È morto il principe Totò
Improvvisa scomparsa del grande comico napoletano stroncato da un infarto - Aveva 70 anni - Oltre che attore, poeta e compositore di canzoni - Il profondo cordoglio del mondo dello spettacolo - Telegrammi di Saragat e di Corona - Domattina i funerali
ROMA, 15 — Antonio De Curtis, in arte «Totò» è morto per infarto cardiaco alle ore 3.30, nella sua abitazione in via Monti Parioli, 4. Totò, al secolo Sua Altezza Antonio De Curtis principe di Bisanzio, era nato a Napoli il 7 novembre 1897 da Anna e Giuseppe De Curtis. Una sentenza di tribunale stabilì che il suo rango aristocratico è tra i più alti d’Europa: il suo titolo di principe deriva direttamente da Costantino, imperatore di Bisanzio.
Nel 1931 sposò, a Roma, Diana Roliani (1). Dal matrimonio, nel 1935, nacque Liliana, che nel 1951 si sposò con il produttore Gianni Buffardi. Il matrimonio di Totò con Diana Roliani non durò a lungo: infatti, nel 1939, i due ottennero l'annullamento civile. Nel 1954 Totò sposò in Svizzera Franca Faldini (2) con la quale viveva nel suo lussuoso appartamento ai Parioli. Franca Faldini ebbe un figlio che morì subito, e al quale Totò aveva imposto il nome di Massimiliano (3).
La sua carriera era culminata in questi ultimi tempi con riconoscimenti e premi internazionali grazie alla sua interpretazione nel film «Uccellacci e uccellini» di Pier Paolo Pasolini: menzione speciale al Festival di Cannes «al grande attore italiano»; Globo d’oro dell’Associazione stampa estera in Italia al migliore attore protagonista italiano del 1966; Nastro d’argento per il migliore attore protagonista; Conchiglia d’oro del mondo dello spettacolo. Infine alcuni anni or sono, una pergamena del Consorzio della stampa cinematografica «per avere interpretato più di cento film». Un Nastro d'argento l’aveva vinto nel 1951, per la sua interpretazione in «Guardie e ladri».
Il principe Antonio De Curtis, nei momenti che Totò gli lasciava lìberi, scriveva poesie: negli ultimi anni, a causa della sua malattia agli occhi, le dettava a Franca Faldini. Ma due dei suoi «pezzi», i più famosi, li aveva incisi in un microsolco messo in vendita in questi giorni: «A livella» e «Pasquale». Il primo è una sua poesia che prende spunto dal seppellimento in tombe contigue di un povero spazzino e di un nobile schizzinoso. Largamente noto il secondo, una spassosa scenetta, che faceva parte del suo repertorio e che Totò ripropose a «Studio uno».
Totò sarà anche ricordato come autore e compositore di canzoni: la sua «Malafemmena» è diventata un successo internazionale. Il principe Antonio De Curtis, a proposito degli attori in un momento di malinconia disse: «Chi parla più oggi di Petrolini? Gli attori, si sa, scrivono sulla sabbia: basta un’onda piccola per cancellare la loro opera».
La salma di Totò è stata composta sul letto della sua camera attorno sono stati collocati quattro candelabri. L’attore indossa una giacca di color blu scuro e pantaloni grigi. Tra le mani, un fascio di rose. I registri, posti nell’atrio del palazzo, si sono andati riempiendo, nel corso della giornata, di migliaia di firme, mentre molte centinaia sono i telegrammi, inviati anche dall’estero. Attori, registi e personalità del mondo della cultura e dell’arte hanno reso commosso omaggio alla salma del grande attore scomparso.
La maschera e il volto
Totò, quando la malattia lo colpì agli occhi, qualche anno fa, era sembrato volersi ritirare nel silenzio della sua abitazione di via Monte Parioli, a ricordare gli anni giovanili e i difficili esordi, forse a rimpiangere, come ha fatto in qualche recente intervista, i troppi film di scarso conto accettati, forse a fare un bilancio di vita e a cercare di attraversare l’ultima parte con umiltà e discrezione. Ma tutto questo è difficile, e neanche Totò è stato risparmiato; forse è stato un bene, forse un male per lui, non lo sappiamo ; ma è dovuto morire sul lavoro in una età in cui si può essere stanchi ed è lecito dire addio a tutto; a settant’anni. Il cinema lo aveva riscoperto in extremis, dopo averlo dimenticato come comico di successo, dopo averlo travolto con i Sordi, i Gassman, i Tognazzi. Si era fatto avanti con gli occhi attenti e lucidi di Pier Paolo Pasolini e gli aveva chiesto un personaggio difficile, trasparente e simbolico, dalle allegorie nitide. Totò si affezionò a Pasolini, forse senza comprendere del tutto ma entusiasmandosi in un lavoro per lui nuovo e in un rapporto di lavoro intelligente e umano. E avemmo il personaggio indimenticabile del fraticello francescano che imita il linguaggio della natura, e il bizzarro omino nero, itinerante sulla stada bianca e perduta fra due mondi, di «Uccellacci e uccellini».
La riscoperta
Cosi Totò fu scoperto, e divenne un personaggio culturale, cosa che non gli era mai accaduta nella vita, nemmeno nei film di Monicelli. Anche la televisione si impadronì di lui, la radio gli allestì la rubrica «Il vostro amico Totò», seguirono capitoli in altri film a episodi, erano pronti altri progetti, con lo stesso Pasolini, Bolognini e Loy. Totò era tornato in orbita, anzi, vi era forse per la prima volta; se non fosse arrivata la morte.
Parliamo un po’ di questo assurdo finale e poi ci potremo dedicare al rituale riassunto delle opere dello scomparso. Siamo in un tempo che divora tutto, la marea nera non risparmia mari e spiagge. Nel nostro caso la marea è l’offerta di spettacolo in tutti i modi e a tutte le ore, l’utilizzo di tutto quello che si può reperire in basso e in alto, nel presente e nel passato, purché possa essere macinato (come divertimento, o come cultura, distrazione, pubblicità), dai mezzi di comunicazione che paghiamo con tasse statali, tanto più essi sono in crisi o in ritardo. La cultura italiana era in debito con Totò da un bel pezzo, ma non solo la cultura alta, anche quella media. Totò non poteva scomodare i grandi registi, Totò non poteva recitare Beckett e Jonesco, chissà perchè. Occorre che un grande comico, un attore di razza muoia perchè si pensi a lui nei modi dotti, e si facciano paragoni illustri, si parli di Gustavo De Marco, di Petrolini, di Raffaele Viviani.
Inoltre, Totò era modesto, forse anche a causa della sua concretezza psicologica, del suo innato buon gusto, del suo senso del relativo. In ogni modo, egli non si è illuso ultimamente per il suo rilancio, ha capito e ha fatto intendere che lo considerava un fatto tardivo, di retroguardia ; esso gli permetteva però di farsi un autoritratto fedele, da inserire nella galleria di famiglia; più autentico dell’immagine lasciata dal cinema. La televisione gli ha permesso di ricostruire i suoi sketch più celebri, dove egli maggiormente si riconosceva. Ma sapeva che erano la legge inesorabile, la fame dei mezzi di comunicazione, la tecnologia divora tutto ad avere bisogno di lui. Ed ecco il rotocalco e la pubblicità intenti a far rinascere Totò, nuovo, colorato, coi capelli neri, sorridente e presentalo come un fatto nuovo, una scoperta di nuova generazione, un prodotto inatteso di consumo, ma gradito al palato.
Ricordo a Firenze, poche settimane fa, alla consegna del Nastro d’argento assegnatogli dai critici cinematografici. Volle apparire come Principe De Curtis, non come Totò, e salì con un certo distacco il palco per ricevere il premio: ma capì subito, una volta arrivato tra i riflettori, lo capì con gli orecchi, non con gli occhi, che il pubblico voleva qualche cosa da lui, anzi, che da lui si voleva la solita cosa, la mimica, la facezia, la battuta, la parola bizzarra e un guizzo, un accenno stralunato, come ai tempi di «S. Giovanni decollato» e di «Napoli milionaria», di «Totò sceicco». Totò era pallido, un po’ incerto a causa della vista, ma non vecchio, non debole, anzi, manteneva nell’andatura un certo impeto, forse per l’emozione; si accostò al microfono e tutto quello che gli venne fuori fu un «ovvia» che naturalmente scatenò un uragano di applausi, forse di gratitudine e di malinconia.
Infatti Totò non faceva più ridere, gli riusciva cioè sempre più difficilmente, come succede a tutti i comici, anche a quelli grandi, invecchiando, di separare la faccia vera dalla maschera. La sua innata facoltà di far ridere con mezzi apparentemente semplici ed elementari, senza evitare battute volgarucce, doppi sensi, allusioni un po’ spinte, sono state del resto una ragione del distacco della cultura nei suoi confronti. Anche il neorealismo ha esitato parecchio a capire che Peppino non è meno valido di Eduardo, e che il riso non è che l’altro rovescio del tragico quotidiano, è cioè il dramma dalla parte di chi non se ne è accorto, e di chi se ne è accorto fin troppo. Il comico in Italia è popolare, invece solo perchè rappresenta la psicologia plebea, l’ignoranza complice e irresponsabile, ma non è serio e soprattutto non è preso sul serio. Solo ultimamente, complice la TV, Moravia e Pasolini il comico è entrato nell’alta cultura, ma per Totò era tardi; l’attore era immalinconito, non era più capace di allegria, anche per evidenti ragioni di età, lo scatto non era più quello, la molla si era allentata. Non era più sua quella che è stata detta «la comicità marionettistica, uscita dal teatro dei pupi, la sua. mimica astratta, la comicità meccanica ("La comicità è musica, è aritmetica" è una famosa definizione di Totò), e insieme calda e comunicativa».
Finezza segreta
Nell’ultimo Totò c'era qualche cosa di meno, e qualche cosa di più, forse l’attore vero e pieno che avrebbe potuto essere se glielo avessero chiesto, o se lo avesse voluto un po’ più intensamente. Invece egli si accontentava del poco, non tanto per guadagno o perchè è difficile rinunciare alla formula di maggiore successo, ma anche perchè si soddisfaceva nella segreta finezza delle trovate, quella stessa sottigliezza che fa di lui un malizioso inventore di parole nuove, cioè un personaggio, che le storie linguistiche dell’Italia contemporanea non possono ignorare e trattano con molto rispetto. O per quella sua aristocratica riservatezza, ben tappata nelle stanze buie e dalle cortine spesse di casa, che lo tratteneva dall’affidarsi troppo professionalmente alle fatiche del lavoro (lui che apprezzava il buon lavoro) e alle regole del successo. Quello che aveva, lo accettava come un monarca, più per i suoi attributi di nascita che per le sue azioni.
La morte impietosa scopre alcune cose che non sapevamo, o non sapevamo tanto. Sono due aspetti intrecciati del carattere come avviene spesso in tutti noi. Il suo amore, dell’Italia e di Napoli, la sua paura di morire. C’è il napoletano, evidentemente, ma anche qualche cosa di più. Si era sentito male qualche giorno fa, un dolore allo stomaco, e aveva mandato a chiamare il medico, come ha raccontato il devoto amico compagno di lavoro Mario Castellani. Questi gli fece delle analisi del sangue e lo trovò perfettamente sano. Ma Totò era un tipo molto impressionabile. Cinque anni fa, continua Castellani, mentre eravamo a Parigi, ebbe una febbre, 37,2, e volle tornare di corsa a Roma perchè, mi disse, voleva morire in Italia. Si vantava di avere un cuore di atleta. Più di una volta mi ha detto: «Lo sai che io ho le stesse pulsazioni di Bartali e di Coppi?». Da qualche tempo il fumo gli dava dei disturbi e una volta si sentì mancare.
Per qualsiasi piccolo disturbo egli chiamava i medici. Totò non aveva nessuna malattia, anche per questo la sua morte improvvisa è stata cosi «terribile» così ha detto la moglie. Ieri pomeriggio non era uscito di casa. Alle 21 aveva mangiato una minestra di semolino, soltanto. Mezz’ora dopo era stato colto da malessere; la moglie e il cugino e segretario Eduardo Clemente lo avevano aiutato a mettersi a letto e avevano chiamato due medici, quali, vista subito la gravità del male, avevano somministrato al malato l’ossigeno, dopo avergli fatto iniezioni cardiotoniche. L’attore napoletano aveva perso conoscenza verso mezzanotte, ed è spirato alle 3.25. Vicini a lui erano anche la figlia della prima moglie, Liliana, la suocera e Mario Castellani.
Davanti alla casa di Totò, appena la notizia della sua morte è stata diffusa, è stato tutto un accorrere di gente e di giornalisti e fotografi. All’interno è allestita una camera ardente, dove pregano e piangono i suoi parenti, e gli amici lo salutano per l’ultima volta. I funerali si svolgeranno lunedì mattina, nella chiesa di Sant’Eugenio nel viale delle Belle Arti saranno semplicissimi, secondo il desiderio più volte espresso da Totò. Poi la salma sarà recata a Napoli e tumulata in una cappella del cimitero, dove riposano i genitori e il figlioletto di Antonio De Curtis.
Le parole di Alberto Sordi, appresa la triste notizia, sono state le più giuste. E’ rimasto in silenzio con gli occhi fissi in terra, per la improvvisa commozione, e ha detto: «Ero legato a Totò da una vera, sincera amicizia. Non vi sono aggettivi per definire Totò. Totò era il massimo che un attore comico potesse rappresentare in tutta la storia del teatro e del cinema italiano. Adesso ci ha lasciati. Totò non c’è più e non ce ne saranno altri». «Il cinema, ha detto a sua volta Ugo Tognazzi, gli aveva offerto meno di quello che poteva dare, ciononostante alcune sue interpretazioni rimarranno nella storia del cinema. In fondo è giusto che Totò sia morto così, d’improvviso, di notte, in modo che nessuno fobia potuto vedere sul suo volto una maschera tragica».
Verso il successo
Ricordiamo in breve la sua vita, che ebbe un inizio professionale faticoso nel primo dopoguerra. Era nato a Napoli il 15 febbraio 1898, è qui fece le sue prime prove nelle «periodiche», specie di rappresentazioni comiche a domicilio, nelle feste familiari e nei trattenimenti casalinghi, come si usava a Napoli, alla domenica. Si chiamava una orchestrina con qualche macchiettista (ce n’è un ricordo nel film di De Sica, "L’oro di Napoli"), e così si cantava, si ballava e si facevano macchiette. Trasferitosi a Roma nel 1917 si esibì in un repertorio di imitazioni del fantasista Gustavo De Marco (dal quale riprese per tutta la sua carriera il tipo della marionetta disarticolata) vestì anche la logora bombetta charlottiana del clown. Il successo non gli arrideva ancora, ma nel teatro minore del varietà cominciò a imporsi quello strano volto dalla mascella allungata — oggi diremmo una faccia alla Jacovitti — con la sua comicità musona e l’aria stralunata e famelica, che ricordava in qualche modo la tradizione vivianesca. «Aveva, hanno detto, la possibilità di snodarsi tutto, secondo una meccanica rituale di gesti irripetibili, per ricomporsi quindi in dignità di maschera dopo essere passato attraverso gli stati di «pinguino», di «spaventapasseri», di «marionetta pulcinellesca». Dal 1928 al 1934, in compagnie proprie e con Maresca portò sui teatri di mezza Italia famose riviste quali «Un turco napoletano», «I nipoti del sindaco», «Bacco tabacco e Venere» e la famosissima «Messalina» dove fu Caio Silio. Ne «I tre moschettieri» fu D’Artagnan: uno spadaccino con stampella d’armadio e spada e penna di cappone sulla bombetta: sfrenata caricatura del militarismo imperante. I pubblici popolari di tutta Italia non tardarono a entusiasmarsi punto da imporre al gusto dei borghesi quel comico inquietante e aggressivo, spesso lazzarone e scurrile che esprimeva con virulenza una reazione elementare, umana, alla civiltà della macchina. Successivamente verranno le macchiette del «Manichino», «Il pazzo», «Il chirurgo», e «Tarzan».
Dieci su cento
Dal 1941 al 1949 le riviste interpretate da Totò furono tutte scritte per lui da Galdieri. Ne ricordiamo alcune: «Quando, meno te l’aspetti», «Bada che ti mangio», «Orlando curioso», «Volumineide». Il pubblico riconobbe nei motivi satìrici affacciati da quel comico espressivo e ammiccante, che riportava a fasti moderni la famosa opera dei pupi, e che non mancava, in tempi di fascismo e poi durante l’occupazione tedesca, di creare sotterranee complicità con le allusioni al burocraticismo fascista e alla malvagità dell’occupante (ad es. in «Che ti sei messo in testa?»)
Nel cinema Totò portò, con successo popolare sempre crescente, ma confinato lungamente nei cinema di circuito e di periferià, umori e motivi e mimica imparati sulle scene, trasformando il cinema in una specie di cabaret popolare; ciò che il pubblico capì immediatamente, e che rimane il motivo più moderno della presenza cinematografica di Totò, anche se non sempre sorvegliata e aliena da facilonerie. Cominciò con «Animali pazzi» di Bragaglia, trionfò in «San Giovanni decollato» di Palermi, con una splendida interpretazione. Ebbe inizio col 1940 quella serie interminabile di parodie, in cui il suo personaggio si disperse, anche,. accontentandosi di lazzi risaputi e di scarse invenzioni, mentre si faceva strada un contenuto, abbastanza qualunquistico. Pensiamo a «Totò le Mokò», a «Fifa e arena» così via. Totò adoperava la parodia per divertire gli amici e il pubblico, e le trovate mimiche, i giochi di parole, qualche cosa vi era sempre presente di geniale e pensato, ma la sua vena era scettica, pessimista, spesso reazionaria nel fondo, forse anche perchè il film comico di basso costo doveva adottare la psicologia eversiva e derisoria di un pubblico scarsamente maturato. Totò è stato certamente uno dei pochi che nei suoi film (anche quelli minori) ha svegliato dei temi proibiti nel nostro cinema, la politica, i verbalismi della democrazia, i problemi della casa e della convivenza sociale, ma quasi sempre la provocazione era solo istintiva e senza sbocco, ima protesta sterile e inutile, carnevalesca; intima mente colta e amara, esteriore mente paradossale e volgare.
Perciò si ricordano di più i film in cui l’attore era sorretto da copioni solidi e da registi consapevoli; tra questi citiamo «Napoli milionaria» di Eduardo, «Guardie e ladri», di Steno e Monicelli, «Totò e i re di Roma» di Monicelli, «Dov’è la libertà» di Rosseliini, «L’oro di Napoli» di De Sica, «Racconti romani» di Franciolini, «I soliti ignoti» di Monicelli, «Uccellacci e uccellini» di Pasolini. Non è dunque eccessivo che si parli tanto di un ex attore di varietà, che oltre tutto era quasi sconosciuto all’estero. Il presidente della Repubblica, Saragat, ha inviato alla famiglia De Curtis questo telegramma:
«La scomparsa del grande e popolare attore Antonio De Curtis è un grave lutto per il teatro ed il cinematografo italiani e rattrista gli innumerevoli spettatori che per lunghi anni hanno ammirato ed amato i suoi straordinari mezzi espressivi al servizio di una profonda sensibilità artistica ed umana. Associandomi al lutto del mondo dello spettacolo, invio ai familiari tutti l’espressione del mio vivo cordoglio».
Il ministro del turismo e spettacolo on. Corona ha inviato a sua volta alla famiglia il seguente telegramma: «Improvvisa scomparsa di Antonio De Curtis è grande lutto per il teatro e il cinema italiano. Illustre attore ha profuso doti di viva umanità nelle sue interpretazioni donando tanta serena letizia e suscitando sentimenti profondi nel nostro animo. Partecipo vivamente loro grande dolore». L'ultimo suo regista, Pasolini, ha ricevuto la tragica notizia in Marocco, dove si trova per ragioni di lavoro, e forse non potrà accompagnare la salma dell’attore dal quale aveva saputo estrarre una eccezionale luce interiore, la verità più vera di Totò, come lo ricordiamo.
G. B. Cavallaro, «L'Avvenire d'Italia», 16 aprile 1967
NOTE
- (1) La moglie di Totò si chiava Diana Bandini Rogliani
- (2) Totò non sposò mai Franca Faldini
- (3) Il bambino nato e morto che Totò ebbe da Franca Faldini fu chiamato Massenzio
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G. B. Cavallaro, «L'Avvenire d'Italia», 16 aprile 1967 |