Pantalena Gennaro
(Napoli, 13 ottobre 1848 – Napoli, 23 maggio 1915) è stato un attore e impresario teatrale italiano.
Biografia
Pantalena fu un grande caratterista del teatro napoletano di fine Ottocento, grazie anche alla sua prorompente fisicità, fece parte delle compagnie dei più grandi attori-autori dell'epoca: Eduardo Scarpetta e Federico Stella. Verso la fine del XIX secolo mise su una propria compagnia, il suo repertorio svariò tra Salvatore Di Giacomo, Libero Bovio e Eduardo Minichini. Tra le sue grandi interpretazioni fu quella del marito in Assunta Spina di Di Giacomo, ruolo che fu poi interpretato al cinema da Eduardo de Filippo. Morirà nella sua Napoli all'età di 67 anni.
Il padre avrebbe preferito si dedicasse alla musica ma Gennaro preferì ben altra forma artistica e s'affacciò nel mondo del teatro in compagnie di grosso calibro, come quelle di Vincenzo Stella (fratello di Federico) e Nicola Alfieri. La sua recitazione forte e dai contorni marcati, lo portò nella compagnia del grande Federico Stella a recitare drammi di Eduardo Minichini. Attore eclettico e dalla figura imponente s'impose anche come caratterista nella compagnia di Eduardo Scarpetta al teatro San Carlino. Nel 1887, Gennaro Pantalena, fece compagnia a se, mettendo in scena al teatro Fenice: 'O bbuono marito fa 'a bbona mugliere, una riattazione de' I mariti di Torelli. Il successo fu clamoroso, in modo particolare per le critiche che ne ricevette, in modo particolare dagli aderenti al: Nuovo teatro dialettale d'arte, che videro in lui l'antagonista allo strapotere scarpettiano. Gennaro Pantalena, però, ritornò con Scarpetta in Miseria e nobiltà e 'A nanassa mietendo grandi successi. Nel 1905 ritentò di nuovo l'esperimento col teatro d'arte con testi di Bovio, Petriccione, Minichini e Salvatore Di Giacomo, per i quali interpretò Assunta Spina.
Galleria fotografica e stampa dell'epoca
Nello stesso giorno nel quale squillava da un capo all'altro della Penisola la diana di guerra — il 24 maggio 1915 — in una modesta casa verso il mare a Napoli moriva Gennaro Pantalena e con lui scompariva l’ultimo superstite e la più notevole espressione di quel comicato napoletano che, con Pantalena, Petito e Scarpetta, ha legato il suo nome alla storia ed alla gloria del teatro italiano. L'ora solenne che il paese viveva in quel momento distrasse l'attenzione del pubblico ed alla salma del grande attore non furono rese le dovute onoranze.
Gennaro Pantalena fu il più grande attore e direttore della scena vernacola napoletana e fu fra i maggiori attori del teatro nazionale. Modesto e quasi ignaro del suo valore morì col desiderio inappagato di una «croce di cavaliere». Il teatro napoletano è pieno di lui che suscitò sensazioni squisite di comicità ed ondate vigorose di drammaticità; di lui, in virtù del quale, si potè amare un «teatro napoletano» degno di questo nome, un teatro napoletano di pura arte regionale che si fregiava dei nomi di Salvatore di Giacomo, Libero Bovio, Ernesto Murolo, Ferdinando Russo, Aniello Castagliola, Achille Torelli, Diego Petriccione e di molti altri, un teatro napoletano, infine, che la malevolenza e l'ignavia, I'incomprensione, l'avidità di troppi speculatori hanno, poi, in parte distrutto, facendone sentire la nostalgia e forte lo sdegno.
È ancora vivo nel pubblico italiano il ricordo di quella compagnia che girò trionfalmente l'Italia condotta da Adelina Magnetti e da Gennaro Pantalena, di quella compagnia, cioè, che rivelò la possanza del dramma di Assunta Spina, che commosse con la vicenda tragica e senza sangue di Vincenzella di Bovio, che fece fremere le platee con Giovannino o la Morte di Matilde Serao ed Ernesto Murolo, che divertì sanamente con ’O quatto ’e maggio del Petriccione. I grandi critici ed i grandi giornali riconobbero finalmente l'esistenza di un teatro napoletano, come pura ed alta espressione di grande arte e collocarono Gennaro Pantalena accanto ai grandi attori di quel periodo, Zacconi, Novelli, Ferravilla e Zago.
E fu davvero grande attore il buon don Gennaro Pantalena. Sobrio e spontaneo nella comicità, rifuggente dalle piroette e dalle battute volgari, potente nella più efficace naturalezza, raggiunse nel drammatico forme altissime di commozione, come raramente accade in teatro; animatore e suscitatore di verità e di umanità nella recitazione, direttore insuperabile ed insuperato.
Chi ha ascoltato Gennaro Pantalena in Gente nosta di Bovio e Murolo, non dimenticherà mai la figura di quel padre dolorante innanzi al naufragio dei sogni di grandezza dei suoi figlioli; chi lo ha visto impersonare il ridicolo personaggio di don Carlo Mazzetti — complicata figura di azzeccagarbugli — in ’O quatto ’e maggio del Petriccione, non cancellerà mai il ricordo della sana risata, della risata ottenuta senza istrionismi e senza volgarità.
Gennaro Pantalena fu figura complessa di attore ed il vuoto da lui lasciato nella scena del teatro napoletano non e stato colmato. Mentre Edoardo Scarpetta, che fu senza dubbio uno fra i più grandi attori comici italiani, creò ed impersonò una maschera vissuta e morta con lui. Gennaro Pantalena fu l'interprete di un teatro vernacolo che raggiunse forme di arte elettissima e fu manifestazione di altissime nobiltà e probità artistiche.
Egli morì ancora vegeto a 67 anni. Recitava a Messina allorché venne colpito dal male e fu trasportato a Napoli che amava con devozione di figlio entusiasta. La sua carriera artistica è quanto mai interessante. Il padre lo aveva iniziato al mestiere del cuoco, ma il giovinetto che aveva già covato il suo sogno d'arte riuscì a recitare in piccole compagnie che agivano nei baracconi della vecchia Napoli popolare. Abbandonati pentole e fornelli partì in «avventura» con una compagnia di comici di scarto, avviatisi a Potenza per tenervi un corso di quindici rappresentazioni. Nel modesto complesso il giovine attore, fattosi audace, si cimentò nell’arduo ruolo di «Pulcinella», la maschera che in quell'epoca era resa celebre da An Ionio Pelilo, il successo fu fantastico e la compagniola rimase nel capoluogo della Basilicata pe un intero anno. Ritornato a Napoli, l'eco del successo in provincia gli aprì le porte del teatro Sebeto, il caratteristico locale che sorgeva nella piazzetta San Tomaso d‘Aquino, dove oggi sorge il Tempio Valdese. Fu in questo periodo che don Gennaro conobbe la vedova del noto attore italiano Torelli e la sposò. Questo matrimonio gli aprì le porte delle compagnie dei grandi spettacoli popolari, alla cui testa erano Federico Stella e Tommaso Zampa. Il Pantalena venne scritturato per sostenere la parte del «tiranno» personaggio notevole nei drammi popolari che avevano a sfondo il trionfo del bene sul male. Sette od otto anni dopo la Torelli moriva e Don Gennaro si riammogliava, sposando i’impresaria del teatro delle «Follie drammatiche» donna Rosa Abbuscato e riprendendo su queste scene a recitare in dialetto nel ruolo di «guappo», ruolo che contemporaneamente deteneva sulle storiche e gloriose scene del «San Carlino» Raffaele di Napoli. Fu allora che il Pantalena, dopo la morte di Petito, entrò a far parte della compagnia Scarpetta come «caratterista».
Saltuariamente con frequenti interruzioni, litigi e poi affettuosissime pacificazioni Scarpetta e Pantalena rimasero assieme per oltre un ventennio. Le tre lire iniziali di paga di vennero poi quaranta: cifra allora sbalorditiva.
La prima fuga di Pantalena dalla compagnia Scarpetta risale all'85. Formata una compagnia con Amalia De Crescenzo, la Giordano, il De Chiara, la Santelia e lo Scelzo, don Gennaro Pantalena passò poi alla «Fenice», dove fu data per la prima volta la riduzione di Di Giacomo de I mariti di Achille Torelli. Fu nel 1895 che Pantalena si imbarcò pel Sud America e precisamente per l'Argentina ed il Brasile. Era un'audacia, allora, l'esodo di una compagnia dialettale: pure le accoglienze al debutto a Buenos Ayres furono tali che superarono ogni attesa.
Al ritorno in patria Pantalena ritornò nelle tese braccia di Edoardo Scarpetta. E poi per un ennesimo litigio con don Felice, creò, con Nicola Maldacea, una compagnia che ebbe brevissima vita. E non più lunga vita la combinazione con Peppino Villani.
Al ritorno a Napoli Pantalena si mise d'accordo con l'impresario del teatro «Nuovo» Pasquale Molinari e fu creata la compagnia Pantalena-De Martino. La compagnia durò due anni. Don Gennaro, riuniti intorno a sé ancora validi e giovanissimi elementi come la Magnetti, sua figlia Elvira, l’Altieri, il Galloro, il Di Napoli, la Somma, Elvira Giordano, Bianchina De Crescenzo e la Francesca Bertini si dette alla valorizzazione ed alla diffusione del teatro napoletano. ‘O quatto 'e maggio del Petriccione, Casa Antica di Libero Bovio, Addio mia bella Napoli di Murolo, Monte vergine di Romano, Calzoleria Maietta di Castagliola e, infine, Assunta Spina del Di Giacomo furono altrettante tappe di un'ascesa alla quale il Pantalena dette tutto il fervore della sua intelligenza e del suo cuore.
L’irrequietezza del Pantalcna lo portò ancora alla direzione di un'altra compagnia con Maria Giordano e infine alla più recente formazione con la Magnetti e il Donadio che a Milano ebbe così vivo successo. Poi rifece ancora compagnia per proprio conto. Fu questa l'ultima tappa. A Messina fu colto da malore. Trasportato a Napoli le sue ultime parole furono per la figlia Elvira: «Te voglio bene assai, assai, assai...».
Cesare Afeltra, «Comoedia», 15 aprile 1930
Bibliografia
José Pantieri, Cinema e comicità in Italia, Roma, edizioni MICS, 1994.
Riferimenti e bibliografie:
- "Tempo di Maggio: Teatro popolare del '900 a Napoli" (Nino Masiello), Tullio Pironti Editore, Napoli, 1994
- Cesare Afeltra, «Comoedia», 15 aprile 1930