L'uomo, la bestia e la virtù

1953 L uomo la bestia la virtu

La capitale della Francia è Vienna, attraversata dal fiume Po che si getta nel Mar Nero, bagnando Palermo, capitale dell'Italia settentrionale. Non c'è male, ti darò nove.

Paolino De Vico

Inizio riprese: gennaio 1953, Stabilimenti Ponti - De Laurentiis
Autorizzazione censura e distribuzione: 2 maggio 1953 - Incasso lire 256.850.000 - Spettatori 1.955.761



Titolo originale L'uomo, la bestia e la virtù
Paese Italia - Anno 1953 - Durata 102 min - Colore - Audio sonoro - Genere comico - Regia Steno - Soggetto Luigi Pirandello - Sceneggiatura Vitaliano Brancati, Steno - Produttore Carlo Ponti - Fotografia Mario Damicelli - Montaggio Gisa Radicchi Levi - Musiche Angelo Francesco Lavagnino, Pier Giorgio Redi - Scenografia Mario Chiari


Totò: Paolino Lovico - Viviane Romance: Assunta Perella - Orson Welles: Il capitano Perella - Mario Castellani: il dottore - Franca Faldini: Mariannina - Clelia Matania: Grazia - Giancarlo Nicotra: Nonò - Rocco D'Assunta - Italia Marchesini


Soggetto

Il Paolino (Totò) maestro di una scuola elementare nei dintorni di Napoli appare scostante e nervoso da un po' di giorni ed i suoi amici e conoscenti non se ne spiegano il motivo. L'uomo è l'amante di Assunta (Viviane Romance), madre di un suo alunno e moglie del rozzo capitano Perrella (Orson Welles), e scopre che dalla loro relazione clandestina la donna è rimasta incinta. Paolino ed Assunta cercano il modo di nascondere l'adulterio attribuendo al capitano la paternità del figlio di cui Assunta è in attesa. La cosa sembrerebbe facile, dal momento che Perrella sta rientrando dal suo ultimo viaggio, ma il capitano, a sua volta, ha un'amante e non prova più alcuna attrazione per la moglie. Paolino decide quindi di architettare un piano per spingere Perrella a passare una notte d'amore con Assunta...

Critica e curiosità

🎭 Introduzione: Un Film Bipolare, un Attore in Bilico

Nel grande baule dei film "anomali" di Totò, questo si merita un cassetto a parte, imbottito di velluto pirandelliano, farcito di torte afrodisiache, e chiuso con un lucchetto sigillato dalla perplessità critica. È un'opera figlia di troppi padri e madri: Carlo Ponti, Dino De Laurentiis, Steno, Fulci, Vitaliano Brancati, Josipovici, e perfino Orson Welles e Viviane Romance, che vi recitano con entusiasmo linguistico inversamente proporzionale alla comprensione dei dialoghi. Una Babele cinematografica, una sinfonia di ambizioni divergenti che miracolosamente convergono su un film tanto sghembo quanto affascinante.

🍝 Un Minestrone di Generi

Farsa, pochade, commedia degli equivoci, tragedia travestita da dolce al cioccolato, satira borghese, critica all’ipocrisia sociale: il film è un patchwork di stili e intenzioni. Fulci, chiamato per mettere una toppa drammaturgica, si aggira tra il copione come un idraulico in una villa liberty, cercando di rattoppare le falle narrative con guizzi da avanspettacolo, battute improvvisate e inserti surreali. Ogni scena pare un compromesso tra l’arte e la sopravvivenza produttiva.

🎬 La Genesi: Contratti, Capestri e Cappotti

Totò accetta la parte del professor Paolino più per vincolo contrattuale che per passione artistica. Il suo contratto firmato dopo L’imperatore di Capri si rivela una trappola dorata: sette milioni per cinquanta giorni trasformati in sessanta giorni per dieci milioni. La leggenda vuole che De Laurentiis, pur di convincerlo, si sia lanciato in una dichiarazione d'amore teatrale: "Voi siete grande, voi siete un genio!". Totò, uomo pacifico e poco incline ai conflitti, accetta, chiedendo però una revisione del personaggio: troppo vigliacco, troppo negativo, troppo Pirandello per i suoi gusti. Una commedia tragica travestita da parodia.

🎭 Totò VS Pirandello: Scontro tra Maschere

Steno prova il miracolo: trasformare il cupo dramma esistenziale del Nobel agrigentino in un film godibile e accessibile. Il professor Paolino, nella sua versione cinematografica, è un uomo meschino ma umanamente fallibile. E come ogni personaggio pirandelliano che si rispetti, porta una maschera: quella del pedagogo frustrato, dell'amante fallito, dell'uomo senza dignità che si rifugia dietro una cortina di cinismo buffonesco. Una maschera che ride e piange, spesso contemporaneamente.

🎥 La Produzione: Torre di Babele a Gevacolor

Le riprese cominciano nel gennaio 1953. Welles parla italiano (male), Romance parla francese (bene), Totò parla Totò (splendidamente). Alla fine, si doppia tutto. Il film diventa una sinfonia doppiata in cui i personaggi sembrano comunicare con lo spettatore più che tra loro. E il colore Gevacolor, oggi scomparso nelle copie esistenti, rende tutto un po’ più irreale. Una realtà alterata che calza a pennello con la poetica dell’opera.

🎭 Teatro a Schermo Pieno

Interni claustrofobici, recitazione teatrale, maschere greche nei titoli di testa. Più che un film, sembra una tragedia attica con battute da avanspettacolo. Ma Steno sa quel che fa: dosa tragedia e commedia come un alchimista napoletano, in bilico tra il rigore del testo originale e le esigenze del botteghino. La scenografia, volutamente teatrale, sottolinea l’ineluttabilità degli eventi, in cui i personaggi sembrano burattini inconsapevoli.

🧁 La Torta dell'Inganno

Il piano del maestro Paolino è degno del miglior vaudeville: una torta afrodisiaca per indurre il capitano Perella a "concepire" un figlio che non è suo. Tutto ciò tra duelli gastronomici, equivoci sessuali, dialoghi surreali e una Napoli da cartolina (ma parlata in doppiaggese neutro). Il farmacista compone canzoni con i mandolinisti, la pozione magica diventa pretesto per lazzi comici, e la torta diventa emblema di una commedia esistenziale.

🧠 Il Paradosso Pirandelliano

Paolino si rivela la vera "bestia" della storia. Agisce con perfido raziocinio, travestito da uomo colto. Ma è proprio questa contraddizione a renderlo interessante: non è il solito Totò da risata facile, è un personaggio complesso, scomodo, con le tasche piene di viltà e la giacca sempre nera, anche in spiaggia. È il personaggio più tragico che Totò abbia mai interpretato, ma anche il più comico: la sua meschinità diventa buffoneria, il suo egoismo diventa lazzo.

🎩 Totò il Funambolo della Farsa

Il suo Paolino è una giostra di gesti teatrali, espressioni idiomatiche senza senso ("agnosticismo incredulare"), e scatti mimici. Quando s'arrabbia, è sublime; quando si nasconde, è ridicolo e struggente. Recita frasi senza logica, parla in francese per snobismo, e tratta la realtà come un palcoscenico. Alterna raffinatezze linguistiche a volgarità pedagogiche, sempre con quel misto di innocenza e furbizia che lo rende Totò.

🛁 Scene Memorabili come Vasche da Bagno

  • La visita al moribondo: comicità tragica al suo massimo, con il maestro che disturba il medico parlando dei suoi problemi.
  • I due scolari chiusi a chiave: Totò in versione pedagogica sadica, eppure irresistibile.
  • La lezione di voto improvvisata: da dieci a zero in un colpo solo, didattica applicata alla vendetta.
  • Il duello con la torta: scena chapliniana per eccellenza, con il dolce afrodisiaco che diventa protagonista.
  • La lite con Mariannina: commedia degli sguardi, dei sospiri e dei rimorsi non detti.

🏖 Ambientazione Napoletana, ma con Doppiaggio Milanese

Un film ambientato ad Amalfi, ma parlato come se fossimo a Milano. Welles e Romance sembrano usciti da una scuola d'italiano per stranieri. E Totò, col suo cappotto nero anche al mare, è una figura felliniana ante litteram. La discrepanza tra ambientazione e parlato rende il tutto surreale, come in un sogno diurno.

💔 Un Finale che Fa Più Male della Tragedia

Paolino è cacciato come un cane randagio. Il bambino nascerà e tutti lo crederanno figlio del capitano. Il pubblico ride, ma con una fitta allo stomaco. L'umorismo pirandelliano è servito. La malinconia che pervade il finale ci fa riflettere sull’essenza dell’inganno: Paolino ha vinto, ma ha perso tutto. Il sorriso si spegne in una smorfia.

📽 La Ricezione: Un Buffone tra i Grandi

Gli eredi di Pirandello si indignano: Totò non è degno. Ma lo è eccome. In questo film, come ne La patente, il comico napoletano tocca punte di umorismo dolente, al confine tra la maschera e la verità. Il pubblico, ancora affezionato al Totò che fa ridere, fatica a digerirlo. Ma il tempo farà giustizia. E oggi possiamo dire che nessuno come Totò ha saputo incarnare l’umorismo tragico di Pirandello con tanta grazia.

🎭 Conclusione: Totò o non Totò, questo è il problema

Totò riesce nell'impresa impossibile: incarnare un personaggio pirandelliano senza snaturarsi. Il professor Paolino è un essere umano grottesco, misero, ma anche struggente. Grazie a Steno, Brancati, e perfino a un doppiaggio posticcio, l'operazione riesce. Il film, pur imperfetto, è una gemma incastonata tra due mondi: quello della commedia all’italiana nascente e quello del dramma esistenziale pirandelliano.

Un film da vedere, rivedere e analizzare come si fa con le maschere della Commedia dell'Arte: dietro al riso, c'è sempre un pianto. E dietro il buffone, c'è sempre un uomo che soffre. E se quel buffone ha il volto di Totò, allora la risata vale doppio. O forse, vale il doppio delle lacrime.


Le Maschere: Arlecchino contro Otello

  • Totò, nei panni del professor Paolino, indossa la maschera della nevrosi educata: è un moralista ipocrita, un maestro con l’ansia da prestazione, un amante clandestino con tic e vezzi da salotto. Recita a corpo pieno, con la mimica esasperata del teatro leggero, e soprattutto parla Totò, cioè una lingua tutta sua, fatta di paroloni strampalati e nonsense d’alta scuola.
  • Orson Welles, il capitano Perella, è invece una bestia semi-shakespeariana, un bruto marinaro doppiato in italiano neutro (per fortuna!), che incarna la forza, la carne, il sospetto. La sua presenza è pesante, monumentale, quasi metafisica. È il corpo che Totò vorrebbe manipolare per fini nobili (o ignobili?): la copertura della gravidanza adulterina.

🍷 2. I Metodi: Impro Totò contro Sistema Stanislavskij

  • Totò è un funambolo. Aggiunge, taglia, ride sotto i baffi, improvvisa battute come «Assunta, perché fai questo agnosticismo incredulare?» o «decoltizzati!». Quando entra in scena, il copione gli sta sempre un po’ stretto, quindi lo allarga come un vecchio cappotto.
  • Welles invece è un blocco scolpito. I suoi gesti sono misurati, teatrali, ogni frase ha un peso specifico. Si muove come se fosse sempre sul punto di pronunciare un monologo tratto da Macbeth. Ma in mezzo a un copione farsesco, il suo stile crea un effetto straniante, quasi comico involontario.

🍰 3. La Scena-Simbolo: Il Duello della Torta

Il momento in cui i due si affrontano davvero è la famosa scena della torta afrodisiaca. Paolino (Totò) deve far sì che il capitano Perella (Welles) vada a letto con la moglie, credendo di essere il padre del bambino. Il piano è semplice: droga nella torta e via col coniugale.

Totò si muove come un servo furbo da commedia dell’arte, tra gesti nervosi, doppi sensi, panico e teatrini. Orson Welles affronta la torta con solennità da tragedia greca, come se dovesse mangiare il cuore di Edipo.

Il risultato è esilarante. Due attori che non potrebbero essere più diversi, incastrati in una gag da avanspettacolo, con la musica che quasi ci aspettiamo sia quella di Looney Tunes.

🎬 4. La Sintesi Impossibile: Il Paradosso del Film

Il film intero è un tentativo – spesso grottesco, a volte affascinante – di far coesistere:

  • l’umorismo da varietà di Totò,
  • il peso simbolico di Welles,
  • la scrittura pirandelliana piena di ambiguità morali,
  • la regia di Steno, che cerca di salvare il salvabile tra battute, parrucche e pozioni d’amore.

Totò regge il gioco con la leggerezza del buffone tragico; Welles invece pare disperso come un Amleto imbarcato per sbaglio su una nave dei comici napoletani.

🎩 5. Epilogo: Duello senza vincitore, ma con molti spettatori

Chi vince tra Totò e Welles? Nessuno, perché la sfida è tra due mondi teatrali che non si incontrano, ma si guardano da lontano con sospetto e ammirazione.

Totò rappresenta l’Italia dell’arte povera, del corpo, della commedia umana. Welles è l’America del mito, del genio visionario, del tragico eterno.

Nel mezzo, un film irrisolto ma affascinante, che resta uno dei più strani esperimenti della carriera di entrambi.


Approfondimento dettagliato delle scene più famose e memorabili del film L’uomo, la bestia e la virtù (1953), con Totò nei panni del professor Paolino e Orson Welles in quelli del Capitano Perella. Ogni episodio è un tassello grottesco in questo mosaico farsesco e pirandelliano, dove la comicità esplode dentro una struttura teatrale rigidissima.

🍰 La torta afrodisiaca: il vaudeville va in pasticceria

La scena madre, il fulcro attorno a cui ruota l’intera trama: Totò/Paolino deve far mangiare al Capitano Perella (Welles) una torta drogata con afrodisiaco, affinché questi vada a letto con la moglie e copra la gravidanza clandestina. La tensione è tutta giocata sull’attesa, il sospetto, le micro-espressioni. Totò recita come un funambolo: da un lato deve sembrare disinvolto, dall’altro deve controllare che il capitano ingurgiti la porzione giusta.
Welles affronta il dolce con l’intensità con cui Otello affronta il fazzoletto di Desdemona. Il pubblico assiste a un paradosso: un atto d’amore costruito sulla menzogna, una farsa cucinata come se fosse alta tragedia.

🏥 La visita al moribondo: il teatro dell’assurdo applicato alla medicina

Una scena apparentemente scollegata dalla trama, ma di straordinaria efficacia teatrale. Paolino accompagna l’amico dottore (Mario Castellani) da un paziente terminale. Mentre il medico cerca di visitarlo, Totò lo disturba continuamente per parlargli dei suoi drammi amorosi e pedagogici.
Il moribondo tossisce, soffre, si lamenta... e Totò lo ignora completamente. La comicità nasce dal contrasto tra la tragedia reale (la malattia) e l’egocentrismo assoluto del personaggio. Una scena felliniana ante litteram, che trasforma la morte in burla, ma senza cinismo gratuito: è una maschera che ride per non piangere.

🚪 I due scolari chiusi a chiave: la scuola come inferno domestico

Il professore Paolino impartisce una lezione privata a due bambini. Per non essere disturbato, li chiude a chiave in una stanza e dimentica completamente di loro. Quando li libera, sono mezzi asfissiati dal fumo. La scena è un apologo sulla pedagogia repressiva, con echi da I pugni in tasca e Salò, ma in chiave buffonesca. Totò è sadico ma involontario, come se fosse più vittima del sistema che carnefice. Il suo gesto è una satira estrema del potere educativo quando diventa arbitrario e dimentico.

📝 Il ribaltamento dei voti: da “dieci” a “zero spaccato”

Un esempio lampante del Totò vendicativo: apprende che il padre di un alunno (il capitano Perella) è indignato perché il maestro è troppo generoso con i voti. Totò, nell’arco di cinque secondi, passa dal lodare il bambino a distruggerlo con uno «zero spaccato!».
È una scena asciutta, diretta, satirica, che denuncia l’ipocrisia delle dinamiche scolastiche e le pressioni familiari sul rendimento. La battuta “zero spaccato” diventerà un tormentone, quasi degno di “Siamo uomini o caporali?”.

🤡 La trasformazione di Mariannina in clown: il corpo della donna come campo di battaglia

Paolino costringe Mariannina (Viviane Romance) a truccarsi come una donna provocante per piacere a suo marito. La donna, spaesata e umiliata, accetta. Il trucco eccessivo, il rossetto sbavato, il viso trasfigurato trasformano Mariannina in un clown triste.
È una scena fortissima, al limite della crudeltà, in cui Totò mostra il lato più oscuro del suo personaggio. L’umorismo qui si contorce e si fa violento. Mariannina diventa una maschera grottesca, vittima sia del marito assente che dell’amante manipolatore.

🧠 Il tormentone dell’afrodisiaco: comicità da laboratorio farmacologico

Il misterioso prodotto miracoloso, il “Vigoril”, è uno dei running gag più gustosi del film. Il farmacista, che è anche fratello di Paolino, lo produce artigianalmente in una farmacia che sembra un teatro di varietà. Ogni apparizione del Vigoril è accompagnata da una serie di gag assurde: dosaggi sbagliati, prove su animali, mandolinisti che lo usano come ispirazione per una canzone romantica.
È una parentesi surreale che mette in luce il lato buffonesco della scienza, il desiderio di controllo dell’uomo sul corpo, trasformato in slapstick comico.

🏡 Le schermaglie con i vicini, le domestiche e il direttore: la commedia umana in scala condominiale

Attorno a Paolino si muove una folla di personaggi minori che sembrano usciti da una versione mediterranea dei Sei personaggi in cerca d’autore:

  • La domestica brontolona,
  • I vicini pettegoli,
  • Il direttore della scuola credulone,
  • Gli alunni terrorizzati.

Queste scene non fanno avanzare la trama, ma costruiscono un microcosmo sociale da commedia dell’arte, in cui Totò si muove come un Pulcinella ammodernato, sempre sul punto di svelare le ipocrisie del mondo piccolo-borghese.

🎭 L’uscita finale sulla spiaggia: l’uomo, la bestia e il crepuscolo

Il finale, malinconico e muto, è puro cinema chapliniano. Totò, solo, osserva da lontano Mariannina e il marito che si ricompongono. Il bambino nascerà, il piano è riuscito, ma Paolino è stato scacciato come un cane. Cammina verso il mare, il cappotto ancora indosso, figura nera contro un orizzonte pallido. Nessuna battuta, solo il rumore delle onde.
È una scena profondamente pirandelliana: l’uomo che ha manipolato tutti, alla fine non ha ottenuto nulla. La maschera cade, resta solo il volto della solitudine. 


Così la stampa dell'epoca

Come fu accolto L’uomo, la bestia e la virtù (1953) da critica, pubblico e censura dell’epoca, nel suo triplice statuto di esperimento pirandelliano, commedia cinematografica e campo minato ideologico. 

📰 La critica italiana: tra perplessità, snobismo e (qualche) intuizione

La critica italiana del 1953 accolse il film con un misto di sorpresa, imbarazzo e altezzoso distacco. Il primo scoglio fu ovviamente la presenza di Totò in un testo pirandelliano, evento considerato da molti critici come un’eresia teatrale, un’operazione “pop” su un testo sacro della drammaturgia nazionale. La posizione più frequente fu quella dell'intellettuale spaesato: il film era ben recitato, ben costruito, con alcune trovate geniali, ma... "Totò non è Pirandello" — questa la sentenza ricorrente, spesso pronunciata con tono sentenzioso.

Eppure, alcune penne più illuminate colsero la vera novità: Totò non cercava di “fare il drammatico”, ma portava la sua maschera dentro Pirandello, riuscendo là dove molti attori di prosa avevano fallito: nel rendere umano il paradosso. In particolare alcuni critici teatrali notarono come la recitazione mimica di Totò — nervosa, angolosa, caricata — sposasse perfettamente il carattere disarticolato di Paolino, personaggio nato già come figura borderline tra la farsa e l’ossessione.

Non mancarono tuttavia stroncature illustri. Alcuni recensori accusarono il film di aver "banalizzato" il testo, di averlo immerso in un contesto troppo farsesco, perdendo le sfumature più amare dell’opera originale. Ma è bene ricordare che la sceneggiatura fu appositamente rielaborata da Brancati con l’intento di trasformare il dramma in commedia amara, non di riprodurre fedelmente la pièce.

🎟 Il pubblico: tra Totòfilia e incomprensione

Il pubblico accorse con curiosità e aspettative contrastanti. I fan storici di Totò volevano il comico scatenato, l’anarchico del gesto, l’uomo delle battute immortali. Quello che trovarono fu un personaggio più torvo, più cupo, più cinico. Non tutti apprezzarono. Alcuni lo trovarono “spento”, altri “troppo parlato”, altri ancora “strano”.

Ma il pubblico non si allontanò, anzi: il film fece un discreto incasso, proprio per il suo essere una mosca bianca nella filmografia di Totò. Le risate non mancavano, ma erano risate che pizzicavano — come aghi sotto pelle. Molti spettatori uscirono dalla sala con una strana malinconia che non riuscivano a spiegare.

Nelle sale del Sud, soprattutto a Napoli, il film trovò un'accoglienza più calorosa, forse per la forte presenza di elementi teatrali familiari: la lingua del maestro, il quartiere, le dinamiche familiari, i vicini impiccioni. Il pubblico partenopeo colse — come spesso accade — le sfumature affettive del personaggio più che le sue ambiguità etiche.

La censura: quando il bambino non è figlio di nessuno

Il vero capolavoro di equilibrismo fu quello della censura, che nel 1953 aveva ancora una struttura fortemente moralista, orientata a bloccare qualsiasi riferimento esplicito a sessualità extraconiugale, adulterio, inganni domestici o turbamenti del sacro vincolo del matrimonio.

Eppure, il film passò quasi indenne, perché… nessuno capì bene cosa succedeva. La censura ragionava in base alla logica lineare, mentre il film operava nella zona grigia del paradosso.

Nessuno, o quasi, si rese conto che la vicenda ruotava attorno a un’inseminazione artificiosamente provocata per nascondere un adulterio. Il figlio che nascerà alla signora Perella sarà creduto figlio del capitano, ma non lo è. E questo — in un film uscito dieci anni prima della legalizzazione del divorzio in Italia — avrebbe potuto generare uno scandalo monumentale.

La fortuna del film fu che gli elementi farseschi mascheravano abilmente quelli morali: l’afrodisiaco in torta sembrava una trovata da vaudeville, la gestualità comica di Totò distoglieva lo sguardo dalla realtà ambigua del racconto. La censura si concentrò su alcuni dettagli linguistici (“parole scurrili”, “doppi sensi”, “comportamenti discutibili”), ma nulla venne tagliato in modo sostanziale.

👑 Il caso Pirandello: gli eredi indignati

Uno degli episodi più spinosi fu il dissenso ufficiale degli eredi di Luigi Pirandello, che non vedevano di buon occhio che il buffone Totò (così veniva chiamato in certi ambienti accademici) interpretasse un’opera del maestro siciliano. Ritenevano offensiva la commistione tra il sacro e il profano, tra il Nobel e il comico da rivista.

In realtà, la loro opposizione risaliva già all'idea che il testo venisse adattato in chiave grottesca, e non messa in scena con la consueta gravità teatrale. Il fatto che la regia fosse affidata a Steno e non a un “regista serio” non fece che aggravare la percezione di “tradimento”.

Solo anni dopo, grazie anche alla riscoperta critica del Totò drammatico, questo atteggiamento si sarebbe gradualmente smussato.

📚 La critica successiva: rivalutazioni lente ma inesorabili

Negli anni successivi — e in particolare dopo la morte di Totò — il film venne rivalutato da una nuova generazione di critici, che colsero nella sua ambiguità strutturale un’operazione più complessa di quanto apparisse a prima vista.

Lontano sia dalla comicità slapstick di Totò a colori, sia dai drammi “autoriali” come Dov’è la libertà...?, L’uomo, la bestia e la virtù venne lentamente riconosciuto come un film di transizione, un ponte tra la maschera farsesca e il volto tragico di Totò.

Oggi è considerato un tassello importante nella sua evoluzione attoriale, e uno degli esempi più riusciti — e coraggiosi — di contaminazione tra cinema popolare e letteratura alta.


Totò rivale di Orson Welles in un film tratto da Pirandello

La protagonista femminile di «L'uomo, la bestia e la virtù» sarà invece Viviane Romance

Roma 19 gennaio, notte.

Tocca a Pirandello, adesso. Da poco più d'una settimana, negli stabilimenti di via Vasca Navale, s'è iniziata la «lavorazione» di un film desunto da una sua commedia. Non accade spesso, perchè i cineasti hanno timore di Pirandello; il suo teatro, per via della dialettica ser-rata, che sospinge gli antagonisti l’uno contro l’altro, con l'irruenza di uno scontro da pugili, ciascuno dei quali tenta di ridurre alle corde l’avversario, ha una concitazione che nobilita l’espressione verbale nel modi inconsueti al cinema, come volgarmente il cinema è inteso. E’ difficile tradurlo nell'immediato concreto delle immagini senza suscitare l'impressione di una inadeguatezza scaduta nell’approssimazione, la stessa approssimazione delle tavole fuori testo con cui i disegnatori illustrano le opere di pensiero. Si pensi alla disperata impresa di chi vorrà cinematografare i Sei personaggi, dove solo i giochi surrealisti delle ombre hanno reso sopportabile, sulla ribalta, la materializzazione del fantasmi; e non si dice, con questo, che un film non sia possibile anche per i Sei personaggi, anzi; bensì si dice che esigerebbe realizzatori e mezzi d'eccezione. [...]

L’antinomia espressa nel titolo esigeva già nella scelta degli interpreti un* impegno puntiglioso. Il produttore del film e il suo giovane regista, Steno — lo stesso a cui si deve, fra l’altro, in collaborazione con Monicelli, l’eccellente Guardie e ladri —, hanno fatto di Totò l’uomo, di Orson Welles la bestia e di Viviane Romance la virtù. Si sa che l’uomo, nell’apologo pirandelliano (e questa stessa definizione dell’autore, apologo, ne richiama le intenzioni) è un professorucolo di paese che, avendo stretto una relazione con la trascurata moglie di un capitano di mare, la virtù, è atterrito dalla prossima maternità di lei, rivelatrice della loro tresca. Ed è costretto, contro sua voglia e contro la voglia della donna, a far di tutto perchè la normalizzazione dei rapporti coniugali, resi difficili dalla calcolata continenza del marito violento, la bestia, nasconda il peccato, rendendone plausibili le conseguenze. Il Totò dimesso, in chiaroscuro, di Guardie e ladri è fatto apposta per dare figura all’uomo; il Totò senza marionettismo, intendiamo. desolato nell’attrito fra il poco sperare dalla vita e il pochissimo ottenere. [...]

Nello studio di via Vasca Navale abbiamo visto ricostruita la casa paesana del capitano di mare Perella, dove il conflitto pirandelliano si combatte. Gruppi di abbacinanti riflettori (la molta luce è resa necessaria dal fatto che il film si gira a colori, con il sistema del Gevacolor) pendono sul salotto provinciale in cui si ammucchiano i cari ninnoli di cattivo gusto che fanno principio di secolo. Specchiere, statuette, quadri, intarsi, festoni traducono nei cristalli, nelle maioliche e nei legni l’anelito al bello standardizzato che i rigattieri appagano per poco prezzo. Gherardi per i costumi e gli arredamenti e Chiari per le scenografie hanno studiato a lungo gli «ambienti» di opulenza floreale e rozza in cui spontaneamente il racconto s’inserisce.

L’uomo Totò. quando noi siamo capitati sul «set», cercava di convincere la virtù Viviane ad essere il meno possibile virtuosa, per sedurre il marmoreo consorte; le suggeriva di farsi attraente, di togliersi di dosso il vestito da Befana, di truccarsi. E intanto la virtù, per ritegno casto, si ribellava a quella mortificante necessità e annunciava, piuttosto, il suicidio; e anche l’uomo si augurava la morte, e c'era un contrasto doloroso tra quei preparativi di festa amorosa e quella disperata ansia di funerali. «Le piace li suo personaggio?», abbiamo chiesto a Viviane Romance, quando Steno e l’operatore Damicelli le hanno consentito una sosta. C’era una punta di malizia perversa nella domanda; ma a Romance è troppo francese perchè non ci rispondesse, con entusiasmo, di si, «se non mi piacesse non l'avrei accettato»; ha aggiunto, anzi, che quel miscuglio di colpa e di verecondia faceva, a suo giudizio, più piccante e più vero il ritratto della signora Perella. A giorni, per gli «esterni», il film sarà trasferito in un villaggio di mare, a Cetara, in quel di Vietri. [...]

Arturo Lanocita, «Corriere della Sera», 20 gennaio 1953


Una sera di tanti anni fa, mentre si rappresentava in un teatro romano L'uomo, la bestia e la virtù di Pirandello, Paola Borboni, nelle succinte vesti della Signora Perella, offrì involontariamente agli spettatori qualcosa di più di una bella interpretazione, qualcosa che il pubblico non si aspettava, ma che seppe gradire moltissimo. Nel corso di una scena assai movimentata, s'era staccata una bretellina della sottana dell'attrice e un seno roseo aveva fatto la sua festosa apparizione, salutato da un applauso a scena aperta. [...] Dopo quella sera l'affluenza del pubblico era raddoppiata e sul botteghino era riapparso il cartello «tutto esaurito», poiché gli spettatori correvano a teatro nella speranza di godersi un numero fuori programma che mai più si sarebbe ripetuto. [...]

Quel piccante e imprevisto incidente di scena [...] creò più tardi, intorno alla farsa di Pirandello, un misterioso profumo di frutto proibito. [...] Le autorità del tempo cercarono sempre di sconsigliarla alle compagnie sovvenzionate, quasi si trattasse di uno spettacolo carico di esplosivi sottintesi: poi l'incidente fu dimenticato o diventò leggenda e da leggenda fece presto a trasformarsi in storia, fino a inserirsi idealmente, per sentito dire, nelle pagine del copione. Così per molti anni, chiunque sentiva parlare dell'Uomo, la bestia e la virtù, non poteva fare a meno di pensare automaticamente alla bretellina della signora Perella e a una combinazione di seta trasparente e traditrice. Questa storia della bretellina ha fatto anche il giro delle società cinematografiche: e ogni volta che i produttori pensavano a un'eventuale riduzione della commedia di Pirandello, un seno terribile e ammonitore giganteggiava davanti ai loro occhi, fino a terrorizzarli; L'uomo, la bestia e la virtù diventò presto «la commedia del seno», bella ma impresentabile; divertentissima, ma scollacciata; intelligente, ma scabrosa; sconsigliabilissima, specie ora che la parola «seno» - anche se con chiaro riferimento geografico - sta per diventare sinonimo di peccato mortale.

"Tra l'uomo e la bestia in pericolo la virtù", Italo Dragosei, «Festival», n. 9, 28 febbraio 1953


Totò e Orson Welles: una coppia assolutamente inedita e senza dubbio sensazionale. Il turbolento attore-regista americano è stato scritturato da una casa cinematografica italiana per interpretare il film "L'uomo, la bestia e la virtù". La bestia è appunto Welles, l'uomo è Totò, e la virtu' è l'attrice francese Viviane Romance. Il film è tratto dall'omonima commedia di Pirandello e dal racconto che questi scrisse prima della commedia ("Richiamo all'ordine"). Si tratta , com'è noto, di una storia amaramente boccaccesca: un impiegatuccio di provincia è l'amante della moglie di un capitano di mare e per giustificare una maternità peccaminosa deve forzare il marito-bruto all'amor coniugale. Una prova di grande impegno dunque e di grandi rischi, per tutti.

«La Settimana Incom Illustrata», anno VI, n.13, 28 marzo 1953


Non varrebbe certo la pena di indugiarsi su un film goffo e di cattivo gusto come questo se esso non presentasse, con presuntuoso arbitrio, sul proprio biglietto da visita, il nome di Luigi Pirandello. Pirandello ha sempre avuto assai scarsa fortuna, nei propri rapporti, diretti ed indiretti, con lo schermo : basti pensare al finale accomodante e convenzionale da lui stesso sottoscritto per l'edizione di «Il fu Mattia Pascal», realizzata in Italia da Pierre Chenal (1937) o ai romanzeschi pasticci confezionati ad Hollywood su pretesti assai lontanamente pirandelliani. In fondo, si è costretti a riconoscere che il più rispettoso nei confronti dello scrittore era stato il regista che forse aveva fatto apparentemente alla sua opera una più decisa violenza : alludo al L'Herbier di Feu Mathiàs Pascal (1925).

L'uomo, la bestia e la virtù, un apologo in tre atti del 1919, che rimase sotto più aspetti isolato nell’opera del drammaturgo, poteva anche recare in sé i presupposti per un film saporito e pittoresco. Ma a patto di venir rielaborato con altri metodi, e sopra tutto con un estro ed una misura, che a Steno, scenarista principale, oltre che regista (questa volta da solo, senza la collaborazione del solito Monicelli), sono totalmente mancati. (Si potrebbe anche domandarsi se questa pessima prova di Steno autore unico debba esser interpretata come un indice del peso determinante che assumerebbe l'apporto di Monicelli nei film firmati a quattro mani. Ma sarebbe difficile trovare una risposta al quesito). "L'uomo, la bestia e la virtù" presenta un soggetto estremamente delicato a trattarsi. [...] Sviluppata con una tecnica elementare ma esperta, la commedia si eleva tuttavia su altro piano, sia in grazia dei propri fecondi vincoli con tutta una tradizione nazionale, che dal Boccaccio si perpetua nei novellisti minori tre e cinquecenteschi e nei commediografi rinascimentali, sia in grado di un fondo amaramente sarcastico (avvertibile nella definizione di "apologo", nel titolo contrapponente tre prototipi, come nel gioco risibile delle apparenze, che si conclude con il trionfo di una "virtù", costretta a difendere i propri diritti naturali col peccato e a tutelarsi con gli espedienti più triviali: il paradosso del commediografo vuole che l'amante si erga a tutore di una morale e di una giustizia "conculcate" e riesca a farle trionfare ricorrendo ad intrighi "farmaceutici").

I riduttori della commedia (tra i quali figura Vitaliano Brancati) si sono fermati al pretesto più immediato ed esteriore. E, anzi che lavorare di fantasia per trasporre il gioco salace su un piano allusivo, di variopinta mascherata (non per nulla disponevano di Totò), o magari tentare la commedia di costume in un senso più o meno realistico, hanno esasperato lo spunto pirandelliano in direzione di un farsesco esagitato, triviale e banalmente rivistaiolo (il regista ha abbandonato Totò ai suoi peggiori istinti, rinunciando ad esercitare la minima funzione di guida; ha dato ben scarso risalto alla figura della donna, pur disponendo di un’interprete suggestionante come Viviane Romance; ha confmato quasi tutti gli altri personaggi sul piano di scadenti macchiette: cosi che dal disastro non si salvano che Orson Welles, grazie anche ad una divertente truccatura, e il vispo ragazzino).

Per circa due terzi il film segue con apparente pedissequo ossequio il testo teatrale, ma cercando unicamente di spremere da esso tutti i più bassi effetti comici di cui può essere suscettibile. Il gioco non tarda a diventare sgradevole e gratuito, come allorché la "virtù", anzi che in una "baldracca da trivio" viene trasformata, per renderla appetibile dal marito, in una urtante maschera di cera dipinta. A un certo punto, l'ossequio al testo cessa: per rendere più insistente l'alternativa di speranze e di sconforti nei due amanti, il capitano non mangia la torta drogata a tavola, ma nel cuore della notte, variante la quale non si traduce che in una lungaggine inutile, entro un racconto ormai frusto. Inoltre — e qui la cosa diventa comica, — per riscattarsi da tutta la volgarità profusa senza motivo, gli autori del film hanno nel finale fatto omaggio alla censura ed alla "pruderie": il capitano compie si il dover suo. ma non sotto l’impulso dovuto all’afrodisiaco, che in realtà per errore non era stato messo nella torta, ma spinto da un autentico desiderio, di fronte alla bella moglie improvvisamente "riscoperta". E il film si chiude con il definitivo ravvedimento della bestia e con la delusione di Paolino, che va a cercarsi consolazione presso la prostituta del paese, leggiadra invenzione degli scenaristi. Che gli eredi di Pirandello abbiano permesso un simile arbitrio, il quale riduce l’apologo al rango di una disgustosa "pochade" non è molto edificante. Vero è che essi possono giustificarsi col precedente citato del «Fu Mattia Pascal», avallato dallo scrittore stesso.

Il passivo di questo film, privo di qualsiasi senso e di qualsiasi giustificazione, coinvolge anche il Gevacolor, diseguale, immaturo od offensivo (ahi quanto lontano da quello di Barbe-Biette («Barbablù», 1950, di Christian-Jaque!). Gli esterni del paesino della costiera amalfitana, dove, in omaggio a Totò, è stata trasferita l’azione, situata da Pirandello in "una città di mare, non importa quale", ma presumibilmente siciliana, ricordano i "viraggi" blu e ocra dell'epoca arcaica. Quanto agli interni, si risolvono in un massiccio e indiscriminato affastellarsi di tutte le gradazioni di giallo, di ocra, di marrone, profuse fino all'assurdo nella scenografia (Mario Chiari), nell'arredamento, negli accessori, nei costumi, con la pia illusione di agevolare lo sfruttamento delle tonalità più mediterranee calde tra quelle proprie del sistema di colorazione impiegato».

Giulio Cesare Castello, «Cinema», 30 aprile 1953


Con la riduzione cinematografica della commedia di Pirandello “L'uomo la bestia e la virtù”, si ha la prova che il cinema - e specialmente il cinema comico che, non bisogna dimenticarlo, in Italia ha dimostrato più intelligenza di quello romantico, passionale, storico e drammatico - il cinema comico dicevamo, è alla ricerca di strade nuove: s'è accorto della insufficienza delle ultime farsacce e si avvicina ai classici, dai quali almeno potrà avere in prestito dei personaggi saldi, efficaci, magari insoliti, intorno ai quali poter richiamare di fantasia, con moderne e non disprezzabili contaminazioni. Luigi Pirandello fu sempre attratto dal cinema, come da ogni altro mezzo di espressione artistica. Dopo «Il fu Mattia Pascal», del resto, altri film presero le mosse delle sue opere in Italia, in Germania, in America: grande fu la risonanza di taluni di essi, e specie di ”Come tu mi vuoi” magistralmente interpretato da Greta Garbo.

La suggestione della vivace farsesca de “L'uomo, la bestia e la virtù”, che dissimula la sua sotterranea amarezza in un'allegra frenesia materiata di boccaccismo è pronta, contagiosa e irresistibile. Steno, lo stesso regista cui si deve fra l'altro, in collaborazione con Monicelli, l'eccellente “Guardie e ladri”, ha fatto di Totò “l'uomo”, di Orson Welles “la bestia”, e di Viviane Romance “la virtù”. La scelta non poteva essere migliore. Il grande Totò, è fatto apposta per dare figure corpo l'uomo. [...]

Con l'aiuto dello scrittore Vitaliano Brancati, Steno ha sceneggiato il soggetto. Ma i motivi di richiamo e i ”grandi nomi” di questo film eccezionale, che è stato impossibile presentare al Festival di Cannes perché non ancora pronto, non terminano qui. Infatti alla firma di Luigi Pirandello, all'interpretazione del trio Totò- Welles- Romance e di una schiera di ottimi attori quali Franca Faldini, Clelia Matania, Mario Castellani, Rocco D'Assunta, alla regia di Steno e alla sceneggiatura di Vitaliano Brancati va aggiunto il magnifico Gevacolor con cui il film è stato realizzato.

“L’uomo, la bestia e la virtù” ha dunque, in realtà, tutte le carte in regola per essere giustamente considerato il film più atteso dell'anno. Ed appunto per questo suo carattere di eccezionalità, il film non verrà programmato in altri locali nella presente stagione.

«Momento Sera», 9 maggio 1953


Fra le commedie di Luigi Pirandello, "L'uomo, la bestia e la virtù" è certamente una di quelle più sboccate. [...] Nonostante la malizia. Infatti, con cui li aveva brillantemente dipanati, Pirandello aveva affrontato questi temi solo per esprimervi le delusioni e lo sconforto che la natura umana gli aveva cagionato. Il film di oggi, invece, ha volutamente ignorato il carattere sottilmente polemico del testo pirandelliano e, rispettandone solo lo schema esteriore, i personaggi principali, alcune loro battute di dialogo, li ha francamente trasformati in una farsa di immediato effetto comico, grassoccia come una pochade, edulcorata in coda da un inatteso embramassons coniugale e da un subitaneo amore del professore per una fanciullina del luogo che, con tutta evidenza, lo allontanerà dalle vie dell'adulterio, Il pubblico ha riso, ha sorriso, ha battuto le mani. E parte del merito va data anche agli interpreti: Viviane Romance, Totò, Orson Welles. Regia di Steno.

G. L. R. (Gian Luigi Rondi), «Il Tempo», 10 maggio 1953


L'uomo la bestia e la virtù è una delle più saporose anticonformiste commedie di Luigi Pirandello. La trasposizione cinematografica di quest'opera era, indubbiamente, un'idea ottima da accettarsi con entusiasmo ed interesse. Assai intelligente era anche la scelta di Totò e di Orson Wells per l'interpretazione dei due personaggi principali: [...] Nella commedia di Pirandello la questione era trattata con rara sensibilità, senza sdruccioloni. Il senso dell’apologo era cristallino: una satira più che scoperta alla morale corrente, alla corruzione delle convenzioni borghesi, che fanno virtù del tradimento e del vizio e che son contente soltanto quando le cose sporche hanno un esteriore scorza di ”legittimità”. Ma chiunque, con il cinema, se fosse accostato a tale bollente materia, avrebbe corso ovviamente il rischio di far naufragare la buone intenzioni nella volgarità, di trasformare quella che era una commedia di costume in una pochette dai doppi sensi volgari.

Non si può dire che il regista Steno abbia schivato questo pericolo, che anzi le situazioni appaiono veramente troppo grassocce, private come sono di buona parte del mordente e del brillante dialogo pirandelliano. Si deve dire tuttavia che Totò è un interprete molto bravo, che Orson Welles ha per tema «Picasso el la poésie», ma in definitiva il film strappa più di una sincera risata. La donna, la virtù, e Vivian Romance

l.c. «L’Unità», 10 maggio 1953


L'uomo la bestia e la virtù e fra le commedie di Pirandello del primo periodo, una di quelle più apertamente pervase dal acre e amaro umorismo con il quale lo scrittore aveva descritto nelle novelle il sordido mondo della piccola provincia col suo conformistico bisogno di salvare le convenienze nascondendo, sotto la rispettabilità dell'ordine e della forma, il fermentare delle pressioni più torbide e degli istinti più segreti. Un che di aspramente burlesco e di crudamente beffardo circola in questa accesa rappresentazione dell'ipocrisia e della ferocia che regolano la formale moralità delle apparenze di cui ciascuno si compiace e al tempo stesso si lamenta per il rispetto della società e della parte che in essa gli è assegnata. [...]

La riduzione cinematografica attenuato toni e situazione trasformando in farsa il grottesco e concludendo la vicenda con la riappacificazione dei coniugi; ma se la accomodante finale certamente moralistico travisa La commedia svuotandola del suo significato e riducendo la ad un'avventura boccaccesca: ciò che può rispondere alle esigenze della censura, ma non certo a quelle dell'arte che pretende il rispetto di uno scrittore come Pirandello. Ad ogni modo Steno ha fatto del suo meglio per dare al racconto un salace arguto sapore sfruttando il pittoresco ambiente di un borgo amalfitano, i divertenti effetti di comici diversivi e le personali irresistibile risorse di Totò, il quale pur dando al maestro una nevrastenico intemperanza che non risponde alunni dell'assegnazione del personaggio pirandelliano, ha tratteggiato una gustosa figura di pasticcione intrigante. Orson Wells è un capitano Brutale più dell'aspetto che nel carattere. mi viene il Romance, in buona forma, uno a una virtuosa suo malgrado di piacevole vivezza.

E.C. (Ermanno Contini), «Il Messaggero», Roma, 10 maggio 1953


Un personaggio nuovo è stato inserito nell’edizione cinematografica dell’apologo pirandelliano "L'uomo, la bestia e la virtù", diretta da Steno. E’ il personaggio di una ragazza di paese, offerta a chiunque paga, la cui funzione è quella di confortare l'uomo, ossia Totò, quando la virtù, ovvero Viviane Romance, decide di tornare, fedelmente, al suo marito-bestia, cioè il capitano di mare Orson Welles. La giovane attrice Franca Faldini dà il volto a questo personaggio. L’aggiunta di questa figura, che giustifica anche il mutamento, dell’epilogo, troppo arbitrariamente trasformato, costituisce la più sostanziale modificazione apportata al testo teatrale. Le altre divergenze nascono dal clima stesso del lavoro più che dalla sua stessa consistenza; sullo schermo l’apologo lascia una sensazione di stiracchiato, specie per la inutile prolissità di certi dialoghi, che sembrano fatti apposta per consentire a Totò di esaurire una parte della sua ricca carica di energie, diciamo, mimiche.

[...] Se ne é fatto un grottesco vernacolo, fortemente colorito, non solo per l’apporto, del resto dimesso, del Gevacolor. E abbiamo l’impressione che, diversamente da come accadeva in Pirandello, l’uno del tre personaggi, naturalmente quello di Totò, prevalga e soverchi sugli altri due. La farsa originale è greve e distesa, sullo schermo; pensiamo al risultati, certo migliori, che si sarebbero ottenuti se si fosse contenuto lo spettacolo In termini di stringatezza. Buona l’interpretazione, eccellenti le scenografie.

«Corriere d'Informazione», 15 maggio 1953


Anche quel mattino il professor Paolino Lovico arrivò a scuola in ritardo. Schizzò di volo dal portone della sua tetra casa, corse a perdifiato per le straducole del paese, con il cappotto nero e lugubre che svolazzava alle sue spalle dandogli l’aspetto di un pipistrello; passò di gran carriera dinanzi alla farmacia del suo carissimo amico Saro e nemmeno si distolse dalla corsa per rispondere al di lui saluto. Ciononostante, arrivò a
scuola con ben tre quarti d'ora di ritardo. Il bidello, sorridendo sornione, gli comunicò che nella sua classe si era recato a tener lezione il Preside in persona. Lovico sorrise agro. Restò qualche istante fermo, davanti alla porta dell’aula, timoroso per l’intemerata che sicuramente il Preside gli avrebbe rivolto. Infine si fece animo e bussò. Aprì il Preside, che lo fissò con occhi incandescenti.

« E bravo, professore... », cominciò il Preside, « anche stamattina... E così per tre giorni di seguito! Sentiamo, sentiamo un po’ che cosa è accaduto stamane... ».

«Cose terribili! Cose terribili!», bofonchiò Lovico, smarrito.

« L’altro ieri si è svegliato con la casa allagata, ieri con il gatto che non sapeva scendere dal letto... Oggi che è stato? », proseguì i‘l Preside,

« La serva... », mugolò Lovico.

« La serva? »

« Si è avvelenata... »

« Per amore, immagino », disse il Preside, ironicamente.

«Oh!... Per fortuna... sono arrivato in tempo... sa... »

« Lei deve arrivare in tempo a scuola! », sbottò il Preside. « Soltanto a scuola! Lei è sempre l'ultimò ad arrivare... ». Parve cercare nuove parole più cocenti, ma invece s'interruppe e fissò gli occhi stralunati dietro il professar Lavico. « E tu, arrivi adesso? »

Paolino si voltò e scorse il piccolo Nonò Perella, che avanzava calmissimo lungo il corridoio.

Il bambino si fermò a pochi passi dal Preside e disse: « Sissignore... »

« Ah! Ma bene! Va’ subito a casa e torna accompagnato dalla mamma! ».

« Ma la mamma lo sa che sono uscito in ritardo... Sono tre giorni che faccio io la spesa, perché lei non sta bene... », disse Nonò. Fece dietro-front e si avviò per uscire

« Ma che succede da tre giorni in questo paese? Stanno tutti male... ».

«Eh ! », mormorò Paolino. «Da tre giorni succedono cose... ». S’interruppe di botto, e mentre il Preside lo guardava esterrefatto. Paolino si voltò di scatto e prese a rincorrere Nono

Lo raggiunse sulla strada. Lo chiamò a sé e si fece consegnare i quaderni. E mentre il bambino lo guardava sorridendo si mise a frugare freneticamente fra le pagine. Ne estrasse alfine un biglietto; lesse d’un fiato: « Situazione gravissima. Mio marito arriva stasera, Alle tre a casa tua ». Come colpito improvvisamente da un collasso, Paolino si portò la mano al cuore e vacillando fece per allontanarsi. Nonò gli corse appresso per riprendere il suo quaderno, poi se ne andò. Sempre più 'barcollante, il professore raggiunse la farmacia e vi entrò. Nel negozio c'era il suo amico Saro, che invece di badare ai clienti insegnava il motivo di una canzone a due giovanotti strimpellanti chitarra e mandolino. Naturalmente, vedendo Paolino pallidissimo e tremante, subito il farmacista gli prestò le necessarie cure. Lo fece sedere e gli approntò un calmante. Paolino sorbiva meccanicamente l’intruglio, quando si udirono alte grida provenire dalla strada « M’ammazzò! M'ammazzò! », urlava una donna. E un’altra, di conserva: «Questi non sono uomini! Sono bestie feroci! ».

Un istante dopo entravano nella farmacia Carmela, scarmigliata, col viso graffiato e insanguinato, accompagnata da Mariannina, la quale recava su un braccio le tracce sanguinose di vari sgraffi. Era accaduto che il marito di Carme-la. marinaio, gelosissimo, fantasticando di essere da lei ingannato, l’aveva battuta a sangue. S’era intromessa Mariannina, una giovane di facili costumi, bellezza popolaresca e un po’ triviale, ch’era riuscita a toglier Carmela dalle zampe dell’energumeno.

« M’ammazzò! », seguitava a gridare Carmela. « M’ammazzò! ».

«Marinai!», sbraitava di continuo Mariannina. « E chi le fanno queste belle cose? I marinai! Loro se la spassano e pensano che le mogli facciano altrettanto! E invece, in questo paese, le donne, tranne me, sono pure come l’acqua! »

« Oh! », si lamentò sottovoce Paolino

Mariannina si voltò verso di lui e disse, solennemente: « Disgraziato chi ci capita, professore! Alla larga dai marinai! »

« Alla larga dai marinai... », balbettò Paolino, pensando che ognuna delle parole che sentiva era come una bastonata sulla sua testa Proprio così. Perché l’integerrimo professor Paolino Lovico da un certo tempo aveva un grosso conto in sospeso appunto con un marinaio. Anzi, un capitano di lungo corso: il capitano Perella, comandante del mercantile Segesta. Veramente finora il capitano era ancora all’oscuro di tutto, ma adesso Paolino si trovava sull’orlo del precipizio! Lui. e la signora Perella, naturalmente!

Era una storia che, a ripensarla, faceva venire i lucciconi agli occhi del professore. Dunque lui da un po’ di tempo frequentava la casa dei Perella; portava il soccórso della sua eminente opera professionale al piccolo Nonò quale riguardo-allo scibile umano tra oltremodo restìo. Così, dando lezioni al bambino, aveva conosciuto la madre. Una donna» di mezza età, un po' appassita dalla vita di provincia, ma piuttosto belloccia, piacente insomma. Una donna dall’animo superiore, naturalmente: fine, nobilissima, spirituale. Come una donna di questo genere superiore avesse potuto unirsi con un bestione del tipo del capitano Perella, lui Paolino non era mai riuscito a comprendere! Comunque, lei spirituale e il capitano animalaccio, si erano uniti, e il frutto era stato Nonò. Ma la vita, che conduceva la povera signora Perella! Il marito sempre lontano, navigante per i sette mari quasi tutto l’anno, la trascurava completamente. Si era poi anche saputo che lui, il bestione, aveva un’altra donna, a Napoli, e nientemeno che cinque figliuoli illegittimi! Considerato questo cumulo di sciagure, risultava fin troppo ovvio che qualcuno doveva pur tentare di portar un barlume di gioia nella vita della signora Perella. Codesto barlume l’aveva portato Paolino. Oh, un amore superiore, un amore intessuto di lirismo, un amore fra anime elette... Solo che proprio tre giorni fa, la signora gli aveva comunicato, fra pianti e sospiri, che un frutto di tanto spiritualismo... cominciava a formarsi entro di lei!

Questa era la causa della frenesia, anzi dello sconvolgimento, che da tre giorni dominava Paolino Lovico!

Puntualissima, alle tre del pomeriggio, la signora Perella bussò alla porta del professor Lovico. Teneva per mano Nonò. Difatti, per salvar le apparenze, la sua visita doveva sembrare chiaramente causata dal discutibile profitto del bambino. A Nonò Paolino dette un bellissimo libro illustrato da sfogliare, in tal modo egli e la signora poterono discutere liberamente.

« Ohi! », si lamentò subito la signora. « Che abbiamo fatto! ».

« Ma... sei proprio sicura, anima mia? ». domandò Paolino.

« Sì... sì, matematicamente sicura », rispose la signora, abbassando pudicamente gli occhi al pavimento. « Ho già persino le voglie».

« Che voglie?! », allibì Paolino.

« Voglie di champagne, mio caro! il brutto è che mio marito sa benissimo che sono astemia... E se mi vede bere lo champagne capisce subito tutto! Ohi! Ohi!... ».

« E quando arriva? ».

« Stasera alle cinque. Fra due ore! Oh, povera me!... ». Fece una breve pausa, quindi riprese: «Arriva stasera e riparte domattina. Starà via almeno sei mesi... E... e non mi guarderà neppure! ».

« Come?! Che significa questo? Che marito è? », sbottò Paolino.

« Tra me... e lui... niente... Ormai è sempre cosi, da quando è nato Nonò... ».

« Oh, ma questa volta no! », quasi urlò Paolino, esterrefatto. « E’ il suo dovere, in fondo... Per tutti i diavoli se è i'1 suo dovere! ».

« Paolino! Ma lui al suo dovere non ci pensa più... e tu lo sai bene! Sono perduta... perduta...».

Il professore ebbe uno scatto. «Ci sono io, carissima, anima mia, cuor mio!... Ne parlerò al dottore: è mio amico... Lui mi aiuterà... ».

« Che intendi fare? », domandò la signora, spaventata.

« Oh, sta’ tranquilla, anima mia! Si troverà qualcosa... per ricordare il suo dovere., a tuo marito! ».

Il professore poco dopo riuscì a rintracciare il dottor Pulejo, fratello del farmacista, amico suo, e gli spiattellò tutta la storia.

« Tu devi salvarmi, lo devi... Si tratta di vita o di morte, hai capito? ».

Il dottore rideva a crepapelle. « E che vuoi che faccia? Ah, ah ah... Sono mica io... il marito... Ah ah ah... ».

« Ma insomma... la scienza avrà pure qualche ritrovato... ».

«Oh Dio! », fece il dottore, riavendosi dalla convulsione di risate. « Sicuro che c’è un ritrovato... Sta’ tranquillo che ti aiuto io... Tu stasera sei a cena da loro, vero? Non ci andrai a mani vuote, suppongo. Prendi delle paste, e poi portale a mio fratello, in farmacia, digli che poi passerò io a fargli la fattura! Ah ah ah!... ».

« Quante ne devo prendere? ». domandò Paolino, d’un subito acquietato.

« Prendine una decina, anche venti... ».

« Trenta, ne prendo, anzi quaranta... ».

« Oh! Vuoi... vuoi farlo esplodere... Ah ah ah!... ».

Non era passato un quarto d’ora che Paolino aveva già consegnato a Saro, in farmacia, un grosso pacco contenente quaranta paste. Gli disse di che si trattava e che avrebbe pensato a tutto il dottore, poi se ne andò. Era appena uscito dal negozio che già Saro e i soliti buontemponi si gettavano a pesce sulle paste.

In casa Perella il professore trovò lo sconforto più profondo. Grazia, la domestica, era palesemente contrariata per l’arrivo del padrone: ci sarebbero state le solite scenate, i piatti rotti, le vivande rovesciate per terra, e poi ci sarebbe andata di mezzo lei. La signora, per le ragioni che ben conosciamo, appariva più morta che viva. L’unico a essere emozionato felicemente era Nono: il ritorno a casa del padre, vero lupo di mare, significava gran cosa per lui.

In quattro e quattr’otto Paolino mise al corrente la signora Perella di quanto concertato col dottore. Poi la convinse ad acconciarsi in maniera da attirare l’attenzione del marito.

« Sì, lo so, anima mia, lo so che è un enorme sacrificio... Tu casta, tu pura, devi renderti attraente per una bestia come tuo marito! Ma bisogna che tu lo compia, questo immenso sacrificio, e intero! Bisogna! ».

« Devo... devo mettermi... più... scollacciata? », domandò la signora, con un Alo di voce.

« Sicuro, sicuro... Scollata... scollatissima... il più possibile, capisci? E pettinarti in modo... mondano, capisci? Devi, questa volta, mostrare le tue grazie, le grazie che tieni gelosamente, santamente nascoste... Bisogna! ».

« Sarebbe inutile, credi... Lui, alle mie grazie, non ci bada mai! ».

« Ma dobbiamo forzarlo a guardarci! Quest’animale, questa bestia che non capisce la bellezza modesta, pudica... la bellezza che nasconde i suoi tesori! E noi, questi tesori, bisogna che glieli mettiamo un po’ sotto gli occhi... ».

« Oh! », squittì la signora, arretrando di qualche passo.

«Bisogna!», intimò Paolino, muovendo verso di lei.

Spaurita, la signora fuggì nella sua camera, ma anche lì Paolino la seguì. Le si avvicinò, deciso, e prima che ella potesse impedirglielo, le sbottonò la camicetta e gliela strappò di dosso. Seminuda, prossima al pianto, la signora Perella restava impietrita come ia statua del più acuto dolore!

« E questo è niente », insistè Paolino. « Devi essere scoilatissima, e provocante al massimo... Devi fare di tutto, purtroppo, tu, tu virtù!, per provocare la bestia! La bestia, vale a dire tuo marito!».

Press’a poco nel medesimo istante, la bestia, ossia il capitano Francesco Perella, sulla tolda del Segesta, entrava in porto. Stava accanto al timoniere, per la manovra. e pensando che ormai pochi minuti lo separavano dalla moglie già si sentiva montare tutte le furie alla testa. Era un omaccione colossale, dal torace immenso, le braccia potenti come argani, villoso come un gorilla. Aveva anche la faccia larga e convulsa del gorilla, e tale rassomiglianza appariva ancor più naturale a causa della folta barbaccia che gli invadeva le gote e il mento.

« Ci siamo, capitano », diceva al timoniere. « Sono sei mesi che non vedo mia moglie... e stasera, Natale e Pasqua, a casa mia! Anche lei, eh?... Ah ah ah!... ».

« Macchè io! », rispose sbuffando il Perella. « Natale e Pasqua lì ho fatti a Napoli: qui Quaresima!».

Proprio in quel momento, a casa sua, il professor Paolino Lovico stava addobbando sua moglie press’a poco come una cavalla da portare alla fiera: le aveva fatto indossare un abito a fiorami vistosissimo, la cui scollatura era tale da richiamare tutti i fulmini della censura qualora ella sì fosse attentata a uscire per la strada. Siccome, poi, la signora Perella non aveva in casa né rossetto né cosmetici, il professore aveva provveduto a farle il maquillage adoperando i colori ad acquarello della scatola di Nonò. Le aveva dipinto labbra che sembravano ventose, occhi alla Lulù del tabarin, e infine, per ravvivarle le guance troppo esangui, le aveva colorito due pomelli di una tinta così paonazza da parere etichette reclamistiche della salsa

« Cosi sei un capolavoro di provocazione! », esclamò alla fine Paolino, rimirando la sua opera, compiaciuto.

«Ohi! Ohi!», badava a ripetere lamentosamente la signora, non osando neppure guardarsi nello specchio. Fuggì a rinchiudersi nella sua stanza, terrorizzata, perché non voleva farsi vedere da Saro, il farmacista, introdotto in quell’istante da Grazia.

Saro veniva a portar a Paolino il "salvataggio”. Siccome le paste se le era divorate lui, con l’ausilio degli amici, Saro aveva fatto fare una torta di crema: metà bianca e metà di cioccolato. Nella metà di cioccolato c’era la polverina Vigoril, adatta per richiamare ai doveri maritali la bestia!

Ben lontano dall’immaginare quanto accadeva nella sua casa, capitan Perella se la godeva un mondo con Nonò, che sua moglie gli aveva mandato incontro insieme con un marinaio. Egli non poteva sopportare l'idea di avere un figlio cresciuto nella bambagia come diceva tacesse sua moglie. Durante il tragitto dalla nave alla banchina, in motobarca, egli aveva gettato Nonò, bell’e vestito, in mare: e vedendo il bambino arrabattarsi terrorizzato in acqua, se la godeva un mondo. Lo ripescò quando si accorse che le cose potevano prendere una cattiva piega e, toltigli i vestiti inzuppati, se lo avvolse amorosamente, anche se burbero, in una coperta di lana.

Fu così che entrò in casa sua, portando in braccio Nonò. Salutò calorosamente Paolino e passò dinanzi a sua moglie, che faticosamente cercava di mostrarsi ”in tutte le sue grazie", senza nemmeno guardarla. Affidò 11 bimbo alla domestica, portò le sue valigie nella camera da letto, separata da quella della moglie, e sempre chiacchierando burbanzoso con il professore tornò in sala. Sedette con fracasso su una seggiola e si levò berretto e giacca, buttandoli senza riguardo in giro. D’un tratto sollevò là testa e vide sua moglie. Restò basito! Era chiaro che non voleva credere ai suoi occhi: rimirava la moglie da capo a piedi — mentre lei atteggiava le labbra a una smorfia che forse doveva essere un sorriso — e infine esplose in una ciclopica risata

«Ah ah ah!... Oh!... Ah ah ah!... Ma... ma come ti sei bardata?... Ah ah ah!. . Làvati subito., e cambiati... Ti sei bardata così per me, eh? E' inutile, credilo... Ah ah! »

A due passi da lui, fremente come una betulla scossa dai potenti venti del nord, Paolino sembrava lì lì per gettarsi addosso al capitano e strozzarlo.

Finalmente, si misero a tavola: Il capitano parlava di continuo, dicendo cose che facevano sobbalzare Paolino per la vergogna. Bestia!, diceva fra sé Paolino, trangugiando il brodo come fosse cicuta. bestione doppio! E l’altro seguitava. con sferzate così triviali da far venire la pelle d’oca. E poi non lesinava rimbrotti alla moglie: perché la minestra era una fetenzerìa. perché Grazia faceva il suo comodo..

« In questa casa non c’è mai niente che va bene! », gridava, vieppiù infuriato. « Mi piange il cuore, a starmene qui... ».

E maltrattava Nonò, dicendo.che naturalmente era sua moglie a rovinare l'educazione del bambino, con le sue mollezze e smancerie.

Poi Nonò recò in tavola la torta portata da Paolino, e disse che voleva mangiare tutto lui il cioccolato! Seguirono scene tragiche, per evitare che il bimbo si impadronisse della torta. Dovettero spedirlo, per castigo, in camera sua, e infine Paolino fece le parti e tagliò una grossa fetta — della parte bianca — per la signora, poi un’altra, della stessa parte, da mettere in serbo per Nonò, e un-pochino per sé: tutta la parte del cioccolato la riversò nel piatto del capitano. Questi dapprima rifiutò, dicendo che il cioccolato gli faceva schifo: ma poi prese ad addentarlo, e in meno che non si dica lo divorò tutto quanto

Il capitano aveva appena terminato di tirare un gran sospiro di sollievo, e Paolino già si alzava per andarsene. Lo accompagnò alla porta la signora.

« Speriamo in bene! », mormorò il professore. « E domattina... se tutto va bene, metti un vaso di fiori sul davanzale della finestra».

Fu una notte terribile per Paolino! Non riusciva assolutamente a trovar pace. D’un tratto pensò che, piuttosto di fare il dovere suo con la moglie, il capitano avrebbe potuto ricorrere a Mariannina: allora corse dalla donna e la convìnse, se mai fosse stato il caso, a non prestarsi ai desideri del capitano Perella. Mariannina promise solennemente, e non volle nemmeno accettare un compenso che Paolino voleva darle.

Come Dio volle, giunse l’alba! E Paolino era là. in strada, sul marciapiede di fronte alla casa dei Perella, Fu li che lo scorse dopo poco, il capitano, che lo chiamò di sopra a prendere una tazza di caffè. Paolino salì di corsa, entrò affannato. Sul davanzale non c’era nessun vaso! Egli assistè a un battibecco fra il capitano e Grazia, la domestica, dal quale arguì che quella notte il capitano s’era preso una certa licenza con la domestica... Si sentì morire. Possibile che tutto, proprio, andasse per il peggio? Eppure non c’erano dubbi: c’era stato qualcosa di grosso fra il capitano e Grazia. Lui pei se il lume della testa e cominciò una intemerata contro il capitano il quale lo ascoltava sbalordito. Li trasse alla realtà il sopraggiunuere della signóra. Entrò nella sala sorridendo, ravvolta in una serica vestaglia. Salutò con effusione il marito, che le rispose grugnendo. quindi sorrise a Paolino, il quale la fissò con tutta l’anima nello sguardo.'

« Professore », disse lentamente la signora, « mi aiuta a portare i vasi sul davanzale? ».

Senza poter parlare, Paolino l< si appressò e fece per toglierle dalle mani il vaso che ella recava « Oh no », fece la signora, sorridendo gioiosa, « ne prenda un altro... Dobbiamo metterli sul davanzale tutti e cinque! »

Consalvo Lepri, «Novelle Film», Anno VII, n.282, 16 maggio 1953


[...] Assai intelligente era anche la scelta di Totò e Orson Welles per l'interpretazione dei due personaggi principali [...]. Si deve dire che tuttavia Totò e' un interprete molto bravo e [...] in definitiva il film strappa più di una sincera risata [...]

Tommaso Chiaretti, 1953


«Paese Sera», 11 maggio 1953


[...] Bisognava avere il coraggio di ridurre il film a termini più brevi, evitando il superfluo. Doveva essere più scarno per risultare meglio efficace. Steno si è rifugiato nelle notazioni paesane e folcloristiche, e finanche nelle canzoni, per trasformare un apologo senza tempo e senza luogo in una commedia di pimenti dialettali. Ha annacquato certi colloqui — come quello fra Totò e il medico, o fra Totò e la sua amante, nella prima parte — in pleonastiche verbosità. Ha dato ai tre personaggi la stessa nevropatica inquietudine, senza possibilità di variare i toni. E com'era quasi inevitabile, ha pesato la mano sull'impudico, sfruttando quanto più era possibile il sapore boccaccesco del canovaccio.

Non si può negare, tuttavia, che sia stata posta molta cura, e scrupolosa, negli elementi esteriori; per esempio, nelle scenografie di puntuale meticolosità, e nella recitazione, eccellente cosi in Totò come in Orson Welles e nella Romance, ciascuno del quali ripete felicemente, anche nell'aspetto, i caratteri del suo personaggio. L’epilogo pirandelliano è stato mutato, determinando, per morale preoccupazione, una effimera armonia fra i due coniugi e inserendo un personaggio che in Pirandello non c’era, quello d'una cocottina per bene, consolatrice di Totò rimasto solo: Franca Faldini la raffigura. Il Gevacolor non aggiungo molto; se mai, toglie qualcosa, facendo cianotici i volti.

«Corriere della Sera», 14 maggio 1953


[...] Questo elenco acquista oggi un nuovo titolo "L'uomo la bestia e la virtù", realizzato dal regista Steno con Orson Welles, Viviane Romance e Totò, a colori.[...] Il regista Steno ha puntato esclusivamente sugli elementi farseschi dell' opera teatrale. Vi è stato costretto anche dalla scelta di uno degli interpreti principali, che è Totò nel personaggio del professorino innamorato della moglie del violento e nerboruto lupo di mare. [...]

«Il lavoro illustrato» n. 20 Roma, 17-24 maggio 1954


L'apologo di Pirandello è diventato un mero pretesto, un presuntuoso arbitrio per un film goffo e volgare, esagitatamente farsesco (invece che grottesco), triviale, macchiettistico, banalmente rivistaiuolo, pieno d'umori grossolanamente e grassamente ridanciani fino a rasentare la pornografia.

Francesco Callari, Pirandello ed il cinema, (Marsilio 1991)


Una maschera da recuperare - Pirandello dietro Totò

«Totò moriva il mattino del 17 aprile quando Antonio de Curtis, in arte Totò, uscì con i piedi in avanti dalla sua casa dei Parioli a Roma e si avviò per strade e raccordi di autostrade e piazze nereggianti di gente dolente per raccogliere quell'ultimo assordante applauso nella chiesa di S. Maria del Carmine a Napoli - dovette divertirsi e commuoversi fino alle lacrime allo spettacolo pirandelliano che gli si snodava dietro».

A ricordare quel funerale di 25 anni fa (Totò morì il 15 aprile 1967) è Franca Faldini, la sua ultima compagna, che si sofferma a tratteggiare, con tocco sapido e linguaggio colorito, i presenti alla cerimonia funebre: lei stessa, la «vedova biblica», e poi «due frastornati nipoti adolescenti; una figlia giustamente in lacrime, fiancheggiata da un solerte ex marito che mai gli era stato troppo congeniale e da un sollecito accompagnatore ufficioso di cui il padre ignorava persino l'esistenza; una ex moglie che, risposatasi civilmente con qualcun altro più di tre lustri prima per poi di nuovo separarsi, presenziava in gramaglie strette, accasciata e sorretta per le braccia...». [...]

Questo pirandellismo della comicità di Totò lo si è visto proprio in questi giorni, al Museo Nazionale del Cinema di Torino, quando è stato ripresentato un film raro, non più in circolazione da molti anni, che a Pirandello si anni fa richiama esplicitamente. E' L'uomo, la bestia e la virtù, diretto nel 1953 da Steno, con Totò nella parte dell'«uomo», Orson Welles in quella della «bestia» e Viviane Romance in quella della «virtù». Un film che si distacca dai molti altri interpretati dall'attore non soltanto per una migliore cura formale e un ben costruito intreccio drammatico, ma soprattutto per un progressivo spostamento dalla maschera di Arlecchino al personaggio pirandelliano.

Il professore Paolino del film, un insegnante di scuola media in un piccolo paese della costa amalfitana, amante segreto di Viviane Romance, moglie trascurata del capitano di marina Orson Welles, è ben più di una macchietta napoletana, di una figurina del folklore locale, del comprimario di una commedia boccaccesca. E' il personaggio demoniaco, appunto pirandelliano, di un dramma che mette in scena le ipocrisie umane, le convenzioni sociali, i risvolti perbenisti e piccolo-borghesi della vita quotidiana, e se ne fa beffe. Un personaggio tutto interno allo spettacolo di questa miseria morale, con le sue meschinità e cattiverie, e tuttavia esterno al gioco delle parti, quasi osservatore distaccato dei mali altrui.

E' strano che un film come L'uomo, la bestia e la virtù, sia stato trascurato allora dalla critica o severamente giudicato (come la maggior parte degli altri film di Totò). Strano che ancora di recente uno studioso attento come Francesco Càllari, nel suo monumentale Pirandello ed il cinema (Marsilio, 1991), abbia potuto scrivere: «L'apologo di Pirandello è diventato un mero pretesto, un presuntuoso arbitrio per un film goffo e volgare, esagitatamente farsesco (invece che grottesco), triviale, macchiettistico, banalmente rivistaiuolo, pieno d'umori grossolanamente e grassamente ridanciani fino a rasentare la pornografia». [...]

Gianni Rondolino, «La Stampa», 15 aprile 1992


NOVITA' Raitre propone domanni sera «L'uomo, la bestia, la virtù»: uno dei pochissimi mai visti in video

Sorpresa, Totò con Orson Welles

Prima TV del film congelato nel '53 dopo le proteste della famiglia Pirandello

Eredi del drammaturgo bloccarono l’opera dopo l'uscita nei cinema: ma non fu un'azione contro il comico. Presto proposta sul piccolo schermo un’altra commedia data per scomparsa.

Un Totò in prima visione televisiva. Raitre propone per la vigilia di Natale, domani alle 20.30, «L’uomo, la bestia e la virtù», uno dei pochissimi film del comico napoletano mai passati sul piccolo schermo. E dove il principe della risata appare in coppia con Orson Welles, Ma è un’inedito a metà. Spezzoni della pellicola sono stati presentati in una puntata di «Totò, un altro pianeta», curato per Raiuno da Giancarlo Governi, e all’inizio di quest’anno è uscita un’edizione home-video. [...]

«Ma quella degli eredi non fu un'azione anti-Totò — spiega Governi —, piuttosto contro lo spirito del film. Nessuno credette mai fino in fondo nella pellicola, che ebbe molti problemi. Solo Totò ci mise l’impegno di sempre. E anche per questo è da vedere: non so perché la Rai abbia atteso un anno prima di mandarlo in onda».

E realizzato a colori, ma sul video va in onda una copia in bianco e nero, l’unica a essersi salvata. Totò, assieme a Steno, volle essere tra i pionieri del colore (in questo caso del sistema Gevacolor) e secondo alcuni i suoi problemi alla vista peggiorarono proprio dopo le riprese di questi film che allora richiedevano un’illuminazione molto forte sul set. [...]

«Corriere della Sera», 23 dicembre 1993


Pirandello fatale: quel flop di Totò e Welles

Gli eredi fecero togliere il film dalle sale.

Era il 1953 e quello della premiata ditta di cineproduttori Ponti-De Laurentis si annunciava come un progetto da Hollywood sul Tevere. A soddisfare il colto e l’inclita, almeno sulla carta, c’era il Pirandello dell’apologo grottesco L’uomo, la bestia e la virtù da affidare alla sapienza di Brancati sceneggiatore e all’intelligenza registica di Steno, il tutto girato senza badare a spese, in un abbacinante quanto pomposo Gevacolor e a servizio d’interpreti stellari: il campione dei comici Totò nella parte di Paolino affiancato, per i ruoli di capitan Perella e consorte, dall’ingegnosa star in trasferta Orson Welles e dall’attempata femme fatale Vivian Romance. Ognuno dei partecipanti di quell’allettante impresa brillava di luce propria, dall’aiuto sceneggiatore Lucio Fulci all’imberbe segretario di edizione Sergio Leone. Eppure il risultato fece flop: fin dall’uscita la pellicola fu inspiegabilmente boicottata dagli spettatori e talmente bersagliata dai critici da indurre gli eredi di Pirandello a pretenderne il ritiro dalle sale. Questo è il motivo per cui L’uomo, la bestia e la virtù rimane una perla rara della filmografia di Totò.

Scongelato solamente nel 1993, allo scadere del veto, è stato di rado programmato in Rai e pubblicato in VHS nella versione decolorata piratescamente circolante fino ad oggi, in attesa di un restauro in Dvd. Col senno di poi, molti raccontarono quel fallimento come se fosse annunciato e, tra questi, un Welles coinvolto per ragioni “alimentari” che in seguito parlò di Totò come di un comico “buffissimo” convinto di essere un discendente di Carlomagno e della Romance come di una ex-diva soggiogata dal marito egiziano che le riscriveva le battute snobbando Pirandello: “E poi lei parlava in francese, il principe e io parlavamo in italiano, e il dialogo non aveva il minimo senso”. [...]

A vederlo oggi, il film di Steno risulta magari loffio ma non pessimo come lo si dipinse, con un Totò efficacemente misurato e con un godibile Welles da Corriere dei piccoli. Irritante è più che altro il finale antipirandelliano imposto dalla censura a Brancati, con la riconciliazione carnale dei coniugi che tronca la relazione adulterina tra la Perella fedigrafa e Paolino, costringendo questi a sposare una prostituta, naturalmente gentile e pronta a farsi redimere.

Umberto Cantone, «La Repubblica», 12 febbraio 2017


I documenti

Il dettaglio sulle edizioni home video del film L’uomo, la bestia e la virtù (1953), con particolare attenzione alle uscite in VHS e DVD, agli anni di pubblicazione, alle case editrici coinvolte e ai contenuti speciali disponibili.

📼 Edizioni in VHS

1. Ricordi Video (Anni '90)
  • Formato: VHS in bianco e nero
  • Anno di uscita: Anni '90 (data precisa non disponibile)
  • Caratteristiche:
    • Distribuzione ufficiale in Italia
    • Versione in bianco e nero, nonostante il film fosse originariamente girato in Gevacolor
    • Nessun contenuto speciale
  • Note: Questa edizione è stata una delle poche disponibili per il pubblico italiano per molti anni, soprattutto dopo la trasmissione televisiva del 1993.
2. Balboni Video (Data non specificata)
  • Formato: VHS
  • Anno di uscita: Data non specificata
  • Caratteristiche:
    • Distribuzione italiana
    • Versione in bianco e nero
    • Nessun contenuto speciale
  • Note: Questa edizione è simile a quella di Ricordi Video, offrendo una versione base del film senza extra.

💿 Edizioni in DVD

1. Movie Detective (USA, Anni 2000)
  • Formato: DVD+R (masterizzato da VHS)
  • Anno di uscita: Anni 2000 (data precisa non disponibile)
  • Caratteristiche:
    • Lingua: Italiano con sottotitoli in inglese
    • Qualità video: Trasferimento da VHS, con logo sovrimposto durante la visione
    • Nessun contenuto speciale
  • Note: Questa edizione è destinata principalmente al mercato anglofono e rappresenta una delle poche versioni disponibili in DVD, sebbene non ufficiale.

🎁 Contenuti Speciali

Attualmente (2025), non risultano edizioni ufficiali in DVD o Blu-ray del film L’uomo, la bestia e la virtù che includano contenuti speciali come interviste, commenti audio o documentari. Le edizioni disponibili sono piuttosto essenziali, offrendo il film nella sua versione base senza extra.

📌 Considerazioni Finali

Il film L’uomo, la bestia e la virtù ha avuto una distribuzione home video limitata, con poche edizioni disponibili e una qualità video spesso non all'altezza delle aspettative, soprattutto considerando che il film fu originariamente girato in Gevacolor. La mancanza di edizioni restaurate o con contenuti speciali rende difficile per gli appassionati accedere a versioni di alta qualità del film.

Per gli appassionati e i collezionisti, potrebbe essere utile monitorare le piattaforme di vendita online e i canali ufficiali delle case di distribuzione per eventuali future edizioni restaurate o arricchite da contenuti extra.



Io ero “la Bestia”, e “l’Uomo” era un comico italiano di nome Totò, che sosteneva di essere diretto discendente di qualcuno tipo Carlo Magno; lo chiamavano “Sua Altezza” perché sosteneva anche di essere un principe. Magari lo era. Era buffissimo: “Pronti per la prossima scena, Altezza”, dicevano; lui entrava sul set e gli tiravano una torta in faccia. Viviane Romance era “la Signora”. Passava le sue giornate cercando di nascondermi all’obiettivo con certi suoi lunghissimi fazzoletti. [...] Non saprei come descrivere il film; era talmente strano. [...] Il marito di Viviane Romance, un egiziano, scriveva il dialogo per la moglie, e senza la minima relazione con Pirandello, col principe Totò, o con me. E poi lei parlava in francese. Il principe e io parlavamo in italiano, e il dialogo non aveva il minimo senso. Non c’era alcun nesso.

Orson Welles a proposito del film "L'uomo, la bestia e la virtù", 1953


Durante la lavorazione, un giorno Welles mi disse: “Ma che c’entro io tra un napoletano e una francese in questo lavoro?". Allora io gli chiesi perché aveva firmato il contratto, e lui ribattè: “Per fame, ecco perché”. Comunque, non mi creò mai dei problemi, non tentò mai di interferire. Anzi, ero io che a volte gli chiedevo un consiglio. Un giorno, finalmente mi suggerì qualcosa e poi aggiunse subito: “Ricordati che non bisogna mai dare retta a quanto suggeriscono gli attori”. Al termine di una scena, si ritirava invariabilmente in camerino. Mi sembra stesse scrivendo qualcosa su Moby Dick. Quando eravamo pronti per girare e si doveva chiamarlo, cercavano tutti di evitare il compito di disturbarlo, perché ne avevano un sacro rispetto. Ha sempre avuto un atteggiamento da gran signore. È uno di quei registi che, quando lavorano come attori per un altro regista, si comportano da ospiti e non da padroni [...] Fu Ponti a incaponirsi nell’idea di L’uomo, la bestia e la virtù, forse perché Pirandello gli dava la possibilità di avere dei grossi attori come Welles e Viviane Romance. Fu un tentativo di cast internazionale che in realtà non funzionò. Ne risultò un film ibrido. Comunque, io la sceneggiatura la feci con Brancati; non è che mi permisi delle cose a vanvera ma mi affiancai il più grosso sceneggiatore e scrittore siciliano, che certo era profondo in Pirandello.

Steno


Lo dissi fin dall’inizio che era un’operazione sbagliata. Lo sceneggiammo io e Brancati. Totò non lo voleva fare, ma aveva il contratto con Ponti e De Laurentiis e non poteva tirarsi indietro. Era una fissazione di Ponti. Non aveva mai funzionato in teatro, perché doveva funzionare in cinema? Costò un sacco di soldi, e non fece una lira. Con le grane e le rotture di scatole che ci furono nel girarlo, soprattutto per via del marito della Romance, che la troupe chiamava Pallesecche. E lei pure non scherzava. A Welles chiesi una volta: “Ma perché hai fatto 'sto film?". “Perché sono ‘desperato’”. Difatti era dovuto scappare da Hollywood dopo La signora di Shanghai. Siccome il film fece perdere un sacco di tempo a tutti, Ponti non gli diede la prorata e Welles se la squagliò pochi giorni prima della fine della lavorazione. Non ne poteva più, continuava a scappare. Cominciò in quel periodo l’amore per la Mori, dopo i disastri con la Padovani durante l'Otello. Tra Welles e Totò i rapporti erano buoni. All’inizio Ponti diceva: “Che succederà con Totò?”. E io: “Totò se lo magna dopo due minuti”, e infatti nel film fu proprio così, e finì che Welles faceva la spalla a Totò, gli dava il pretesto per i suoi lazzi. Welles voleva recitare in italiano. Totò: “Meglio in inglese, lo capisco meglio!”. Povero Totò. Mi ricordo in macchina, io e lui, fermati a Trastevere da un mucchio di gente che gli diceva: “Totò, facce ride’!”. E lui: “Non ne posso più, sapeste come non ne posso più!”. Era un personaggio triste, Totò. A Napoli, poi, girare con lui era impossibile.
Welles mi trascinava spesso con sé, in giro. La notte era capace di mangiarsi una quarantina d’arance. Aveva un appartamento a Napoli e da una parte c’era la Mori, dall'altra c’era lui che scriveva, lavorava tutta la notte sui film che pensava di poter fare. Girò addirittura un pezzetto di Mister Arkadin, allora, in mezzo a noi, proprio a Napoli. Una notte prese il comando di una nave all’una, guidando lui personalmente, con Steno che ci aveva il mal di mare! Campava di arance. Una sera ne contai quarantasette, mi terrorizzava. Carico di debiti! Quando lasciò Napoli scappando, le sue valige vennero messe all’asta. Welles sosteneva, per tornare a Totò, che fargli fare quel personaggio che lui definiva - mi ricordo benissimo perché scrisse una specie di relazione per Steno su questo - “sinistro e ignobile”, a un comico come Totò era un errore clamoroso. Una relazione di sessanta pagine, in inglese, per Steno su questo film, che fu tradotta da una segretaria, e chissà se Steno l’ha conservata. E finiva dicendo: “Ma perché facciamo questo film?”

Lucio Fulci

«Cinema», 10 giugno 1954 - Filmografia ragionata di Luigi Pirandello


Ma che c’entro io con Pirandello? E poi Steno, che c’entra Steno?”, continua a ripetere Antonio de Curtis a Ponti e De Laurentiis che sono venuti fino in casa per convincerlo. “Principe, voi non dovete mettervi paura, voi siete grande, voi siete un genio che risolve tutto...”, lo blandisce De Laurentiis. “I geni e i grandi stanno nelle enciclopedie e sulle lapidi”, lo zittisce gelido l’attore. “Io preferisco leggerle..."


Cosa ne pensa il pubblico...


I commenti degli utenti, dal sito www.davinotti.com

  • Di certo è uno dei titoli meno divertenti interpretati da Totò, ma proprio la serietà di fondo -raramente attribuita dalle sceneggiature al bravo e versatile attore- ispirata dallo scritto di Pirandello e co-sceneggiata da Fulci e Steno, lo rendono un gradino superiore alla pletora di commedie recitate dal Principe. Le brave spalle di contorno (l'immancabile Castellani, un irriconoscibile Carlo Delle Piane e la graziosa Franca Faldini) vengono affiancate da una presenza d'enorme carisma: Orson Welles. Ottimi i dialoghi, come la regia di Steno.

  • Alla fine l'alchimia fra Totò, Orson Welles e il testo di Pirandello funziona proprio, e il film scorre piacevolmente, in maniera intrigante e offrendo scorci suggestivi della bella location. Insomma, una commedia ben fatta e ben recitata, soprattutto dall'attore napoletano, misurato al punto giusto e capace di dare la graffiata comica quando serve. Il vero problema è la riduzione dell'opera teatrale, ridotta a farsa coniugale e mondata del cinismo originale, fino a un finale accomodante e "democristiano" che mal si adatta all'autore siciliano.

  • Per l’entrata in scena di Welles e i suoi duetti con Totò – un incontro del secolo - bisogna attendere metà film, ma anche prima non ci sia annoia perché il Principe tiene banco con le sue mimiche e battute proverbiali. Il testo di Pirandello si riduce a canovaccio per una sorta di farsa casalinga, il cui valore cinematografico è comunque indubbio per la scioltezza del racconto, l’amena location (la casa in riva al mare), i due giganteschi protagonisti e le felici caratterizzazioni di contorno. Fulci cosceneggia; Sergio Leone è segretario di edizione.• MOMENTO O FRASE MEMORABILI: Paolino in ritardo a scuola e il preside ; il pranzo; la torta.

  • Molto bistrattato alla sua uscita non è certamente il miglior film del principe della risata ma nemmeno il peggiore. La storia, ripresa da Pirandello, scorre via veloce senza intoppi e le interpretazioni sono dignitose (anche se Orson Welles era ormai in declino). Peccato che rispetto all'opera dello scrittore agrigentino sia tutto più edulcorato e meno corrosivo a causa di Steno, che annacqua completamente la ferocia antiborghese del testo d'origine.

  • Apologo in chiave farsesca dell'omonima commedia di Pirandello, che conserva la solidità del testo di partenza nonostante la presenza di Totò le conferisca un taglio più disimpegnato. È piacevole e senza cadute di stile e si avvantaggia della splendida località marina di Cetara dove è stato girato. È ben diretto, ma particolare, con Totò che si trova a recitare un soggetto alquanto audace, che tratta un tema sicuramente scabroso per la società di allora.

  • Uno dei film meno conosciuti di Totò. Tratta da un lavoro di Pirandello, sceneggiata da Brancati, questa acre opera di Steno ben si amalgama in un’operazione meticcia, in un prodotto ibrido ma appassionato, ricco di un fertile conflitto tra materiali eterogenei. Steno, re della farsa, incontra il colto Pirandello, il “guitto” Totò recita alla pari con il mostro sacro Orson Welles; Totò si dimostra un attore di grande talento drammatico e sa far coesistere armoniosamente nello stesso personaggio cinismo e lazzi, giochi linguistici e un tocco di macabro.

Tutte le immagini e i testi presenti qui di seguito ci sono stati gentilmente concessi a titolo gratuito dal sito www.davinotti.com e sono presenti a questo indirizzo

L'UOMO, LA BESTIA, TOTO' E PIRANDELLO

La bizzarra e travagliata sorte del film L’uomo, la bestia e la virtù (1953) di Steno con Totò, Welles e Viviane Romance. Un’opera strana e maledetta, un ibrido bastonato dalla critica, nascosto al pubblico, e dimenticato persino dal destino.

📽️ Una pellicola in fuga: il film più invisibile di Totò

Immagina di girare un film con Totò e Orson Welles, da un testo di Luigi Pirandello, con una produzione ambiziosa e una regia affidata a Steno... e poi farlo sparire. No, non è un gioco da cinefili sadici: è la vera storia de L’uomo, la bestia e la virtù, probabilmente il film meno visto dell’intera carriera di Totò, il che, considerando la sua sterminata filmografia, è già un record notevole.

Pochi giorni dopo la sua uscita nel 1953, la pellicola viene ritirata dalle sale su pressante richiesta degli eredi di Pirandello, i quali, al grido di “in nome del nonno!”, si dichiarano scandalizzati dalla libertà presa con il testo originale. Il film sparisce così nel nulla, sotterrato da uno scandalo intellettuale e da un silenzio assordante lungo quarant’anni.
Solo nel Natale del 1993, come un regalo dimenticato dietro al presepe, la RAI lo riesuma e lo manda in onda, facendo commuovere filologi, archivisti e anziani totòfili dal cuore infranto.

🎨 Dal colore al grigio: il destino beffardo del Gevacolor

Il film fu girato nel rarissimo sistema Gevacolor, una tecnologia belga che prometteva miracoli visivi... almeno sulla carta. Peccato che il negativo originale, come una bottiglia di liquore dimenticata al sole, fosse irrimediabilmente deteriorato. Risultato: oggi il film circola solo in bianco e nero, con un alone grigio che sembra un effetto voluto da Lars von Trier.
Insomma, da Gevacolor a Gevafaded.

🧠 Pirandello strizzato: dalla tragedia satirica alla farsa leggera

L’opera teatrale originale era, a detta dello stesso Pirandello, una delle più feroci satire mai scritte contro l’umanità, l’ipocrisia e la “virtù” borghese. Steno, però, pare non avere ricevuto il memo. Il film annacqua il veleno, diluisce il grottesco nel doppio senso, trasforma la tragedia in pochade e la critica sociale in spunto da barzelletta.

Il risultato è un Pirandello trattato come se fosse un soggetto per un varietà con Wanda Osiris: elegante, sì, ma senza artigli. Il cinismo tagliente del testo originario viene sacrificato in nome del sorriso accomodante. E la virtù apparente che nel testo teatrale trionfa per pura convenienza, nel film... diventa vera per amore. Carlo Ponti impose un lieto fine da fotoromanzo, dove il marito torna ad amare la moglie come se avesse appena visto Via col vento.

👨‍🏫 Totò con la museruola: un principe troppo obbediente

Nel ruolo del professor Paolino, Totò non esplode, non improvvisa, non inventa. Segue il copione come se stesse sostenendo un esame alla Bocconi. Il risultato è un’interpretazione formalmente impeccabile ma emotivamente fredda. Sobria, misurata, quasi disciplinata.
Colpa di chi? Di Welles? Del copione? Della pressione pirandelliana? Forse Totò si sentì inchiodato dal peso dell'autore sacro e dalla presenza ingombrante del genio americano. O forse capì che lì dentro, tra afrodisiaci e battute suonanti, c’era poco da salvare e tanto da portare a casa con dignità.

Il capitano e la moglie: due cartoline sbiadite

Il Capitano Perella di Orson Welles è monumentale, statico, doppiato male e costruito con la profondità di una figura da presepe. Non minaccia, non s’indigna, non ama: esiste.
La Mariannina di Viviane Romance è una donna generica, lagnosa, stereotipata, che nella pièce originale era una tragica burattina, mentre qui diventa una signora da réclame per l’acqua di colonia.
Entrambi i personaggi sembrano fotocopie sbiadite di quelli pirandelliani, privi di carnalità, rabbia, isteria, orrore. E questo, per un testo che si intitola L’uomo, la bestia e la virtù, è un bel problema: non si sa chi sia l’uomo, chi la bestia e chi la virtù, perché tutti e tre sembrano… comparse.

😐 Un film che fa il solletico dove Pirandello mordeva

Il passaggio più amaro sta proprio qui: la sostituzione della fustigazione con la carezza, del sarcasmo corrosivo con la battuta comoda, dell’umorismo tragico con la commedia da dopopranzo.
Il testo teatrale – una condanna inesorabile al perbenismo borghese – diventa, al cinema, un buffetino bonario alla moralità. Il piano del professore riesce, ma non per calcolo lucido: riesce perché il marito è romantico. Insomma, da Amleto si passa a Love Boat.

📚 Pirandello scotta: Totò bruciato una volta, ci pensa due volte

Dopo questa esperienza, Totò non tornò più sull’autore agrigentino, se non in forma minore e molto più circoscritta, come nell’episodio La patente del film Questa è la vita (1954). E anche lì, seppur brillante, si capiva che la lezione era stata imparata: mai più sfidare il dio Pirandello con una pellicola che non abbia lo scudo del dramma nudo e crudo.
La combinazione Totò–Pirandello, potenzialmente geniale, fu quindi archiviata in un cassetto diplomatico: troppa tensione tra le parti, troppe beghe con gli eredi, troppi rischi per un pubblico che, in fondo, voleva solo ridere.

🎭 Conclusione: il capolavoro abortito, l’esperimento fallito (ma necessario)

L’uomo, la bestia e la virtù è un film che non ce l’ha fatta, ma che per molti versi merita di essere ricordato. È il simbolo di un’epoca in cui il cinema italiano tentava di salire sul podio della cultura alta, inciampando nelle sue stesse ambizioni. È il racconto di un Totò che si fece piccolo di fronte a un gigante e non seppe – o non volle – combatterlo col suo solito genio anarcoide.

Il risultato è una strana creatura cinematografica, piena di fantasmi: del testo tradito, dell’autore scandalizzato, dell’attore trattenuto, del pubblico confuso. Eppure, proprio in questa sua incompiutezza risiede il fascino del film. È una reliquia stonata, un documento di una possibilità non realizzata.

E se oggi ci fa ancora discutere – e sorridere con amarezza – è perché, sotto la maschera sbagliata, c’era un’anima giusta che non è riuscita a uscire.


La censura

La censura cinematografica mise i bastoni al film il film L’uomo, la bestia e la virtù; racconti paralleli e sfumature storiche che dipingono la cornice cupamente grottesca in cui si consumò questa piccola tragedia dell’arte.

🛑 La censura italiana: quando anche le torte afrodisiache facevano arrossire lo Stato

Nel 1953, la censura cinematografica italiana era più severa di una zia cattolica col binocolo puntato sul marciapiede. Sorvegliava ogni bacio prolungato, ogni battuta allusiva, ogni sottinteso più audace di un “E tu che fai stasera?”. In questo contesto, portare al cinema L’uomo, la bestia e la virtù di Luigi Pirandello significava giocare col fuoco.

Il testo originale, d'altronde, era una bomba ad orologeria: parlava apertamente di adulterio, desiderio, menzogna coniugale e della “virtù” come maschera sociale da indossare per ben figurare. E come se non bastasse, nel film c’era una torta drogata di afrodisiaco per indurre un marito a compiere il “dovere coniugale”.

Il risultato? I censori iniziarono a sudare freddo prima ancora della proiezione.

📜 Gli interventi del censore: tra “virtù”, veleni e veline

Il primo scoglio fu il titolo stesso. «L’uomo, la bestia e la virtù»: troppo evocativo, troppo moralmente ambiguo. Pare che un funzionario del Ministero abbia detto:

“Ma insomma, in questo film chi è la bestia? Non si può offendere il corpo militare con tali insinuazioni!”

Poi arrivò la sceneggiatura. E lì partì il festival del bluetto:

  • Scena della torta afrodisiaca: segnalata con il timbro rosso “ALLUSIVA”. Si temeva potesse “suggerire illeciti coniugali di tipo farmacologico”.
  • Dialoghi a doppio senso: come il celebre «Decoltizzati!» di Totò. Annotazione del censore: “Incomprensibile ma potenzialmente licenzioso”.
  • La caratterizzazione dei personaggi: il professore è un seduttore, il capitano è un beone, la moglie è una “sventurata che ha amato”. Dove sarebbe l’esempio morale da dare alla gioventù?
  • Il piano del protagonista: indurre l’amplesso per coprire un tradimento = "apologia di adulterio occulto”.

Alla fine, pur con qualche taglio minore e molta perplessità, il film venne approvato con riserva, confidando che il tono farsesco avrebbe ammorbidito gli intenti. Ma appena gli eredi Pirandello protestarono, la censura tirò un sospiro di sollievo: il film fu ritirato, e loro poterono tornare a guardare Don Camillo in pace.

📚 Gli eredi di Pirandello: i veri censori col cognome nobile

Ma la censura più spietata venne non dallo Stato, ma dagli eredi Pirandello. Lo scandalo nacque dal fatto che l’opera teatrale, concepita come feroce critica dell’ipocrisia, veniva trasformata in una commediola leggera con finale amoroso.

In particolare, gli eredi non tollerarono:

  1. La sostituzione della "virtù falsa" con l’amore sincero.
  2. La presenza di Totò, considerato da alcuni intellettuali come un "comico di varietà" e quindi inadatto a Pirandello.
  3. L’inserimento di battute improprie e un tono farsesco che “offendeva il messaggio morale” del testo.

Le proteste arrivarono ufficialmente alle autorità e — vuoi per deferenza verso la famiglia Pirandello, vuoi per opportunismo ministeriale — il film venne ritirato immediatamente dalle sale, come se si fosse trattato di pornografia ideologica.

📺 Una resurrezione tardiva e senza colore

Solo nel 1993, quando i toni si erano raffreddati e gli eredi probabilmente si erano rassegnati alla potenza del tubo catodico, il film fu trasmesso in televisione, a Natale, da RAI 3.
Non più una minaccia per la moralità nazionale, ma una curiosità da cinefili, da guardare con spirito d’archivio e tazza di cioccolata.

🧩 Conclusione: la censura come dramma dentro il dramma

La storia della censura su L’uomo, la bestia e la virtù è più pirandelliana del film stesso. In questa vicenda, tutti indossano una maschera:

  • il film è una commedia travestita da tragedia,
  • la censura è una difesa morale travestita da tutela pubblica,
  • Totò è un artista travestito da marionetta,
  • Pirandello è un autore sacro travestito da eterno frainteso.

E alla fine, come in ogni storia pirandelliana che si rispetti, nessuno ha davvero ragione. Ma tutti hanno paura della verità.


L'uomo, la bestia la virtù (1953) - Biografie e articoli correlati

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Riferimenti e bibliografie:

  • "Totalmente Totò, vita e opere di un comico assoluto" (Alberto Anile), Cineteca di Bologna, 2017
  • "L'avventurosa storia del cinema italiano", Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna, 2011
  • "Totò" (Orio Caldiron) - Gremese , 1983
  • La censura mette i bastoni fra le ruote
  • "Totò proibito" (Alberto Anile) - Ed. Lundau, 2005
  • "Roma-Hollywood-Roma" (Franca Faldini) - Baldini & Castoldi, 1997
  • Consalvo Lepri in "Novelle Film", Anno VII, n.282, 16 maggio 1953
  • Uno, nessuno, centoFulci, “Segnocinema”, (Marcello Garofalo), n. 64, novembre-dicembre 1993
  • Umberto Cantone
Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
  • Arturo Lanocita, «Corriere della Sera», 20 gennaio 1953
  • "Tra l'uomo e la bestia in pericolo la virtù", Italo Dragosei, «Festival», n. 9, 28 febbraio 1953
  • «La Settimana Incom Illustrata», anno VI, n.13, 28 marzo 1953
  • Giulio Cesare Castello, «Cinema», 30 aprile 1953
  • «Momento Sera», 9 maggio 1953
  • G. L. R. (Gian Luigi Rondi), «Il Tempo», 10 maggio 1953
  • l.c. «L’Unità», 10 maggio 1953
  • E.C. (Ermanno Contini), «Il Messaggero», Roma, 10 maggio 1953
  • «Paese Sera», 11 maggio 1953
  • «Corriere d'Informazione», 15 maggio 1953
  • Consalvo Lepri, «Novelle Film», Anno VII, n.282, 16 maggio 1953
  • Tommaso Chiaretti, 1953
  • «Corriere della Sera», 14 maggio 1953
  • «Cinema», 10 giugno 1954 - Filmografia ragionata di Luigi Pirandello
  • «Il lavoro illustrato» n. 20 Roma, 17-24 maggio 1954
  • Francesco Callari, Pirandello ed il cinema, (Marsilio 1991)
  • Gianni Rondolino, «La Stampa», 15 aprile 1992
  • «Corriere della Sera», 23 dicembre 1993
  • Umberto Cantone, «La Repubblica», 12 febbraio 2017