Le poesie di Totò - Approfondimenti e Stampa

La necessità della poesia: le liriche di Totò

«'A livella» e le altre...


Totò poeta: collage tipografico sulle poesie di Totò (‘A livella, liriche dialettali, rassegna stampa)


Non ho hobby, non vado a pescare e non raccolgo francobolli. In quanto a scrivere versi o canzoni, quello non è un hobby ma una necessità.

Totò


E adesso, se non vi dispiace, vogliamo parlare di Totò compositore? Da buon napoletano, perché è una cosa che abbiamo nel sangue. A Napoli, anche gli analfabeti sono in grado di improvvisare. Le poesie che preferisco lo ho scritte nel mio dialetto e hanno un’ispirazione fondamentalmente triste che si ripete come un leit-motiv. Molte poesie, che io stesso ho musicato, hanno trovato la strada del successo: di queste, la più nota è «Malafemmena».

Totò


Totò e la poesia: Malafemmena e le altre

I. Totò vs. Antonio de Curtis: il match infinito

Cominciamo con una verità lapalissiana (che però nessuno dice mai perché suona scomoda): nemmeno Totò poteva essere Totò per tutto il tempo. Perfino lui, re dei lazzi e dei nonsense, campione di smorfie e campione di slittamenti verbali e fisici, doveva ogni tanto respirare. Ogni tanto, sotto il turbine di gag e geometrie improvvise, di fiato corto e genio iperattivo, tornava fuori Antonio de Curtis, uomo col cognome nobiliare e lo sguardo perennemente malinconico.

Sì, perché Totò era la maschera, il guizzo, l’anguilla impossibile da afferrare, mentre De Curtis era il sedimento umano, serio, gentile, educato, un po’ triste come un signore anziano che non trova più la ricevuta del caffè pagato. E soprattutto era un uomo che scriveva poesie, come se fosse un gioco segreto o una camera segreta dove rifugiarsi quando il circo degli applausi diventava insopportabile.

II. Il clown

Nel grande topos romantico del “clown che piange”, ci caschiamo con tutte le scarpe, ma con grazia. L’autore del testo lo dice senza mezzi termini: Totò era un’entità aliena, un geroglifico animato, una specie di stemma araldico su due gambe. Ma — e qui il colpo di scena — c’era un “dietro le quinte” fatto di carne, pensieri e malinconia. Ed era lì che De Curtis scriveva versi d’amore come un adolescente troppo serio, cercando rime come altri cercano le chiavi di casa.

Questi versi non erano, come ci si potrebbe aspettare, un tripudio di sperimentazioni avanguardiste, ma un catalogo affettuoso di metafore consunte, sillabe scelte col cuore più che con la testa, proverbi, giochi di parole, rime da bigliettino d’amore infilato tra i banchi. Un’ingenuità quasi mistica, che più che poesia sembrava un modo per giocare con le parole finché non diventavano carezze.

III. Totò leggeva le poesie di De Curtis?

Domanda lecita, risposta surreale: no, non può averle lette, Totò non leggeva nulla — era una specie di extraterrestre, ricordiamolo. Ma se anche lo avesse fatto, dovremmo immaginare un geroglifico che sogna di essere uomo, o peggio ancora, un marziano che sogna di fare il romantico. Perché no? D’altronde le scimmie tentano da millenni di diventare uomini (e non ci riescono), e persino Dio a un certo punto ha deciso di incarnarsi in un umano (spoiler: non è andata benissimo). Quindi perché Totò, entità quasi divina della comicità, non avrebbe potuto sognare di essere Antonio?

IV. Dove nasce la poesia? In camerino, in salotto, o nella solitudine elegante?

La scena perfetta è questa: Antonio seduto in salotto, elegante come sempre, gambe accavallate, taccuino sulle ginocchia, due dita sul mento. Non un’epifania mistica ma una concentrazione laboriosa, quasi da scolaretto diligente. E attenzione: mentre Totò era un caos calcolato, senza età e senza limiti, il poeta De Curtis era più bambino di lui, serio, assorto, impegnato come un ragazzino che costruisce un castello con i Lego delle parole.

V. Il barboncino innamorato (o della metamorfosi erotico-canina)

Ed ecco il colpo di teatro finale: la donna, musa e mostro marino, fonte di estasi e di dissoluzione. La donna come mare che inghiotte, la donna come grembo che fa sparire, come vetrina di negozio dove si entra per essere scelti come cagnolini da compagnia. C’è in queste poesie un erotismo curioso, mescolanza inebriante di infantile e lascivo, di tenero e porcellino, che trova la sua vetta nel poemetto “Pe sta vicino a tte”. Lì, il gentiluomo innamorato si reincarna in barboncino nero, riccioluto, scodinzolante, desideroso solo di essere adottato e leccare mani femminili con gaudio e gratitudine.

Questo desiderio di essere amato passa attraverso la completa abolizione di sé, una dissoluzione identitaria non tanto tragica quanto teneramente ridicola. Un Totò travestito da cane che fa le feste a una padrona affettuosa. E in questo, forse, c’è la sintesi perfetta del suo modo di amare: un tuffo, un sprofondamento, un annullamento nel corpo e nel desiderio dell’altra. Un’esplosione sentimentale con la forma di un petardo comico.

VI. L’ultima risata è la più umana

Queste poesie, apparentemente semplici, sanno mimare la serietà della passione meglio di tanti poemoni seriosi. Perché in fondo in fondo (anzi: ‘nfunn’a stu mare), Totò-De Curtis ci mostra che l’amore, come la comicità, non ha senso, ma ha forma. E quella forma è sempre quella del desiderio di scomparire in un altro.

Ed è qui, in questo paradosso sublime, che il comico e il poeta si danno finalmente la mano. Totò, che rideva come un dio matto, e De Curtis, che piangeva come un uomo elegante: entrambi cercavano la stessa cosa, ma da due angolazioni opposte. E alla fine, anche noi, spettatori e lettori, non possiamo che inchinarci con rispetto e tenerezza davanti a questo doppio miracolo: l’uomo che si fingeva un clown per poi rivelarsi — tra una rima e un verso — infinitamente più vero di quanto osassimo sperare.


Antonio de Curtis si considerava ben distinto da Totò. La separazione tra l’uomo e la maschera è stata espressa in modo esemplare in un’intervista televisiva rilasciata a Lello Bersani. Dapprima a prendere la parola era il principe de Curtis che rispondeva così alla domanda di Bersani:

- Che differenza c’è tra lei e Totò?

- C’è una grande differenza. Io sono de Curtis e lui è Totò, che fa il pagliaccio, il buffone. Io sono una persona per bene, infatti lui in casa, lui normalmente mangia in cucina, mentre io mangio nella stanza da pranzo. Io vivo alle spalle di Totò, lo sfrutto. Lui lavora ed io mangio.

In seguito la domanda viene rivolta a Totò, che viene mostrato in cucina:

- Chi vi ha mandato? Lui, il Principe de Curtis, buono quello! Mi fa mangiare in cucina con il pappagallo e ci devo mettere solo dieci minuti. Disgraziato, mi tiene sotto. Questo mese non mi ha pagato nemmeno le marchette. Ma io mi rivolgo ai sindacati.

Vincenzo Mollica, 1982


Se le differenze tra la produzione teatrale e cinematografica prevalentemente comica e la produzione lirica di impostazione più seria sono evidenti, si può tuttavia notare come vi siano dei motivi ispiratori di fondo che attraversano tutta l’opera di Totò. Ad esempio la filosofia della divisione dell’umanità in “uomini” e “caporali” non ha ispirato soltanto molti film, ma anche varie poesie, in primo luogo ’A livella. Inoltre alcune poesie presentano divertite caratterizzazioni di personaggi macchiettistici, che possono essere ricondotte al Totò “comico”.

LE TEMATICHE

L’attenzione alla tematica della morte è caratteristica di alcune delle poesie più riuscite di Totò, accostabile in questa tematica tanatologica ad altre grandi voci della poesia dialettale di questo secolo, dall’abruzzese Alessandro Donmarco ad Albino Pierro (De Mauro 1987, p. 143). La poesia principe di questo filone è ’A livella (p. 32), con la sua visione della Morte come grande uguagliatrice delle differenze economiche e sociali. È la più celebrata poesia di Totò, che la recitò anche su un disco. Una testimonianza ci mostra come l’attore avesse avuto dei dubbi sulla buona riuscita del disco, dovuti alla mancanza in vinile della dimensione mimico-gestuale:

[Totò] trascorse la giornata di giovedì 13 aprile 1967 [due giorni prima della morte] sul set [del film I padri di famiglia, diretto da Nanny Loy], interpretando la scena di un uomo che segue un funerale. A sera, l’autista Carlo Cafiero gli aprì con deferenza lo sportello della Mercedes, aveva una busta fra le mani e, prima di piazzarsi al volante, gliela consegnò. «Altezza», disse Cafiero, «mi hanno portato or ora questo disco. E per voi», e avviò il motore.. [...] Totò si mise a contemplare il disco [...] conteneva su una faccia l’incisione della poesia ’A livella e sull’altra quella della poesia [sic; in realtà è uno sketch] Pasquale e doveva essere il primo di una lunga serie di registrazioni, tutte curate dalla Cetra. «Cafié, sai che sto pensando?», fece d’improvviso Totò. «Lo regalo a te questo disco. A me non mi va di ascoltarlo. Manca la mimica, capisci, nei dischi, e se a me mi si toglie la mimica addio». Tacque un attimo, poi aggiunse: «Cafié, ma tu lo accetti volentieri questo disco?». «Ma per me è un onore, altezza» «A prescindere dall’onore, Cafié, dimmi la verità. Ti sei scordato la storia di Malafemmena? La feci sentire a te per primo, in macchina, quella canzone, e tu mi dicesti che era una lagna. Cafié, confessa: nemmeno ’A livella ti piace?» «Altezza vi giuro che mi piace»

Vincenzo Paliotti, 1977


Totò poeta riluttante e filosofo del dubbio serale.

Ci troviamo catapultati, senza alcun preavviso se non la fine di una non meglio specificata "stagione", in un contesto di mondanità balneare di altissimo profilo: il "Lido Azzurro" di Torre Annunziata. Non un lido qualunque, si badi bene, ma il teatro designato per un evento di portata cosmica (almeno per quella sera): il Gran Gala per l'assegnazione dell'Ippocampo d'oro. E chi ti scorgiamo, annidato come un volatile notturno ma elegantissimo, tra due dame il cui charme possiamo solo immaginare (ma immaginiamolo opulento)? Nientemeno che Lui, il Principe Antonio De Curtis, alias Totò.

Seduto nella tribunetta dei predestinati al metallo prezioso (o forse dorato?), il nostro eroe non è ritratto nella sua consueta esplosione di comicità cinetica. No. È un concentrato di visibile emozione, schermato – quasi a voler celare un'anima troppo nuda per l'occasione – da impenetrabili occhiali scuri. Attraverso queste lenti, però, il suo sguardo non può fare a meno di "sbirciare" il palco, epicentro del suo imminente destino da premiato. L'attesa è palpabile, quasi densa come la brezza marina carica di salsedine e aspettative.

E poi, il momento fatidico. La voce tonante (o forse solo amplificata) del presentatore scandisce il nome che è insieme blasone e identità: "principe Antonio De Curtis". L'effetto sul suddetto principe è elettrico, quasi pavloviano. Uno scatto, un'alzata repentina che tradisce non l'orgoglio del trionfatore, ma l'imbarazzo quasi infantile di uno scolaro colto in flagrante... di merito! Il sorriso che affiora è descritto come "impacciato", quello di chi sta per ricevere non un trofeo oplontino (parola che già di per sé evoca fasti antichi e forse un po' polverosi), ma l'encomio solenne dal temutissimo "signor preside". E dalle labbra principesche sfugge un sospiro che è confessione e presagio: "Mammia mia, e adesso che succede?...". Ah, l'angoscia dell'ignoto glorioso!

Il narratore, testimone oculare di questo dramma interiore da red carpet, ci rivela un retroscena ancor più succulento: Totò, in quel preciso istante, avrebbe volentieri barattato la gloria imminente con una fuga strategica. Una ritirata a gambe levate, lontano dai riflettori e dalle formalità. Perché? Due motivi, entrambi squisitamente Totò-eschi: primo, le cerimonie ufficiali lo intimidivano (lui, il dominatore delle platee!); secondo, in mezzo a cotanti "valentuomini" (termine che suggerisce una maschia e seriosa competenza), lui si sentiva un corpo estraneo, un "intruso". Un paradosso vivente: il Re della Risata che si percepisce come l'ultimo arrivato alla festa dell'intelligenza.

Ma il pubblico, quella massa informe eppure così sensibile, non è d'accordo con questa auto-svalutazione principesca. Un lungo applauso, non richiesto, non pilotato, sorge spontaneo e avvolgente. È un messaggio chiaro, inequivocabile: "No, Principe, non sei un intruso. Sei Totò. E sei bravo, e ti vogliamo un bene dell'anima." L'affetto popolare come antidoto all'insicurezza aristocratica.

La cerimonia prosegue. Il presentatore impugna la pergamena (immaginiamola preziosa, magari con sigilli in ceralacca) e legge la motivazione del premio. Di fronte a questo fiume di elogi, Totò non può che reagire alla sua maniera: con quel suo gesto largo, caratteristico, che sembra spazzar via l'eccesso di lodi, un invito non verbale alla moderazione: "Ma non esageriamo, suvvia!". Prende la parola, l'emozione ancora vibrante nella voce: "Signori, vi ringrazio, sono veramente commosso...". Ma il copione della serata viene stravolto da un'irruzione dal basso, dalla platea. Un grido si leva, unanime e perentorio: "A livella! Recita ’A livella".

Questo non è più solo un premio. È una richiesta specifica, un desiderio collettivo che va dritto al cuore dell'uomo dietro la maschera. E Totò, a questo punto, si commuove davvero. Non più l'imbarazzo, ma una gratitudine profonda, intensa. Quell'invito a recitare la sua poesia è il riconoscimento supremo, quello che lo colloca non solo tra i grandi del cinema o del teatro, ma nel pantheon dei grandi della poesia napoletana. Un'investitura popolare che vale più di mille Ippocampi d'oro.

Ed ecco che il testo ci apre una finestra sull'anima del Principe-Poeta. La poesia, ci viene spiegato con dovizia di particolari, non era un passatempo ozioso, un "hobby" marginale da salotto buono. No, era molto, molto di più. Era un'esigenza profonda, un momento di sincerità assoluta, una confessione con se stesso. Lontano dai "clamori del pubblico", dalle risate scroscianti, dagli applausi fragorosi che nutrivano l'attore, Totò il poeta cercava il raccoglimento. Era l'ora della "melanconica saggezza tutta partenopea", quella filosofia agrodolce che lo portava, con disarmante naturalezza, a meditare sulla caducità delle cose terrene, sulla vanità delle fortune umane.

"’A livella", quella poesia che il pubblico reclamava a gran voce, diventa così l'emblema, l'espressione più cristallina di questa vena poetica carsica. Una vena che per anni aveva cercato faticosamente il suo corso, spesso "distratta" – quasi ostacolata – dall'intensità della sua carriera d'attore, dai successi sfolgoranti, dallo "splendore" un po' effimero del mondo dello spettacolo. La poesia come isola segreta in un mare di celebrità.

L'amore di Totò per la parola in versi, apprendiamo, non nasce con la maturità o con "'A livella". Ha radici profonde, affonda negli anni giovanili, nel cuore pulsante del rione Sanità. Lì, ancora ragazzino, intrecciava epigrammi arguti e popolari sui personaggi pittoreschi del quartiere. Ci viene offerto un esempio fulminante: «Don Rafele è troppo guappo — ca ’mulletta e co’ ribotto — ma si sente meza ’botta — nun ’o truove-, piglia e scappa...». Un quadretto fulmineo, un ritratto in poche rime che già rivela l'occhio acuto e l'ironia bonaria.

Questo stesso estro bonariamente satirico è la fucina da cui nasceranno le sue celebri "macchiette" teatrali. Fin dai tempi del mitico teatrino romano di Francesco De Marco, detto "’O ’nfru" (un nome che da solo meriterebbe un trattato), Totò aveva iniziato a popolare il palcoscenico con una ricca galleria di personaggi, osservati e trasfigurati attraverso il filtro della caricatura popolaresca. La stessa vena che nutriva la poesia, alimentava la comicità.

Ma l'irrequietezza creativa del Principe De Curtis non si ferma qui. Le sue creazioni poetiche tentano l'approdo nel mondo della canzone. Forse, ci viene detto con cautela, "con poca fortuna" in generale, ma sempre – e questo è il punto cruciale – con "sincerità di intenti". Non era un'operazione commerciale, ma un'altra via per esprimere quel mondo interiore. E poi, ecco il colpo d'ala: negli anni della maturità, precisamente nel 1951, Totò coglie un successo clamoroso, "notevole", anche nel campo minato della musica leggera. La canzone è "Malafemmena", un brano che, ci viene spiegato con acume critico, spicca per la "spontaneità del tema musicale" e per "l'impostazione gagliardamente passionale". Un successo non casuale, ma figlio di un'ispirazione autentica.

La sua produzione musicale, pur non definita "eccezionale" (un eufemismo per dire che non fu vasta come quella attoriale, forse?), è comunque costantemente "improntata a sincerità di cuore". Il testo elenca poi una serie di titoli, come perle di una collana intima: "Dincello", "Mamma mia", "Casa mia", "Sulo", "Core analfabeta", "Tu si tutto pe’ ’mme", "Cun te", "Nemica", "Nun si ’na femmena", "L’ammore avesse a essere". Poesie scritte negli ultimi vent'anni della sua vita, alcune musicate da lui stesso, altre affidate alla silenziosa eloquenza della pagina scritta. Si menzionano anche due incursioni nella lingua italiana: "Passione" e "Non voglio amare più". Un catalogo che testimonia una costanza creativa, un bisogno insopprimibile di dire attraverso la poesia e la canzone.

Infine, una riflessione conclusiva, quasi un bilancio esistenziale e artistico. È "probabile", ammette l'autore con onestà intellettuale, che molte di queste poesie non varcheranno le soglie sacre del Parnaso, l'Olimpo della letteratura immortale. Ma – e questo "ma" è fondamentale – è "innegabile" che i suoi versi scaturissero da sentimenti profondi e sofferti. Non erano esercizi di stile, ma "squarci di meditazione" su esperienze realmente vissute. Tra le rime, sovente, si intravede l'ombra della morte. Una morte che lui, Totò, temeva soltanto in una specifica circostanza: se lo avesse colto lontano dalla sua Napoli. Un legame viscerale, quasi ancestrale, con la città. E con questa compagna ultima e inevitabile, la morte, Totò scherzava. Non con irriverenza, ma con "garbo" e con quella "tipica familiarità del napoletano", capace di instaurare un dialogo cordiale e spiritoso anche con una presenza così "sgradevole". L'ironia come esorcismo, la leggerezza come forma suprema di profondità.

Ecco, dunque, sviscerato fino all'ultima virgola ironica, il ritratto di Totò emerso da quella serata a Torre Annunziata: un gigante timido, un poeta nascosto sotto la maschera del comico, un uomo profondamente legato alle sue radici e capace di dialogare con la vita e la morte con la stessa, inconfondibile, agrodolce saggezza napoletana. Fine dell'analisi (spropositatamente) dettagliata. Si spengono i riflettori della pignoleria. Sipario. Applausi (lunghi, speriamo). 


Così la stampa dell'epoca

Un disco di Antonio de Curtis

Totò recita le sue poesie

Totò: Poesie di Totò dette da Totò; Ufficio di collocamento (Corbucci); Lallo, parrucchiere per signora (De Curtis); Serafino Bolletta premio Nobel (Corbucci); Vagone letto (De Curtis); Medaglia al valore civile (De Curtis-Galdieri), Fonit-Cetra LPP 99.

Sono pochi mesi soltanto da quando in questa rubrica avevamo parlato di un piccolo disco a 45 giri di Antonio De Curtis-Totò. Disco che faceva divertire ma che lasciava perplessi per aspetti puramente tecnici. Nel frattempo il grande artista è scomparso e prendendo in mano questo bel long playing a lui dedicato, ci si sente a disagio.

Il disco è un omaggio alla inconfondibile voce di Totò, un suo recital postumo destinato a rimanere immutato per sempre. Quanta magia nella nostra moderna capacità di eternare la voce umana, la sua cadenza, lo sue flessioni personali, l'indiavolato spirito di un artista dialettale come Totò.

Nella prima facciata c'è una serie di poesia di Totò da lui stesso recitato: come poeta egli si era riallacciato al miglior filone della poesia dialettale; forse confrontato con un Di Giacomo al quale i suoi versi fanno pensare continuamente), Totò ha il grande vantaggio di averci recitato la propria poesia lui stesso, facendosi forte della doppia arte di poeta e di attore. Come in tutto ciò che egli faceva, l'ascolto di queste poesie ci tiene in bilico tra il ridere e il piangere. Felicità, Statuetta, La filosofia del cornuto, non ci si stanca a riascoltarle.

Ma sulla stessa prima facciata ci sono anche due sketch, uno più buffo dell’altro, nei quali Totò è affiancato dall'inseparabile Mario Castellani e da Cesare Gelli e Corrado Olmi. Lallo, parrucchiere per signora è irresistibile.

Sulla seconda facciata altri sketch, anche questi divertenti e ottimamente recitati. Peccato che il disco non sia accompagnato da una nota sul protagonista.

r. la., «La Stampa», 21 luglio 1967


La vita? Per fortuna è una livella

Gentile Dott. Fiorentino, la ringrazio infinitamente per i complimenti e per le felicitazioni che ha voluto inviarmi a proposito della mia poesia "A Livella ”, complimenti che mi sono giunti particolarmente graditi appunto perché provenienti da lei, che io tanto stimo come editore di gran gusto e cultura. Riguardo al suo invito di pubblicare eventualmente le mie poesie sarei certamente oltremodo felice di dare la precedenza alla sua bella seria e stimata Casa Editrice, sempre che lei naturalmente (e senza alcun complimento) le ritenga all'altezza.

Parto domani per una breve vacanza all'estero e sarò di ritorno a Roma verso il 20 novembre, pertanto se per quell'epoca lei sarà sempre del parere di mettersi in contatto con me, potrei sottoporle i manoscritti. La ringrazio nuovamente e gradisca i miei saluti più cordiali».

Firmato: Antonio De Curtis.

Così il principe attore scriveva, non senza qualche trepidazione, all’editore napoletano Fausto Fiorentino nell’autunno del 1963. Totò, e non era un segreto, si dilettava moltissimo nel comporre versi. Amava trascorrere le notti insonni seduto alla scrivania in compagnia di penna e calamaio. Scriveva e correggeva. Ma non amava far circolare o leggere in pubblico le sue poesie. Pare che questa confidenza fosse riservata soltanto al suo autista, che sapeva amante profondo dei versi di Salvatore Di Giacomo.

Le poesie vennero pubblicate dall’editore Fiorentino soprattutto grazie alla sua intraprendenza. Avutane notizia, scrisse una lettera a Totò chiedendogli un incontro. L’incontro avvenne e dopo un breve scambio epistolare (da cui la lettera sopra trascritta e gentilmente dataci dal figlio di Fausto, Stefano) Fiorentino si trovò fra le mani l’atteso manoscritto. Da lì alla pubblicazione il passo fu breve. Le paure e le ansie subito superate. Fiorentino studiò con grande cura il progetto. In copertina volle una foto con la vera «maschera» di Totò: lo sguardo un po’ triste, le labbra serrate in una smorfia, l’immancabile sigaretta fra le dita e l’anello nobiliare distrattamente mostrato. Prezzo popolarissimo e distribuzione mirata. In pochi mesi tutte le edicole delle grandi stazioni metropolitane ne furono invase. Ed è qui, nelle sale di attesa delle stazioni e sui vagoni dei treni ferroviari che fulmineamente si costruisce la fortuna editoriale delle poesie di Totò. Dal ’64, anno della prima edizione, si sono susseguite numerose ristampe e le copie vendute sono state migliaia e migliaia. Ci fu anche, e come poteva mancare, un falso. Visto Io straordinario successo qualcuno pensò di stamparne una edizione pirata. Non fu mai dato sapere quante furono le copie falsificate, anche se qualcuno giura su una tiratura non inferiore alle 50 mila.

Fortuna completamente diversa ebbero invece le poesie postume di Totò, Dedicate all’amore, (Colonnese editore). Scritte in gran parte alla compagna Franca Faldini, furono ritrovate circa dieci anni dopo la scomparsa dell’artista, e stampate nel ’77 con una testimonianza di Gassman e una nota di Ghirelli. Il libro non andò oltre qualche piccola ristampa.

La maschera di Totò ispira anche i poeti: il grande attore Franco Manzoni ha recentemente intitolato una raccolta di versi (Totò, Fonèma edizioni, pagine 92, lire 15.000).

Antonio Troiano, «Corriere della Sera», 11 novembre 1990


Quell'altro Totò che scriveva versi

Poesie e canzoni del grande comico

Ho scoperto Totò al cinema. In teatro non ho mai avuto occasione di vederlo. I gran finali, le passerelle delle sue riviste compiute a tu per tu con la Magnani, con Lucy D’Albert o Wanda Osiris, gli scoppi di grancassa, i contorsionismi fisici appresso alle ragazze del balletto: so lutto da racconti altrui. Ero un ragazzino di dodici o tredici anni, andavo al cinema e vidi «Fifa e arena». Ricordavo in modo confusissimo un altro film, visto anni prima: «San Giovanni Decollato». Ne avevo riso fino alle lacrime. Diventai un fan di Totò. Per anni non persi un suo film. «I pompieri di Viggiù», «Totò a colori», «Yvonne la nuit», «Totò cerca casa», «L’imperatore di Capri», «Totò cerca moglie», «Totò Tarzan», «Totò sceicco»: tornai a vederli più volte. Anche quel magnifico «Guardie e ladri» di Monicelli, dove la fuga e la rincorsa con Fabrizi, Totò pataccaro e ladro, e Fabrizi guardia, è un vertice ineguagliato di commedia, un momento di fuggevole magia in cui i due attori riescono a esprimere, con la casualità di un'arte che è rivolta e vittoria, le astuzie, i bisogni e le possibili derive di un popolo che faticava a girare il volano della «ricostruzione».

Allora non capivo niente di tutto questo: andavo al cinema per vedere Totò e per sentirmi: investito o posseduto dalla necessità di ridere. E ridevo. Nei film che ha girato, si poteva pensare che Totò disperdesse il proprio talento. Lui stesso lamentò la routine faticosa cui la macchina del cinema lo aveva condannalo. Per lo più produzioni di nessuna qualità, spesso registi mediocri. In una recentissima intervista, Fellini ha detto: «Che assurdità. Quante volte s’è sentito dire: peccato che Totò non abbia trovato un grande regista. Un po’ come dire: peccato che la giraffa non abbia trovato qualcuno che abbia saputo farle fare la giraffa. Lui era un fenomeno naturale, da fotografare così com’era. Un gatto, un bradipo. L'albero di Natale. O Venezia».

E' così. Cosa di diverso ha compiuto Pasolini con Totò in «Uccellacci e uccellini», ne «La terra vista dalla luna» o in «Che cosa sono le nuvole»? Lo ripete spesso: ritrovare in Totò il dato naturale che certa corrività cinematografica poteva aver offuscato in lui, «opporre esistenza a cultura, innocenza a storia».

Ma chi era Totò? Rispondere è un esercizio non da poco. Dario Fo, in un libretto fresco di stampa, «Totò. Manuale dell’attor comico» (Aleph ed.), argomenta che Totò sia stato l’incarnazione di un eterno Arlecchino: «Dell’Arlecchino delle origini, egli ha saputo ripetere la versatilità, la disponibilità a far tutto». Per quanto Dario Fo cerchi di renderla screziata, e sappia sostenerla con esemplificazioni tecniche, a mio giudizio, quella definizione va stretta a Totò. Proprio nel suo libro, Fo riporta una citazione di Flaiano che schiude l’argomento verso altro: «Nella frantumazione della commedia dell’arte, mentre i "servi" Brighella, Arlecchino, Pulcinella si sono dati a rappresentare il mondo possibile nelle vesti dei loro padroni, Totò si è dedicato a illustrare, come in una striscia comica, l’assurdo della sua presenza in quel mondo».

Chi era Totò? La risposta, una risposta intrisa di veritieri umori novecenteschi, dialettica, la argomenta Ruggero Guarini nella prefazione a un «TuttoTotò» dove l’editore Gremese ha raccolto poesie, canzoni, sketch del geniale comico.

E' proprio la natura umbratile, piccolo borghese, dei versi di Totò a scatenare Guarini. Totò, dice Guarini, aveva con il proprio personaggio un rapporto di «assoluta estraneità». Nessun rapporto fra quel personaggio «sulfureo e mercuriale, plebeo e fallico, acrobatico e ingovernabile» che saliva in scena e dava la febbre al pubblico giocando con se stesso, la propria faccia, come un automa soggiogato da Dionisio, e l’elegante, silenzioso gentiluomo napoletano che scriveva «'Na vota sulamente t'aggio visto / e chella volta sola m'è bbastata, / pe nun te scurdà cchiù».

Il Totò che scrive versi ha un’imprevedibile natura crepuscolare: è il principe De Curtis che si stupisce, come ha scritto, se il portiere del palazzo romano dove abitava, dopo averlo visto in scena, invece di salutarlo con deferenza come al solito, gli ha riso in faccia: «Da allora, non fui più per lui una persona rispettabile, ma un saltimbanco». Guarini spiega molto bene la rifrazione profonda e ambigua, ispirata a sincerità e a menzogna psicologica che correva fra quella «persona rispettabile» e il «saltimbanco».

Totò diventa Totò nel momento in cui scopre, sdoppiato, di poter intraprendere un «derisorio rapporto con se stesso», con quel se stesso che è un guscio di buone abitudini e che diventa materia di una parodia à suivre, una parodia infinita di tipi esumati da quel paese d’enigmi che è «il Perturbante». Ciò che Totò portava alla luce era la festa anarchica del vivere, la festa che percuoteva l’Italia dell’immediato dopoguerra. E se si obietta che Totò, con i suoi «grandi numeri» d’avanspettacolo era un eroe del varieté fin dagli anni Trenta, Guarini risponde che «occorreva solo un grande evento — come la generale follia del dopoguerra — perche in quello spirito... ci riconoscessimo tutti».

Insomma, Guarini, ci disegna sotto gli occhi un Totò folgorato dal male del secolo, la schizofrenia. «Leggeva Totò, l’immortale, le poesie del suo doppio mortale? A questa indiscreta domanda coerenza e logica dovrebbero indurci a rispondere con un secco e deciso "no"». Immaginare Totò assorto nella lettura di se stesso sarebbe come «immaginare un geroglifico che sogna di essere un uomo, un segno araldico che desideri procurarsi un corpo, o un extraterrestre che in un momento di noia, di curiosità o di distrazione ceda ogni tanto alla tentazione di prodursi sulla scena dei sentimenti umani. Ma sognano i geroglifici? Hanno desideri gli stemmi? Sono sentimentali i marziani?».

Enzo Siciliano, «Corriere della Sera», 24 dicembre 1991


Tredici canzoni in un cd

Da morto, nel 1967, Totò aveva parecchi nomi (Antonio De Curtis Gagliardi Griffo Focas Comneno di Bisanzio), da neonato, cent'anni fa il 15 febbraio, ne aveva solo uno: Antonio Clemente. E come tale il futuro comico scoprì il teatro imitando Gustavo De Marco, artista famoso che faceva la marionetta. Così nacque la maschera di Totò: superando il maestro, il successo arrivò nell'avanspettacolo con Guglielmo Inglese (anni Trenta) e poi nella rivista (anni Quaranta) con Anna Magnani e Michele Galdieri. Al cinema, dopo il debutto in «Fermo con le mani» (1937), la consacrazione giunse nel 1947 con «I due orfanelli». Da qui parte una cascata di titoli celeberrimi, da solo o in coppia con altri grandi attori, da Peppino De Filippo a Aldo Fabrìzi, fino all'esperienza finale con Pier Paolo Pasolini in «Uccellacci ed uccellini». La creatività di Totò fu multiforme e fatta anche di versi, musiche e canzoni. A questa produzione è dedicato un cd edito da «l'U», intitolato «Totò, il Principe e la malafemmina» che riunisce le versioni inedite, delle canzoni di Totò interpretate da Enzo Moscato, Giacomo Rondinella, laia Forte e Maria Pia De Vito. Il cd sarà presentato da Liliana De Curtis, figlia di Totò, domani a Roma, nella sede dell’Eti in via in Arcione.

«L'Unità», 11 febbraio 1998


Canzoni e poesie del grande attore in una raccolta a cura delle iniziative de «l'Unità»

«Il principe e la Malafemmena»: ecco Totò in cd

Versioni classiche e incisioni inedite affidate a giovani artisti. Liliana de Curtis: «se la RAI non lo celebra, c'è sempre Mediaset»

«Altezza, mi pare una lagna»: così il lapidario giudizio di Salvatore Cafiero, autista del principe De Curtis, dopo il primo ascolto di Malafemmena. E Totò, di rimando: «E tu sei un fesso». L'aneddoto è tornato a circolare durante la conferenza stampa di presentazione di Totò, il Principe e la Malafemmena, un cd di canzoni e poesie del grande attore, realizzato da l'U, in occasione del centenario della nascita che si celebra il 15 febbraio. Il cd viene distribuito in edicola, a 20.000 lire, assieme ad una maglietta riproducete immagini e parole di Totò. Le magliette sono realizzate dalla Rebibbia Jail Cooperative, un gruppo di ragazzi e ragazze recluse nel carcere minorile di Casal Del Marmo di Roma. «Una parte dei ricavi delle vendite - ha spiegato la figlia di Totò, Liliana De Curtis, presente alla conferenza stampa -serviranno a questi giovani per aiutarli quando usciranno dal carcere. È una bella iniziativa che speriamo di ripetere anche col carcere minorile di Nisida».

Le incisioni del cd, realizzato da Flaviano De Luca e Alessandro Spinaci, sono quasi tutte inedite e sono eseguite da un gruppo di artisti napoletani: dalle neomelodiche Ida Rendano, Maria Nazionale e Pina Cipriani a Consiglia Licciardi, Enzo Moscato, Giacomo Rondinella, Maria Pia De Vito. Alle canzoni, tra cui ovviamente c'è anche la classicissima Malafemmena, si aggiungono 3 poesie di Totò, recitate dall'attrice Iaia Forte, e la celeberrima 'A livella, declamata dallo stesso Totò. Una miscela di interpretazioni classiche e rivisitazioni con sensibilità odierne, e persino qualche sperimentazione vocale, come quella di Maria Pia Fusco che si lancia in vocalizzi jazz ne II cigno di Caianello.

Il cd realizzato dalle iniziative editoriale de l'Unità, è una delle tante iniziative per il centenario della nascita del grande attore napoletano. Un anniversario che si porta dietro anche qualche pole-
la Rai non si decide in tempo, rischia di saltare tutto. Comunque abbiamo fiducia». Positiva conclusione, invece, per il museo dedicato a Totò che, come ha annunciato la Agostini, finalmente si farà. Dovrebbe aprirsi entro quest'anno, in un palazzo del rione Sanità, a pochi passi da dove nacque Totò. E mentre una bella mostra sul Totò letterato sta girando l'Italia e fa tappa al Teatro dei Dioscuri a Roma, ancora nulla di fatto per un progetto di una grande mostra sull'attore che dovrebbe tenersi al palazzo delle Esposizioni di Roma. «Il progetto l'abbiamo presentato da tempo - ha spiegato Paola Agostini - all'assessore Gianni Borgna che ora lo ha girato al neopresidente del Palaexpo, Renato Nicolini. Ma fino ad oggi non abbiamo avuto risposte. Anche in questo caso abbiamo fiducia e pazienza. Ma come direbbe Totò, ogni limite ha una pazienza».

Renato Pallavicini, «L'Unità», 13 febbraio 1998


La poesia inedita di Totò

E lo sfogo di uno scapolo che vuole fuggire alle nozze E testo in mostra a Napoli

Quaranta versi in tutto, mai letti fino a oggi e composti dall’artista-attore-poeta-e-principe della risata per antonomasia: Totò. «Pecché m’aggia ‘nguaià? / M’aggia spusà ‘na femmena / ca nun saccio chi è...». Titolo della poesia, ‘O matrimonio. Tema, l’atteggiamento canzonatorio di un «ommo anziane», scapolo impenitente, di fronte alle nozze auspicate da mammà.

Quaranta versi — perlopiù settenari e ottonari con rime libere, in dialetto napoletano — appartenenti a uno dei quattro componimenti poetici inediti di Antonio de Curtis, spuntati fuori in questi giorni in occasione del cinquantenario della morte dell’artista (15 aprile 1967) nonché pezzo forte della mostra Totò Genio che giovedì apre i battenti a Napoli in tre diverse sedi: Palazzo Reale, Maschio Angioino e Convento di San Domenico Maggiore.

Tre, le sedi, come tre furono i funerali (uno a Roma e due a Napoli) per Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio, uomo d’eccezione fin dalla chilometrica anagrafe (Abbondandis in abbondandum! avrebbe potuto dire il principe citando se stesso nella famosa lettera dei fratelli Caponi).

Dunque una monumentale antologica che, spiegano i curatori Alessandro Nicosia e Vincenzo Mollica, «intende mettere in luce la grandezza di uno dei maggiori interpreti italiani del Novecento, artista universale, figura poliedrica che ha giocato la sua vita gomito a gomito con l’arte dello stupore». Un’arte ora ricostruita con centinaia di testimonianze — inedite, rare, note e meno note — a partire dal celebre baule di scena che Totò portava sempre con sé nei teatri e sui set e ora esposto nella sala Dorica di Palazzo Reale, la stessa che ospita i testi delle quattro poesie appena depositate alla Siae.

Tra i partner di questa triplice esposizione anche Rai, Istituto Luce e Archivio centrale dello Stato, da dove provengono i materiali relativi al rapporto tra Totò e l’implacabile censura del tempo, sia in epoca fascista, sia con i vari governi democristiani (ben 82 tagli solo sul film Totò e Carolina di Mario Monicelli). E c’è anche una sezione sul Totò testimonial pubblicitario, con varie campagne tra cui quella per la Fiat Gran Luce, l’automobile che negli anni 50, era pre boom, rappresentò il sogno di tanti italiani.

Edoardo Sassi, «Corriere della Sera», 8 aprile 2017


I suoi stereotipi su noi donne che continuiamo ad amarlo

Dolore - Ma nelle sue parole ci sono rimpianto e disillusione per alcuni rapporti

Grandissimo artista del quale nessuno discute i meriti, Totò è anche un «poeta laureato»: alcuni giorni or sono l’università Federico II di Napoli gli ha giustamente conferito una laurea honoris causa. E oggi alla sua produzione poetica si aggiungono dei versi inediti: una vera fortuna per chi, come chi scrive, ha sempre amato le sue poesie, e in particolare (per amore dello straordinario dialetto), quelle scritte in napoletano. Intitolato ‘O matrimonio, l’inedito parla di uno degli argomenti più ricorrenti nella produzione di Totò: le donne, che egli amava molto e delle quali spesso si innamorava. Ma qui stava il problema:

«L’ammore — scrive ne L’imbroglio — è ‘nu signore/ travestito ‘e gentilezze e poesia,/ vase, abbraccie e gelusia. S’e presenta comme uno/serio, onesto, cunsistente/ e te nganna a tanta gente,/quanta ggente fa cadè!»
La ragione è ovvia: «A femmena — nella poesia omonima — è na bella criatura/ e quase sempe è ddoce comm’ ‘o mmele;/ ma è vvote chistu mmele pe sventura,/perde ‘a ducezza e addeventa fele».

Da miele a fiele: una trasformazione quasi inevitabile che induce il protagonista dell’inedito a rifiutare il matrimonio con motivazioni che svelano un’opinione non esattamente positiva delle donne: leggere, volubili, traditrici... Dispiace dirlo, i luoghi comuni della più trita, banale antichissima misoginia. Ma a ben vedere in questo quadro non si legge il disprezzo che di regola sta dietro la misoginia. Si legge piuttosto dolore, disillusione, rimpianto per quello che un rapporto d’amore avrebbe potuto essere e troppo spesso non è stato. Salvo in un caso: la sua storia d’amore con Franca Faldini, la donna con cui ha diviso gli ultimi anni della vita e alla quale ha dedicato una dolce, bellissima poesia. E questo è bello, per lui e per noi (donne) che lo amiamo.

Eva Cantarella, «Corriere della Sera», 8 aprile 2017


Versi e canzoni così raccontava l'uomo oltre Totò

L’artista affidava spesso allo scritto la malinconia esistenziale

In un gioco di ruoli che riconducevano sempre a lui, ai mille aspetti della sua arte, durante l'intervista Rai concessa al giornalista Lello Bersani nel 1963, un elegante Principe Antonio de Cur-tis nella sua casa romana raccontava che Totò, con tutto l'armamentario di sberleffi, la maschera plastica, la battuta sagace che ribaltava ogni situazione, si trovava di là in cucina, insieme alla servitù.

Totò, insomma, era un altro. Quello che andava in scena, pronto quando il regista gridava ciak. Però poi c'era un ulteriore lato della sua personalità, oltre il set, lontano dal teatro.

Il Totò intimo, che affidava una malinconia esistenziale, lo sgomento d'amore per una donna, la nostalgia per la lontananza da Napoli, le riflessioni sulla morte, alla pagina, componendo poesie, versi scritti su foglietti o dietro i pacchetti di sigarette, le immancabili Turmac.

L'INTERVISTA

Nell'intervista Rai fatta da Lello Bersani nel 1963, Antonio de Curtis gioca con il giornalista, sdoppiando la figura dell'uomo da quello della maschera di Totò

'A LIVELLA

Nel 1964 l'Editore Fiorentino pubblica la raccolta di poesie in napoletano scritte da Totò: la raccolta si arricchirà di altre composizioni nel decennale della morte dell'artista

LA LINGUA

Nelle liriche e nelle canzoni Totò scelse di utilizzare il napoletano: scriveva su foglietti e dietro i pacchetti di sigarette nella lingua madre, legame continuo con Napoli

Nel 1964 fu pubblicata, dall'Editore Fiorentino di Napoli, 'A livella, raccolta che si arricchirà, in occasione del decennale della morte di Totò, di un corpus di liriche d'amore dedicate all'amata Franca Faldini.

In ognuna delle poesie la lingua è quella madre, il napoletano, che riannoda il filo mai rescisso con la città, strumento, come per Di Giacomo, che suona le corde più intime, riproducendo dell'amore un fragore inarginabile. «Schiuppanno all'intrasatta dint' ' a 'stu core / he dato vita nova a chesta vita», in All'intrasatta.

E poi la morte, tema ricorrente, spietata e nuda, che senza artifici diventa unica occasione per annullare ogni divisione sociale, come nella più celebre 'A livella, il suo manifesto poetico, quando in un cimitero battibeccano le anime del netturbino e del marchese.

«A morte 'o ssaje ched'è?... è una livella. / 'Nu rre, 'nu maggistrato, 'nu grand'ommo, / trasenno stu canciello ha fatt' 'o punto / c'ha perzo tutto, a vita e pure 'o nomme».

Pier Luigi Razzano, «Repubblica», 15 aprile 2017


🎭 Conclusioni

Tra le poesie di Totò emergono una lingua viva e una malinconia lucida: dalla celebre ’A livella alle liriche dialettali, fino alle poesie musicate che dialogano con la sua produzione canora. In questa pagina trovi contesto storico, riferimenti di stampa d’epoca e collegamenti interni per navigare tra testi, canzoni e testimonianze, valorizzando fonti verificate e cronologie utili per studiosi e appassionati.


Riferimenti e bibliografie:

  • Le poesie di Totò sono state citate da "TuttoTotò", a cura di Ruggero Guarini, Roma, Gremese, 1991.
  • Consiglio 1986 - Alberto Consiglio, "Spiriti e forme della poesia napoletana", introduzione Id., Antologia dei poeti napoletani, Milano, Mondadori
  • Tullio De Mauro, "L’Italia delle Italie", Roma, Editori Riuniti Gassman 1982
  • Vittorio Gassman, Testimonianza, in "Totò, Dedicate all’amore", Napoli, Colonnese
  • "Tutto Totò" (Ruggero Guarini) - Gremese, 1991
  • Giuseppe Di Bianco, «A Totò», opuscolo "Premio De Curtis", Napoli, 1973
  • Vincenzo Mollica, "Totò parole e musica", Roma, Lato Side Paliotti 1977
  • "Totò, principe del sorriso" (Vittorio Paliotti) - Fausto Fiorentino Ed., 1977
  • Pier Luigi Razzano, «Repubblica», 15 aprile 2017

Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
  • r. la., «La Stampa», 21 luglio 1967
  • Antonio Troiano, «Corriere della Sera», 11 novembre 1990
  • Enzo Siciliano, «Corriere della Sera», 24 dicembre 1991
  • «L'Unità», 11 febbraio 1998
  • Renato Pallavicini, «L'Unità», 13 febbraio 1998
  • Edoardo Sassi, «Corriere della Sera», 8 aprile 2017
  • Eva Cantarella, «Corriere della Sera», 8 aprile 2017
  • Pier Luigi Razzano, «Repubblica», 15 aprile 2017