altrettante «moralità» e desumendone meno succo di quanto potrebbe. Due dei quattro bozzetti — "La giara" e "La patente" — furono trasferiti, dallo stesso Pirandello, nella forma teatrale, e anche di recente sono tornati alle nostre ribalte.
[...]
Alla Patente, interpretata da Totò, nel panni del jettatore sono state date dal regista Luigi Zampa variazioni in chiave di comicità, mentre si trattava di una delle più angosciose vicende immaginate da Pirandello. Quel Chiarchiaro evitato da tutti, per la sua triste nomea di menagramo. e che sollecita II riconoscimento ufficiale del suo malefico influsso, non è l'eroe d'una farsa, ma di un dramma. E non giova che si sia aggiunta, con le prove delle sciagure da lui seminate — malattie improvvise, cadute di lampadari — una convalida della superstizione non suggerita dallo scrittore.
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Pirandello, anche questo Pirandello minore, é più difficile di quel che si creda, a ridurre in film: soltanto quando l'aderenza fra testo e immagini é perfetta "Questa è la vita" consegue effetti felici. Interpolazioni e mutamenti fanno guasto.
lan. (Arturo Lanocita), «Corriere della Sera», 5 febbraio 1954
Inaugurata dal fortunato "Altri tempi" di Blasetti, la voga del film a episodi non accenna a finire. Ispirato da quattro fatiche di Luigi Pirandello, "Questa è la vita" non è una pellicola più malvenuta di molte altre; ma senza dilungarci in analisi faticose, basterà il dire che appare denutrita. senza necessità, priva di mordente e di ambizioni.
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Totò è ne La patente (regia di Zampa) un poveraccio tormentato dalla nomea di essere un jettatore. Dopo un seguito di disgrazie, si fa da pecora lupo; e sfrutta per far denaro la paura che tutti hanno di lui. Si sorride ai lazzi di Totò, ma il raccontino non ha sviluppo.
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Concludendo. Luigi Pirandello appare il vincitore del film: egli e infatti molto più forte del suol illustratori. A confronto di "Questa i la vita" si vede subito l’originalità di un altro film a episodi, "Amore in città", che se non altro si giovava di soggetti originali, stesi cioè da specialisti in «chiave» cinematografica.»
P. B., «Corriere d'Informazione», 6 febbraio 1954
Omaggio a Pirandello novelliere, quattro racconti affidati a quattro diversi registi, Pastina ,Zampa, Soldati e Fabrizi: La giara, Il ventaglino, La patente e Marsina stretta. Delle quattro novelle due, La giara e La patente, ebbero dallo stesso Pirandello traduzione scenica, che, nel limiti del possibile, è stata qua e là sfruttata anche per lo schermo. Di solito, di fronte a film come questo, dalla regia plurima, viene istintivo, e spesso facile, stabilire una graduatoria, distinguere il racconto più azzeccato o addirittura meglio riuscito. Qui ci si troverebbe in un certo imbarazzo, le quattro versioni su per giù si equivalgono; per meriti e difetti, per sceneggiatura e regia.
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La patente trasforma in commediola, e talvolta in farsa, una stridente situazione drammatica (il menagramo che, di fronte a una vita divenutagli quasi impossibile, vuote a tutti i costi la «patente», la laurea di Jettatore da una sentenza di pretura), e Totò vi è qua e la efficace;
[...]
E' un buon segno, che il cinema insista a derivare alcuni suoi spunti anche dalia buona letteratura; e sintomo ancora più confortante è che il pubblico, in quel tentativi, gli faccia buon viso. L'Importante per entrambi è, evidentemente, che quella buona letteratura non sia troppo tradita.
m.c. (Mario Cromo), «La Nuova Stampa», 13 febbraio 1954
Quattro tra "Le novelle per un anno" di Luigi Pirandello sono state scelte per comporre questo film a «sketch» che, oltre l'identità dell'autore, non hanno altro filo conduttore. «La giara», diretto da Giorgio Pastina e interpretato da Turi Pandolfini, è la storia paradossale della lite in Sicilia tra un proprietario taccagno e un rabberciatore rimasto imprigionato dentro la giara che doveva risanare. La giara non si può rompere, perchè nessuno dei due vuole pagare le spese.
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«La patente»: interprete Totò, regista Luigi Zampa. E' un episodio paradossale: un tale che ha fama di jettatore e che vuol farsi rilasciare, appunto, la licenza di jettatore per poterci vivere sopra, Totò offre la sua mobilissima maschera al personaggio che Zampa fa muovere in un'atmosfera di rarefatta farsa.
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l.c., «L'Unità», 19 febbraio 1954
Luigi Pirandello, si sa, è poeta difficile. La sua amarezza, però, il suo austero umorismo, la tragica asprezza del suo mondo morale hanno tali lieviti umani che, anche se separati dal clima poetico in cui son nati, possono egualmente suggerire le più delicate e ferme aspirazione drammatica. Di questa vitalità è esempio il film di oggi, realizzato da quattro registi, Pastina, Soldati, Zampa e Fabrizi, sulla scorta di quattro testi pirandelliani, La Giara, Il ventaglino, La patente, Marsina stretta [...]
Il terzo è la famosa storia di quel poveraccio che, ritenuto da tutti iettatore, finisce per farsene dare la patente in tribunale, speculando dopo, e a caro prezzo, su quella terribile fama. [...]
Forse il racconto che più ci ha convinto è quello diretto da Zampa, La patente, che ha rappresentato spesso il più sapiente e ”grottesco”, ma non minore impegno ci sembra la regia di Fabrizi per Marsina stretta (soprattutto nel disegno caricaturale di tutti quei parenti ostili) e quella di Pastina per la festosa sagra della Giara. Fra gli interpreti ricorderò Fabrizi, tutto cordialità ed ardore nelle vesti del vecchio insegnante, Totò, paurosamente livido nella sua allucinazione de La patente, Lucia Bosè, Walter Chiari, Natale Cirino, Turi Pandolfini, Myriam Bru, Andreina Paul, Pina Piovani.
G.L.R. (Gian Luigi Rondi), «Il Tempo», 19 febbraio 1954
Il cinematografo, per limitarsi troppo spesso a voler intrattenere piacevolmente il pubblico, è il tramite meno adatto a divulgare autori di qualità. La ricerca di un minimo comun denominatore spettacolare che sia gradito a tutti, o per lo meno al più gran numero di spettatori, lo spinge purtroppo a versare l'acqua del luogo comune e dell’effetto facile nel vino dell’originalità e dell'intelligenza, ad attenuare, a diluire, a volgarizzare in tutti i sensi della parola. I testi più singolari e incisivi. si sa come queste cose vanno a finire: a furia di aggiunte e di modifiche si snatura l’opera originale, se ne tradisce lo spirito e lo stile.
E’ quanto è accaduto, più o meno coscientemente, ai riduttori delle quattro novelle di Pirandello che sono riunite in questo film senz'altro nesso da quello della comune origine letteraria. La semplice e vigorosa essenzialità narrativa e, soprattutto, l'aspra e amara ironia che le distinguono, risultano infatti allentate e sbiadite, vorrei dire rese anonime, negli adattamenti delle vicende e dei dialoghi, nella ricerca, di effetti generali e particolari che hanno ben poco a che vedere con gli originali. I racconti di Pirandello risultano cosi scaduti a semplici spunti per episodi comici o patetici capaci di adeguarsi al livello medio di uno spettacolo genericamente popolare. Ma sarebbe difficile dire, in realtà, chi abbia più perduto in i siffatta manifestazione: se Pirandello o il film.
Le manomissioni più gravi sono quelle operate alla Marsina stretta e alla Patente. [...]
La seconda, diretta da Luigi Zampa con Totò e Castellani, sottolinea ai fini comici le malefatte di uno jettatore facendo scivolare un cupo dramma in scherzosa farsa. VI si narra di un tale che, rovinato dalla fama di portar male, cita in tribunale i suoi accusatori per aver la patente di jettatore e sfruttarla a fini di ricatto e di lucro.
[...]
E.C. (Ermanno Contini), «Il Messaggero», 19 febbraio 1954
I film della settimana - "Questa è la vita"
Quattro bacchette in gara per un “quartetto„ di Pirandello
«Zibaldoni» e antologie cominciano ad aver gran voga nel cinema italiano dopo gli esempi, spesso felici, dei «trii» e dei «quartetti» tentati da tempo con successo dagli americani e dagli inglesi. Sinora, però, avevamo visto ridurre per lo schermo un mazzetto di brevi racconti dovuti alia penna di diversi autori. In Questa è la vita, invece (forse sullo esempio di quelle «antologie» di Somerset Maugham tanto care al cinema anglosassone), i racconti appartengono tutti a un solo autore. Luigi Pirandello: ma nasce, da questa unica paternità letteraria, una unita di stile che differenzi il film di oggi dagli altri realizzati invece sulla scorta di autori differenti? Diciamo subito che. se una è la fonte di ispirazione, diversi sono i registi cui è stato dato l’Incarico di realizzare ciascun testo e questo nega a priori al film tuia compiuta unità di stile.
Resterebbe, a riunire insieme gli episodi, quell'unità morale che contraddistingue il mondo pirandelliano cosi vario e cosi ricco da poter esprimere nel suo arco quasi tutti l sentimenti umani. Tanta ricchezza, però, tanta varietà, perchè giungessero ad esprimere esattamente l'umanità e il pensiero pirandelliani andavano sapientemente sceverate con un rigoroso e preciso criterio di scelta. Che è mancato totalmente ai compilatori di Questa è la vita, paghi soltanto di raggruppare insieme quattro opere di Pirandello raccordate fra loro da generici sentimenti che. anche perchè spesso fraintesi, non riescono certo a riassumerci il mondo morale pirandelliano e finiscono per arrivare, sulla scorta di un suo lato suggerimento, a una conclusione che si vorrebbe pirandelliana e non è: la conclusione quanto mal imprecisa che ritroviamo fin dal titolo, «questa è la vita».
Intendiamoci subito, però; se enunciando i quattro episodi in cui il film consiste si può arrivare a concludere: questa è la vita, tale affermazione non può essere estesa all’altra (che parrebbe invece più necessaria e più logica): questa è la vita, secondo Pirandello. Ciò premesso - ed era doveroso precisarlo perchè non sono leciti equivoci su colui che è il nostro più significativo scrittore di questa prima metà del secolo - visto che è inutile considerare il film nel suo insieme, vediamo di analizzarne ogni singolo episodio.
[...]
Luigi Zampa ha diretto il terzo episodio, La Patente (pubblicata da Treves nel 1915 in una raccolta intitolata La Trappola). Anch'egli più che rifatto alla novella, si è rifatto alla sua elaborazione teatrale, rappresentata da Nino Martoglio il 19 febbraio 1919 al Teatro Argentina di Roma. E’ la storia di quel disgraziato che. cacciato da ogni impiego perchè si era fatto una fama di iettatore. aveva deciso di trarre profitto da una simile situazione facendosi dare dal tribunale una regolare patente di iettatore con la quale, minacciando la gente, avrebbe potuto sbarcare il lunario. In che modo avrebbe potuto avere questa patente? Con un regolare processo In cui. risultando assolti, per aver raggiunto la prova, due persone da lui accusata di diffamazione (perchè avevan fatto gli scongiuri di fronte a lui) gli sarebbe stata riconosciuta tanto temibile facoltà con sentenza del tribunale.
Zampa ha portato cosi fosca e dilaniata storia (vista tutta, nel testo pirandelliano, attraverso gli occhi di un giudice che parlando dei suoi simili li chiamava piccoli poveri uomini feroci) sul plano facile della farsa. Ha sviscerato la vicenda. l’ha condotta alle sue estreme conseguenze, ne ha persino Indicato la definitiva soluzione con una scena di processo in cui la famosa patente è finalmente attribuita (tanto la novella, invece, che l’atto unico si fermavano prima. con maggior rispetto della Giustizia) e non ha esitato alla line a consentire che uno speaker addolcisse la conclusione della farsa (tragica, comunque, nel suol aspetti più vistosi) con una parola di speranza. Questo tradimento quasi continuo ha naturalmente svuotato non soltanto di umanità. ma anche di verosimiglianza le dolenti e quasi allucinate figure pirandelliane. E l’episodio ha solo il valore di una «scherzo» che, in molti luoghi, diventa barzelletta. Lo interpreta, con livida esagerazione, Totò nelle vesti dello iettatore. Sotto la sua maschera grottescamente segnata traspare tuttavia non di rado, il tormento del personaggio pensato da Pirandello. [...]
Gian Luigi Rondi, «La Fiera Letteraria», anno IX, n. 9, 28 febbraio 1954
Nella sfrenata corsa ai film ad episodi i produttori non potevano coinvolgere anche Pirandello che è, fra l’altro, uno degli autori meno cinematografici che esistano. Quattro sue novelle sono cosi state unite dall’unico legame della comune origine letteraria che avrebbe potuto dare una certa unità di stile se i quattro episodi non fossero stati affidati a quattro registi diversi. Tuttavia il film può considerarsi riuscito, e alcuni degli episodi sono risultati freschi e vivi, proprio per merito del diverso stile dei rispettivi registi. Giorgio Pastina ad esempio, pur lasciandosi prendere la mano da un certo dialettismo, ha ricostruito La giara dosando saggiamente il «regionalismo» degli interpreti creando cosi un sapiente quadro campagnolo. Mario Soldati, alle prese con quell’evanescente bozzetto che è Il ventaglino, ha risfoderato il suo classico manierismo ottocentesco per inserire abilmente Miriam Bru in un quadro delicato,
Aldo Fabrizi, ancora una volta nella doppia veste di attore-regista, ha saputo una volta tanto dosare la sua esuberanza che è tuttavia esplosa alla fine rovinando con un finale clownesco quello che poteva essere il migliore degli episodi. Chi ha fallito del tutto la prova è stato Luigi Zampa realizzando «La patente» in maniera convenzionale e priva di originalità aiutato in ciò da Totó che sta ripetendo da ormai troppo tempo (e quel che è peggio sembra deciso a continuare) la medesima mimica interpretativa al servizio di ogni personaggio.
rab., «La Nuova Gazzetta di Parma», 3 marzo 1954
Se scoppia un incendio, se una nave cola a picco, se crollano i lampadari, se qualcuno cade morto all’improvviso, la colpa è dello “iettatore”: così assicurano gli esperti in materia e così assicura l’autore di questo servizio, che si vanta di conoscere i tre più famosi iettatori di Napoli ma che, da buon napoletano, si guarda bene dal nominarli
[...] Le corna anti-iettatura si fabbricano anche per l’esportazione
Il fatto che la iettatura venga, fra l’altro, tanto metodicamente studiata a Napoli, non va sottovalutato. Ancora oggi i napoletani considerano un classico di particolare valore un volume pubblicato da Nicola Val. letta nel 1787 ed intitolato Cicalata sul fascino volgarmente detto iettatura. Posso assicurare che tuttora a Napoli, per catalogare uno iettatore, ci si serve di questo libro che molte famiglie posseggono e conservano con religiosità. E debbo aggiungere che il libro, oltre ad essere colmo di dotte citazioni e di severe argomentazioni, è divertentissimo in quanto vi si esamina: 1) se sia più iettatore l'uomo o la donna; 2) se più chi ha la parrucca; 3) se più chi ha gli occhiali; 4) se più la donna gravida; 5) se più i monaci; 6) fino a qual distanza la iettatura si estenda; 7) se possa venire iettatura dalle cose inanimate ; 8) se operi più di lato, di prospetto o di dietro.
In realtà ogni famiglia napoletana della borghesia ha nella saletta d’ingresso, attaccato alla parete, al disopra della cappelliera, un enorme paio di corna che servono a difendere la casa dagli eventuali iettatori che potessero entrarvi. E inoltre ogni napoletano di buono stampo ha il ciondolo del portachiavi a forma di minuscolo corno. Alcuni commercianti, da me interrogati in proposito, mi hanno detto che queste corna, grandi e piccole, provengono dalla Sicilia dove se ne fabbricano, anche per l’esportazione, in enormi quantità. Altrettanto efficaci contro l’influsso degli iettatori sono considerati i ferri di cavallo. Di scongiuri ne esistono a centinaia ma credo che il più comune sia: «Sciò sciò ciucciuvé!», che significa pressapoco: «alla larga, civetta!». La civetta, come è noto è l’uccello del cattivo augurio. Dirò a questo proposito che le altre bestie del cattivo augurio sono il rospo e la tarantola. Anzi ogni anno, il 29 giugno, festa di San Paolo, a Galatina, in provincia di Lecce, si riuniscono i ”tarantolati”, cioè delle persone che si ritengono morse dalla tarantola e che, per sfuggire al maleficio, si abbandonano a frenetiche danze.
Ora io, concludendo, sarei tentato di raccontare certe strabilianti storie di iettatori napoletani, ma faccio forza a me stesso e me ne astengo per i motivi ai quali ho già accennato. Preferisco invece rievocare, per chi non l’abbia presente, una nota commedia di Luigi Pirandello, La Patente, un atto unico del 1918 che qualche anno fa è stato messo anche in film e che ha avuto come protagonista Totò.
Il signor Rosario Chiarchiaro, dunque, ritenuto da tutti i suoi conoscenti un formidabile iettatore, si riduce sul lastrico. Ma finalmente egli ha una idea geniale: querelerà alcuni di coloro che lo additano quale iettatore, ma li querelerà non per vederli condannati, bensì per vederli assolti. Egli stesso fornirà agli avvocati avversari le prove che è iettatore, in maniera appunto da far assolvere i suoi diffamatori.
Il ragionamento che fa Rosario Chiarchiaro è semplicissimo: una volta assolti coloro che lo definiscono iettatore, egli verrà automaticamente riconosciuto a termini di legge come iettatore, avrà insomma una autentica patente di iettatore. E sarà da questa patente che egli trarrà i mezzi di vita. In che maniera? Ma fermandosi, per esempio, accanto alla vetrina di un negozio e accettando di allontanarsi soltanto quando il proprietario, preoccupato per le sventure che egli potrà causargli, non gli avrà versato una congrua mancia Oppure accettando di recarsi a casa di Caio a portargli male per incarico di Sempronio dal quale si sarà fatto adeguatamente pagare. Rosario Chiarchiaro supplicherà, nella commedia pirandelliana, il giudice D’Andrea di assolvere i querelati. «Ho figli, debbo vivere!», è il grido di Chiarchiaro. Il giudice D’Andrea è imbarazzato. La legge non ammette la iettatura e quindi egli dovrà condannare i diffamatori di Chiarchiaro. Ma ecco che la iettatura incomincia ad abbattersi proprio sul giudice...
Come il giudice D'Andrea, io non credo alla iettatura anche perché, come ho detto, ho avuto occasione di frequentare i tre più famosi iettatori di Napoli e non me ne è mai incolto male. Anzi non voglio fare a meno, a conclusione di queste pagine, di far giungere ad essi, che certamente si saranno riconosciuti, i sensi più alti della mia affettuosa e devota amicizia. Nonché un caloroso abbraccio.
Vittorio Paliotti, «Novella», anno XLII, n.13, 30 marzo 1961
La censura
Anche stavolta il ministero ha da ridire, sull'ultima inquadratura c’è un evidente intervento censorio: quando Chiàrchiaro, ormai jettatore ufficiale, si rivolge balzacchianamente all’odiato paese, “Ed ora, a noi due”, è seguito da un’incongrua voce off che smussa conciliante: “Ma la lotta col paese non ci sarà perché anche per Rosario Chiàrchiaro la vita tornerà a sorridere, con e senza patente'’.
Alberto Anile
I documenti
La decisione di portare in cinema La patente di Pirandello come uno degli episodi di Questa è la vita la prendemmo assieme Brancati e io e ne scrivemmo insieme la sceneggiatura. Poi la proponemmo per Totò. Ricordo una cosa che mi disse Totò a fine film: "Caro Zampa”, mi disse, “se io potessi sempre recitare dei testi come quelli che lei mi ha dato e fare cose di questo genere! Invece faccio tanti film in cui sono costretto a inventarmi tutto, il mattino arrivo in teatro e trovo che non c’è niente, debbo creare i lazzi, le battute, tutto da zero”. Questo me lo ricordo, pace all’anima sua, testimone onesto di quanto lui mi disse. Per questo episodio Totò lo volli proprio io. Brancati era entusiasta all’idea di fare interpretare Pirandello da lui. Diceva che poteva renderlo perfettamente.
Luigi Zampa
L'umorismo pirandelliano nella novella "La patente" di Luigi Pirandello.
Novella pubblicata nel 1911 e poi confluita nella celebre raccolta pirandelliana delle Novelle per un anno, La patente è testo assai emblematico sia per la poetica di Pirandello sia per alcune costanti editoriali dello scrittore siciliano. Innanzitutto, la vicenda de La patente ripercorre le tematiche principali della scrittura pirandelliana, mettendo in scena il dramma tipicamente novecentesco di un ”io” scisso e privato della sua stessa identità, che, per esistere, è costretto ad assumere la “maschera” che gli altri proiettano su di lui (con temi che ritornano da Il fu Mattia Pascal e che si ritrovano sia nella ricca produzione teatrale sia nei successivi romanzi, come Uno, nessuno e centomila).
I protagonisti de La patente sono il giudice D’Andrea e un modesto impiegato del monte dei pegni, tale Rosario Chiarchiaro, licenziato perché sospettato di essere uno iettatore. L’uomo ha poi sporto denuncia presso la magistratura contro due giovani, che al suo passaggio avrebbero fatto il classico gesto di superstizione popolare delle “corna” per allontanare il malaugurio. Il giudice D’Andrea si trova allora di fronte ad un caso paradossale, dato che, in quanto esponente della legge e della razionalità, non può certo credere all’esistenza della sfortuna né può tutelare in alcun modo gli interessi di Chiarchiaro che, a causa delle malelingue del paese, oltre ad aver perso il posto di lavoro, non riesce a far sposare le figlie ed è costretto a tenere segregata in casa l’intera famiglia.
Perché, in verità, era un caso insolito e speciosissimo quello d'un jettatore che si querelava per diffamazione contro i primi due che gli erano caduti sotto gli occhi nell'atto di far gli scongiuri di rito al suo passaggio.
Diffamazione? Ma che diffamazione, povero disgraziato, se già da qualche anno era diffusissima in tutto il paese la sua fama di jettatore? se innumerevoli testimonii potevano venire in tribunale a giurare che egli in tante e tante occasioni aveva dato segno di conoscere quella sua fama, ribellandosi con proteste violente? Come condannare, in coscienza, quei due giovanotti quali diffamatori per aver fatto al passaggio di lui il gesto che da tempo solevano fare apertamente tutti gli altri, e primi fra tutti - eccoli là - gli stessi giudici?
La situazione, fortemente intrisa dell’umorismo pirandelliano e dell’amaro pessimismo esistenziale dello scrittore, si complica ulteriormente quando Chiarchiaro è convocato in tribunale per dare la sua versione dei fatti: anziché difendersi o ritirare la denuncia, il protagonista pirandelliano, vestitosi per giunta da autentico menagramo, reclama con forza e convinzione di andare a processo, e anzi di poter ottenere un riconoscimento - una “patente”, appunto - del suo status di portasfortuna. L’analisi di Chiarchiaro è tanto acuta quanto spietata; se il mondo gli ha imposto, nella sua rozza ignoranza, una “maschera”, tanto vale accettare di propria volontà questa “parte” teatrale, fino a ricavarne il giusto tornaconto economico.
Tutti, tutti ci credono! E ci son tante case da giuoco in questo paese! Basterà ch’io mi presenti; non ci sarà bisogno di dir nulla. Mi pagheranno per farmi andar via! Mi metterò a ronzare intorno a tutte le fabbriche; mi pianterò innanzi a tutte le botteghe; e tutti, tutti mi pagheranno la tassa, lei dice dell’ignoranza? io dico della salute! Perché, signor giudice, ho accumulato tanta bile e tanto odio, io, contro tutta questa schifosa umanità, che veramente credo d’avere ormai in questi occhi la potenza di far crollare dalle fondamenta una intera città!
Sconcertato e sconfitto, D’Andrea non può che acconsentire e fare di Chiarchiaro un tragicomico impiegato comunale, stipendiato perché non causi il malocchio al resto della cittadinanza. Sono quindi centrali, nella Patente, le tematiche pirandelliane della moltiplicazione della personalità umana e della contraddittoria libertà che ci deriva dall’assumere un travestimento sociale di fronte agli altri (per quanto questo ci possa sembra assurdo ed irrazionale). Proprio per questo motivo, Pirandello rielabora la novella in una fortunata commedia in atto unico (prima in dialetto siciliano e poi in lingua nazionale) del 1917, che bissa il successo del racconto breve; qui, per giunta, la “beffa” del protagonista ai danni della giustizia si basa su un ulteriore colpo di scena finale, in cui Chiarchiaro fa crollare a terra la gabbia di un povero cardellino, dimostrando esplicitamente il proprio “potere”, e di conseguenza l’urgente necessità della “patente” ufficiale di iettatore. Chiarchiaro verrà poi interpretato da Totò nel film ad episodi Questa è la vita (1954), basato su novelle pirandelliane e diretto da Luigi Zampa.
Cosa ne pensa il pubblico...
I commenti degli utenti, dal sito www.davinotti.com
- Uno dei primi film ad episodi del cinema italiano del dopoguerra, di nobile ispirazione letteraria, ingiustamente caduto nel dimenticatoio, a parte il folgorante e giustamente famoso episodio con Totò iettatore. Infatti, se si esclude l'inconsistente "Il ventaglio", anche gli altri due episodi sono di valore: "La giara" per la presenza di ottimi caratteristi, "Marsina stretta" - quello di maggior respiro narrativo - per l'umanità che Fabrizi riesce ad infondere al suo personaggio, un mite professore reso "leone" dalle contingenze.
- Quattro novelle pirandelliane in un film a episodi di inizio anni Cinquanta. La giara è consueto e abbastanza impossibile nel suo svolgimento, con un Pandolfini in gran forma. Il ventaglino è piuttosto triste ma notevolmente insulso. Nella patente Totò regala invece una mirabile interpretazione, nonostante la storia esile. Marsina stretta mostra un monumentale e bonario Fabrizi che dimostra se mai ce ne fosse stato bisogno di essere un monumento della cultura italiana.
- Di Pirandello rimane poco. La casualità, il doppio, il grottesco qui non hanno campo. Pittoresco "La giara", un divertimento, mentre gli episodi con Totò (memorabile pur se caricaturale) e Fabrizi (bravo, ma "La marsina" risulta troppo diluito e di maniera) sono schiacciati dalla mole del carisma dei rispettivi protagonisti. Solo nel sottovalutato "Il ventaglio" risalta la poetica dell'illogico e del crudele tipica dell'Agrigentino. Mezza palla in più (arbitraria) in ricordo di Emilio Cigoli.
- Quattro piccoli apologhi di Pirandello che non reggono la trasposizione su celluloide. Sono troppo esigui e striminziti per poter lasciare un segno concreto. L’unico che riesce a trovare maggior senso è "La giara", mentre "Il ventaglino" è assolutamente inconsistente. Nella "Patente" Totò recita troppo sopra le righe e il seguente episodio con Fabrizi scorre via noiosamente. Meglio limitarsi a leggerli.
- Operazione di divulgazione culturale di massa come usava ai tempi: tutti gli episodi appaiono fedeli alle novelle, ma quelli più celebri (con Pandolfini chiuso nella giara e Totò in divisa da iettatore) in realtà non vanno oltre un generico impianto folkloristico (sia pur iconico) e lo spirito pirandelliano ne esce piuttosto banalizzato. Vi si avvicinano di più il sottovalutato "Il ventaglio" (il più breve) e soprattutto il monumentale "Marsina stretta", in cui Fabrizi si autodirige in uno dei suoi ruoli più signorili e commoventi di sempre.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Fabrizi affronta i parenti dello sposo strappandosi la manica del frac.
- Dei 4 episodi quello del ventaglino è probabilmente il meno riuscito, ma anche quello più triste, mentre gli altri sono maggiormente improntati alla commedia; anche l’ultimo, quella della marsina stretta, che risulta il migliore grazie a un’interpretazione magnifica di Fabrizi, mirabilmente in bilico tra comico e tragico: solo per questo una palla in più. Quello di Totò è molto divertente, ma la conclusione appare affrettata. L’episodio della giara, che apre il film, ha un aspetto irreale, quasi kafkiano, ma tutto sommato non è granché.
- Un piacevolissimo film a episodi anni '50, oggi purtroppo non molto considerato. Invece presenta gradevoli episodi d'origine letteraria, interpretati con garbo e professionalità da noti attori e superlativi caratteristi dell'epoca. Fra i vari spezzoni, i migliori a mio giudizio sono quello di Totò ("La patente") e quello di Fabrizi ("Marsina stretta"). Ma anche il Turi Pandolfini de "La giara", tratto da Pirandello, è straordinario (quesito: è meglio questa versione o quella di Franchi & ingrassia in Kaos...?).
- I temi pirandelliani del paradosso, dell’esagerazione drammatica, del “sentimento del contrario”, dell'incomunicabilità, della dell’infelicità umana, li troviamo discretamente approfonditi in questo film a episodi diretto a otto mani da Pastina, Soldati, Zampa e Fabrizi. Spiazzante ed eccentrico l’episodio di Fabrizi, tagliente e macabro quello con Totò che scolpisce con evidenza quasi michelangiolesca uno “iettatore” in cerca di riconoscimento giuridico che, più che da Pirandello, trae linfa dall'antichissima tradizione apotropaica napoletana. Buono.
- Film a episodi che racconta alcune novelle di Pirandello. I 4 episodi, non tutti riusciti, risentono un po' dello "slegato" tipico dei film del genere. Si salva Totò, anche se non è il migliore. Discorso a parte va fatto per "La marsina", per la regia ed interpretazione di un ispirato Aldo Fabrizi: se ne apprezza la bravura della recitazione e a volte si rimane incantati per la sua spontaneità espressiva. Il grande attore riesce, al contrario della marsina imprestata, a cucirsi addosso un bell'abito su misura!
Le incongruenze
- Film in quattro episodi. Primo episodio "La giara": dal minuto 0.19.00 al minuto 0.22.05 circa, la legatura della corda che tiene la giara, in diverse inquadrature, varia di posizione.
- Film in quattro episodi. Terzo episodio "La patente": al minuto 0.48.40 circa, Rosario Chiarchiaro (Totò) invita il venditore di minutaglie (Nino Vingelli) ad entrare in bottega. Il venditore appena prima di entrare lascia ad una signora degli scopini ma appena dentro la bottega nella mano destra regge gli scopini (che è anche mancante dello scopino che pende).
- Film in quattro episodi. Quarto episodio "Marsina stretta": a circa 1.01.34 il professore Fabio Gori (Aldo Fabrizi) nel misurarsi i pantaloni cade. Nel prendere dal comò la vestaglia per coprirsi cade la foto ...il vetro si rompe e la foto esce dalla cornice. Il colonnello Alonzo (Luigi Pavese) prende la foto ... la foto che è nella cornice.
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EPISODIO "LA PATENTE" - L'episodio è stato girato tutto in Piazza del Pebliscito a Nemi (Roma). Totò è accusato dagli abitanti di essere uno jettatore, così, dopo aver parlato col giudice per avere la patente, esce di casa, vestito di nero, occhiali scuri per farsi vedere dagli stessi abitanti raccomandando a tutti di testimoniare che lui è davvero uno jettatore altrimenti saranno guai. L'episodio comincia con Totò in casa, poi va a trovare il giudice (sempre senza esterni), entra in paese, esce dal vicolo a fianco al bar. Qui Totò entra in paese dopo aver parlato col giudice perchè vuole la patente da jettatore. | |||
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Poco dopo, sempre lì, incontra l'ex fidanzato della figlia con cui ha una discussione. |
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Balducci Armenia (Visconti Bella)
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Costantini Giorgio
Crispo Lino
De Filippo Pasquale
Fabrizi Aldo
Modugno Domenico
Serantoni Sergio
Totò e... Luigi Pavese
Totò e... Mario Castellani
Totò, il comico irripetibile
Riferimenti e bibliografie:
- "Totalmente Totò, vita e opere di un comico assoluto" (Alberto Anile), Cineteca di Bologna, 2017
- "I film di Totò, 1946-1967: La maschera tradita" (Alberto Anile) - Le Mani-Microart'S, 1998
- "Totò proibito" (Alberto Anile) - Ed. Lundau, 2005
- "L’avventurosa storia del cinema italiano, vol. 1", (Franca Faldini - Goffredo Fofi), Edizioni Cineteca di Bologna, Bologna 2009
- Mario Agatoni, «L'Europeo», anno X, n.1, 3 gennaio 1954
- "Totò" (Orio Caldiron) - Gremese , 1983
- Gian Luigi Rondi, «La Fiera Letteraria», anno IX, n. 9, 28 febbraio 1954
- "L'umorismo pirandelliano nella novella 'La patente' di Luigi Pirandello".- http://www.oilproject.org/