Nino Manfredi: «in casa mia sono un sultano»
Nino Manfredi si considera un uomo all’antica: gli piace avere l’autorità del capo famiglia, allevare i bambini nel culto del risparmio, sedere alla destra del padre al cenone di Natale. In questa intervista spiega, con grande sincerità, che non si vergogna di commuoversi e che ricorda con nostalgia la sua infanzia ciociara
Roma, gennaio
L'attore nascondeva la sua pena. Voleva apparire gaio: quella «prima» era la più importante della sua carriera. Ma il pensiero del padre gravemente ammalato non lo abbandonava. Recitò tormentato da quell’idea fìssa, ma nessuno se ne accorse. Il mattino dopo il padre gli disse: «Sono stato molto male, ma le lodi che ti fanno i giornali mi hanno ridato un po’ di vita. Cercherò di non morire adesso, perché so che hai tanto da fare e devi stare sereno. Non sarebbe il momento». Ma le risorse del comico non vennero in soccorso al figlio addolorato. Non riuscì a sorridere. Voltò la faccia e si asciugò gli occhi.
Così Nino Manfredi ha vissuto nei giorni scorsi il suo dramma segreto. Da un lato trepidava per la sorte del padre, dall’altro otteneva due successi : con l’interpretazione di Rugantino, il suo personaggio teatrale più riuscito, e con la sua prima regia cinematografica. Ma il successo non lo avrebbe eccitato anche se fosse stato perfettamente tranquillo. Le lodi gli fanno paura. Quando si accorge di aver progredito in un’esperienza fino alla perfezione e potrebbe coglierne i frutti, ne rifugge precipitosamente, per timore di diventare stantio. Era un eccellente attore drammatico e si trasformò in comico. Era un mattatore dialettale e ora tenta le vie dell’umorismo. Mai contento di sé, è un uomo imprevedibile. Il danaro gli interessa solo come testimonianza di una sudata e riuscita ascesa sociale. La pubblicità lo annoia, la mondanità io disgusta. Com’è fatto, allora? Lui si definisce un uomo all'antica.
Eccolo sdraiato in una poltrona del suo camerino, nel teatro romano dove presenta Rugantino, la commedia musicale di Garinei e Giovannini. Affonda nei cuscini, un po’ perché è stanco d’avere interpretato sei spettacoli in tre giorni, un po’ perché pigro di natura. «Se continuo cosi moro, muoio», dice, «e non è giusto, perché l’attore uno lo fa per vivere, non per morire.» Ficca nel viso dell’interlocutore quegli occhi scuri che brillano d'una intelligenza lucida, simpatica. «Ma c’è soddisfazione, sa? Perché il pubblico oggi si diverte ad uno spettacolo per il quale, pochi anni fa, avrebbe schiodato le sedie. Si magona, ma si diverte- Sa come finisce Rugantino? Rugantino, cioè io, infila la capoccia sotto la ghigliottina, c'è un attimo con un popò de gela core, poi la lama scende e zac! me la mozzica via. E uno spettacolo così, certi osano ancora chiamarlo rivista! Questo poi nun me va, ahò! Non è rivista: è opera buffa, commedia dell’arte. Per questo mi ci sono appassionato, perché fiutavo la novità, e io voglio fare sempre del nuovo, non ricopiare quello che ho fatto già.
«Per questo, dopo il successo di Canzonissima edizione 1960, non ho più voluto recitare alla televisione. Avevo il terrore di ripetermi. Questa paura l'ho sentita fin dall’inizio, quando studiavo all’Accademia con gente che si chiamava Buazzelli, Panelli, Sbragia, Squarzina, Bice Valori. Rossella Falck. Io avevo capito che il teatro era alla base di tutto, che si cominciava di lì. Allora me sò detto: ’a Manfré, prima de fa’ altro bisogna che tu te li metti 'sti coturni, che tu capisca cosa facevano li Greci. Non tutto filava liscio, qualche volta si saltava il pasto, ma il proverbio dice: sempre bene nun pò annà, sempre male nemmanco. A furia di fare il teatro, mi sono innamorato anche del cinema, che è suo figlio. Mi diverte tanto che non riesco più a pensare ai soldi. Sono l’attore italiano di cinema meno pagato. Io certi film li farei anche gratis, tanto mi rallegrano. Ma ’sta cosa, pe’ carità, non s’ha da risapere, non bisogna dirla a ’sta gente, che se no se n’approfitta.»
Manfredi si ferma. Raccoglie le idee. Nell’apparente svagatezza di quel che dice e di quello che fa, s’indovina la presenza di un filo conduttore. Quale? «Nel mio lavoro c’è un’ambizione costante. Quella di dimostrare, in questo tempo in cui si parla tanto d’incomunicabilità fra gli uomini, di alienazione, che invece si può comunicare benissimo. Io sono uno che si sforza di capire i propri simili. Un sentimentale. Un semplice. Per me l’arte è fatta di semplicità, di modestia, di umiltà. Per questo, tutti quegli espedienti pubblicitari che sono tanta parte della vita d’un attore d’oggi mi fanno paura. Dover mettermi in mostra mi angoscia.
Quando un giornalista mi chiede un appuntamento, provo un moto di rabbia. In passato ho affrontato una quantità di esperienze - doppiavo Gérard Philipe, facevo piccole parti in rubriche radiofoniche. studiavo dei caratteri - per impadronirmi di un solido mestiere e poter avere, qualche volta, l’ultima parola, essere in grado di dire di no alle offerte che non mi piacevano. Infatti, dopo Canzonissima del ’60 vennero da me alcuni produttori. Mi offrivano cinquanta milioni subito, perché interpretassi un filmetto intitolato "Fosse che fusse la volta bbona", la frase che caratterizzava il mio personaggio. Pensavo che il film sarebbe stato cretino e rifiutai. Mi guardarono attoniti, come si guarda un pazzo.
«Così, quando interpretavo una rivista di successo, mi rifiutavo di farne una con la stessa formula l’anno seguente. Dicevano: ma è un altro successo sicuro! Ebbene, fin li ci arrivo anch'io, e chi se ne infischia? Perché far sempre la brutta copia di quello che si è fatto una volta bene? Recentemente, quando un produttore mi ha affidato la regia di un film, io gli ho detto: “Forse tu hai scelto me perché ti piaceva che nel tuo film ci fosse il Manfredi che fa ridere, che dice le battute in quel certo modo. Bene: ti posso annunciare che nel film il mio personaggio non dirà una parola”. Io sono convinto che il cinema deve parlare attraverso le immagini. Perciò ho raccontato una storia che dura mezz’ora, i cui protagonisti. una vedova e un soldato, viaggiano in treno nello stesso scompartimento, si guardano in faccia e non parlano mai. Tutto quello che accade, il loro improvviso sentirsi attratti l’uno dall’altra, lo si sente solo attraverso il mutare delle loro espressioni.
«Ma pensi al legittimo disappunto dell’attrice, che era stata da me scritturata, aspettava un copione che non arrivava mai e si accorgeva, man mano che procedevano le riprese, di non dover mai dire una parola. “Ma che faccio? ”, si lamentava. “Non parlo mai?” E io, votandomi ai santi: “Pazienta. Parlerai, parlerai...”. Quelli della produzione erano molto spaventati. “Guardate”, dico io conciliante, “che se il film è proprio brutto ci mettiamo una voce fuori campo, uno speaker che lo commenta.” Basta, arriva il giorno che proiettano il film in una saletta privata: c’erano anche dei tedeschi e dei giapponesi. Finita la proiezione, corrono da me, dicono che hanno capito tutto, come se il film fosse stato nella loro lingua. “Allora ce lo mettemo o no, 'sto speaker?”, ho domandato. “Neanche per sogno”, mi hanno risposto.»
In un angolo del camerino di Manfredi c'è un piccolo presepe. Le statuine brillano nitide sulla macchia scura del muschio. «A me queste cose piacciono». sorride l’attore. «Io sono all'antica. Mio nonno era un contadino, mio padre anche, e per assicurarci l’avvenire si è messo a studiare che era già un uomo fatto, ed è diventato sottufficiale di polizia. Io sono ancora immerso nel clima dei paesi dove sono cresciuto. Cava dei Volsci e Ceccano, in Ciociaria. Rivedo quella gente che indossa ancora i costumi del passato, le cioce, il corpetto, la mantellina, che non usa il colletto. Rivedo me da ragazzo. Mia madre mi confezionava tutti gli indumenti e per fare le mutande comprava sempre un pezzo di stoffa molto abbondante. Così finiva per allungare l’indumento e fame una sorta di costume a un pezzo, di parure, che faceva schiattare dalle risate i miei compagni.
«Questo è il mio vecchio mondo di paese: con le mie amicizie, con le mie nostalgie. Non mi sono mai modernizzato. Dovrei campare duecento anni per arrivare all’arte astratta. L’unica ribellione fu la decisione di diventare attore. Una vergogna, con la mia laurea in legge e un fratello medico. Per mio padre, allora, un figlio attore equivaleva ad una figlia disonorata. Ma per me, recitare era una professione, non un modo di vita. Se ne avessi avuto bisogno, mi sarei disgustato del modo di vivere dell'attore la volta che andai in un locale notturno, l'ultimo giorno dell'anno. Fu tristissimo. I coriandoli volavano, io avevo il cappelluccio in testa, suonavo nella trombetta, e mi pareva di offendere la festività. Quanto sono adorabili, invece, i vecchi cenoni di famiglia, in cui le zie ti dicono delle cose assurde e tu acconsenti, e mio padre fissa i posti a tavola, secondo le antiche consuetudini, e io sono fiero di stargli alla destra. A Natale mi ha detto: “Non credevo di farcela fino a questo giorno. Adesso, tutto è regalato”. Io mi sono commosso. La gente forse trova ridicolo che ci si commuova per queste cose. Se ne vergogna. Per questo è convinta di non poter comunicare.» Un uomo schietto, semplice, questo Manfredi. Per questo - credo - fa ridere e piangere così bene la gente, secondo gli talenta, perché da sentimentale all’antica conosce le radici profonde della gaiezza e della malinconia. «Forse capisco le persone», osserva, «nei loro tic e nei loro difetti, perché a mia volta sono tutto un difetto. Mi riscatta l’essere un lavoratore accanito, quando vinco la pigrizia. Ma per il resto sono mutevole, disordinato, distratto. Non ricordo i compleanni dei miei tre bambini, non mando mai un fiore a mia moglie nell'anniversario del matrimonio. Ma glieli mando in altre circostanze, quando all’improvviso mi assale il desiderio di farlo. Perché legare gli affetti a una data?»
Trovò moglie guardando una fotografia
La storia del modo in cui arrivò al matrimonio è uno sketch. «Avevo tre fidanzate, e non riuscivo più a districarmi. Lo confidai alla moglie di un caro amico, l’attore Bonagura. “Qui va a finire male. Me ne capitano di tutti i colori. Già una volta ho dovuto zompare giù da una finestra." “Hai trenta tré anni’’, rispose Rosy Bonagura, “sposati. Conosco una ragazza saggia, meravigliosa, che fa al caso tuo. Un’indossatrice.’’- “Ma te pare che sposo un'indossatrice? Un vestito che cammina! E si chiama pure Erminia! Siciliana? Sta’ a vedere che parla in dialetto, bisogna mettere le didascalie. Sa almeno cucinare?” “È inutile che tu ne parli con la spocchia del sultano che si degna di fare la sua scelta. Bada che è una ragazza difficiletta assai, ha molti corteggiatori, non so se ti vorrebbe”.
«Mi mostrò la foto. Era una ragazza stupenda. Ragione di più per non sposarla. Più so' belle le donne e più so' sceme. Ma quando la conobbi scoprii che era., una tale meraviglia! la donna come credevo non ne esistessero più. Sta a casa per dei mesi, con i bambini, senza neppur provare il desiderio di uscire. ed intanto io, che sono casalingo oltre ogni immaginazione, leggo, studio, colleziono quadri. Non do-manda mai quello che faccio, ma lo intuisce sempre. E poi, che è il più bello, te fa sentì che sei il capofamiglia, che in casa comandi tu. Ha per l’uomo un rispetto tutto siciliano, un ricordo del vecchio mondo feudale. Eh sì, lo so, io sono all’antica. Lei previene ogni mio desiderio. Ho già dichiarato che sono pigro. Quando mi trovo nel bagno, sciolgo nell’acqua decine di polverine per evitare la fatica di alzare un braccio, di sciacquarmi. Lei lo sa, corre in mio aiuto. Secondo l’elogio di mia madre, il più grande che si possa fare, a mia opinione, Erminia è una donna che sa stare in cucina e in salotto.
«Cerchi di immedesimarsi nella gioia che dà un mondo familiare così perfettamente borghese. Ma i miei bambini non devono sentirsi privilegiati perché noi viviamo in questo modo. “Se stiamo bene", spieghiamo loro, “è perché papà sgobba. Gli agi si conquistano con il lavoro, tirando la carretta. E bisogna aiutare i meno fortunati.’’ Perciò siamo felici quando tornano a casa e raccontano di aver regalato il cappottino a un compagno povero. L'altro giorno, un’altezzosa compagna ha detto a mia figlia : “Tuo padre ha meno soldi del mio!”. “Ma è pur sempre il mio buon papà", ha risposto Roberta.
«In questo clima ideale, posso maturare con calma i progetti. Il mio sogno è quello di interpretare Oblomov, il protagonista del famoso romanzo russo di Gonciarov. Un personaggio attuale, perché Oblomov è per antonomasia il giovane indifferente, pigro, apatico, privo di fiducia negli uomini, che si nega all’azione. Io avrei una trovata per ri trarlo. Lo farei stare sempre a letto. Reciterei l’intero dramma, o film, tratto dal libro, sotto le lenzuola. Oblomov, come lo vedo io, è un giovane avvocato brillante, cui è aperta una carriera straordinaria. che vi si sottrae perché manca di fede neH’uomo. È così scettico che rinunzia anche all'amore, perché nella donna che gli vuole bene riesce a vedere soltanto dei secondi fini, della doppiezza. Forte del suo disgusto per l'umanità, si adagia nel comodo letto. Ma allora i padroni di casa lo sfrattano, per fare posto a Una vedova con tre figli. Finalmente dovrà alzarsi dal letto Lui, per non farlo, sposa la vedova e torna alla sua abissale indifferenza.»
Mentre parla, l'occhio gli cade su una recensione del suo film.
«Con finezza... Il critico ha scritto che ho lavorato con finezza. Ecco il mio premio. Adesso non m’interessa più che mi paghino, ma non lo dite a sta gente.» Sul suo capo c’è un bel ritratto che lo ritrae come Rugantino. Fra poco egli salirà sul palcoscenico a farsi mozzare il capo da una ghigliottina che, ha assicurato ai figli, è di cartone, non fa male. Nella vita, è un uomo arguto, aperto, intelligente. Nell'arte, è un Rugantino malizioso, multiforme, sentimentale, beffardo, «greve». per il quale critici autorevoli hanno scomodato il ricordo della poesia del Belli. E lui, Manfredi Saturnino detto Nino, «un giovane attore de 41 anni che quando na cosa je va bene ancora se vergogna», è contento di essere arrivato a questo, rifiutando sempre le offerte idiote, trincerandosi dietro l'onestà d’un viso che per anni gli «intenditori» hanno definito inespressivo. E pensa a quella sera della «prima», quando costruì la sua bella interpretazione avendo il cuore in subbuglio per la sorte del padre. Un momento di tragedia nella vita d’un uomo sereno che nei suoi personaggi si diverte a narrare la gioia di vivere e l'assorta malinconia della sua antica gente ciociara, in ritardo di almeno duecento anni sull'arte astratta.
Guido Gerosa, «Epoca», anno XIV, n.41, 6 gennaio 1963
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Guido Gerosa, «Epoca», anno XIV, n.41, 6 gennaio 1963 |