Totò e la divisa da soldato

Antonio Clemente


Totò va alla guerra (più o meno)

L’epopea militare di Totò, al secolo Antonio de Curtis (nome da civile, ma con vocazione alla fuga strategica), si colloca in quella zona nebbiosa della storia che solo una biografia italiana può permettersi: dove il mito, la testimonianza orale e un pizzico di leggenda urbana si mescolano come caffè e sambuca.

I primi passi... verso la fuga

Secondo le biografie ufficiali – che, come tutte le biografie italiane di personaggi famosi, sono un mix tra i racconti della zia Concetta e i registri militari scomparsi – Totò, giovanotto napoletano quasi sedicenne e col cuore più da palcoscenico che da trincea, presenta domanda come volontario tra il 1914 e il 1915. Che coraggio, direte voi. O che furbizia, diciamo noi. Perché se da un lato il nostro si proponeva baldanzoso al Distretto Militare di Napoli, dall’altro continuava ad apparire sui palcoscenici napoletani e romani come se la guerra fosse un dettaglio trascurabile.

E qui nasce il primo “caso Totò”: ma era militare o no? Nel 1915 e nel 1916 si esibiva come se nulla fosse, quindi a meno che non avesse il dono dell’ubiquità (o un gemello nascosto), era probabilmente ancora un civile. Si ha qualche traccia della sua presenza in scena anche nel 1917, il che rafforza il sospetto che l’arruolamento vero e proprio sia arrivato tardi, tipo invito a cena dopo che tutti hanno già mangiato.

1918: L’anno della leva tardiva (e un po’ svogliata)

Le testimonianze si dividono: Totò stesso dichiarò di essersi arruolato volontario, come a dire “ci ho provato, eh!”, Franca Faldini lo confermò, mentre la figlia Liliana giurava che fu richiamato. Come spesso accade in Italia, nessuno ha torto, ma tutti raccontano la versione che fa comodo.

La prova regina arriva dagli archivi dei giornali dell’epoca: nel 1918 spariscono le recensioni teatrali di Totò. Sparizione sospetta? No, indizio di arruolamento.

Pisa, fucili e finti svenimenti

Totò finisce al 22° Reggimento Fanteria “Cremona”, a Pisa. Uno potrebbe pensare: “che bello, la torre, la ribollita, il battaglione…” Ma Antonio, abituato ai siparietti e agli applausi, comincia subito a sentire un fastidio esistenziale: la vita militare gli va stretta come una divisa lavata a 90°.

Soffre l’autorità, mal tollera i superiori, detesta l’ordine: insomma, perfetto per il cabaret, meno per una guerra mondiale. Il suo talento non era certo nel mirare, ma nel mimare. E lo dimostrerà ben presto.

Piemonte, marocchini e crisi (strategiche)

Viene spedito in Piemonte con il 182° Battaglione di Milizia Territoriale, con l’inquietante prospettiva di dover condividere un viaggio in treno con un reparto di soldati marocchini, famosi all’epoca più per le leggende sui loro “costumi eccentrici” che per l’arte bellica.

È alla stazione di Alessandria che il nostro attore dà una delle sue migliori performance: simula un attacco epilettico. Forse ispirato da una gag di varietà, forse solo dal panico, Totò riesce a evitare la partenza per il fronte. Una mossa da Oscar della sopravvivenza.

Evita anche il tribunale militare – cosa tutt’altro che scontata – e viene ricoverato per osservazione. La diagnosi? Probabilmente: “attore in guerra, grave incompatibilità”.

Livorno, i caporali e il motto che diventerà leggenda

Dall’ospedale passa all’88° Reggimento Fanteria “Friuli”, a Livorno. Ed è qui che l’esperienza di Totò tocca il suo apice… nella disperazione. Sotto la pressione di un caporale che, diciamolo, doveva essere il prototipo del burocrate in uniforme (ottuso, autoritario, probabilmente con l’alito da caserma), Totò crea il celebre motto che entrerà nella storia:

Siamo uomini o caporali?

Un grido di rivolta, un’esclamazione esistenziale, un modo per dire: “ci sono i carnefici in divisa e poi ci siamo noi, che subiamo”. Questo motto diventerà non solo una battuta celebre, ma anche il titolo di uno dei suoi film più profondi e sarcastici, dove il grottesco militare si trasforma in metafora sociale.

Congedo e ritorno alla gloria

La guerra finisce, anche per lui, senza che abbia mai visto il fronte o sparato un colpo. Totò si stabilisce a Roma per un po’, congedato con discrezione. Nessuna medaglia, nessun encomio, ma una consapevolezza nuova: la stupidità in divisa è più pericolosa di una bomba a mano.

E da lì, nasce non solo un comico, ma una coscienza critica travestita da pagliaccio. Il soldato Totò non sarà ricordato per le sue imprese militari, ma per aver trasformato un’esperienza tragica in una fonte di satira, ironia e riflessione.

Morale della favola (e della farsa)

Totò in guerra è come un pinguino nel Sahara: fuori posto, spaesato, ma irresistibilmente geniale nel trovare il modo per sopravvivere. In un’epoca in cui gli uomini morivano per patria, lui si salvò grazie al talento. E questo, che piaccia o no, è anch’esso un tipo di eroismo: quello della furbizia, della ribellione, della satira contro il potere.

Perché, alla fine, siamo tutti un po’ uomini. Ma certi caporali, purtroppo, non passano mai di moda.

Come sempre accade, rimase comunque in contatto con alcuni coetanei commilitoni, tra i quali Michele Izzo, che qualche anno dopo raccontò:


Alfredo Buonandi era sergente con mansioni di furiere e prestava servizio presso un ospedale militare di Roma (probabilmente il Celio). La sera andava a teatro con colleghi e amici ed ebbe modo di conoscere un capocomico che operava nei principali teatri di varietà di Roma ed aveva tra i dipendenti il giovane Antonio Clemente, sporadicamente attore ma in quel periodo strappabiglietti e addetto a riservare i posti a questi sottufficiali, spesso presenti a teatro. Una sera Antonio chiese al Buonandi una divisa da soldato in prestito, per eseguire una "macchietta", con sketch comici e canto. Raccontò inoltre che il suo ispiratore era Gustavo De Marco, in quel periodo famosissimo eccentrico di varietà molto in voga. Fu grazie al prestito di quella divisa, alla generosità del Buonandi ed alla sua innata bravura che Antonio Clemente ebbe un successo molto importante

Riferimenti e bibliografie: