Approfondimenti e rassegna stampa - Censura e morale

Censura



Totò e la censura: da quella di regime a quella democratico-cristiana

Totò poliziotto non piace a poliziotti

Totò poliziotto non piace a poliziotti La storia del poliziotto Totò e della “sbandata” Carolina, benché risolta in tono bonario e distensivo, ha determinato un inconcepibile irrigidimento…
Stelio Martini, "Cinema Nuovo", anno III, 15 aprile 1954
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Monicelli: la sera cantavamo con Totò

Monicelli: la sera cantavamo con Totò Steno ed io diventammo registi per caso quando inventammo «Totò cerca casa». Per «Risate di gioia» la Magnani non lo voleva: «Abbassa il tono del film»…
Liliana Madeo, «La Stampa», 15 luglio 1992
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La tardiva RIscoperta di Totò

La tardiva RIscoperta di Totò Quando sarò morto e non più scomodo per nessuno, daranno la stura ai paroloni e, rispolverando la mia vis comica, affermeranno che se non me ne fossi andato mi…
Luciano Mattino, «Settimana TV», anno XX, marzo-aprile 1973
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Totò trenta anni dopo: la rassegna stampa

Totò trenta anni dopo: la rassegna stampa Il settimanale specializzato «Film TV» nel numero 17 pubblicato nell'aprile 1997, in occasione del 30° anniversario della morte di Totò ripercorre…
«Film TV», anno V, n.17, 20-26 aprile 1997-Giuseppina Manin, Pasquale Elia, «Corriere della Sera», aprile 1997-R. Ch., Giancarlo Governi, Gabriella Gallozzi, «L'Unità», aprile 1997
1922


ME NE FREGO! Il grande Totò e la censura del regime - History Channel Italia


02 A prescindere


Secondo il giudice fiorentino Totò è un antidoto per il pudore

Firenze, aprile

Per il noto film del comicissimo Totò, dal titolo «Totò sceicco», erano stati messi in giro dei cartelloni assai curiosi, fra cui uno in cui si vedeva una donnina poco vestita — un po' meno di niente — gravemente e concupiscentemente guardata da Totò. Questo cartellone passò sotto gli occhi di un severo cittadino di Brescia, il signor Mario Puriglcati, che ne restò offeso e indignato, e che nella figurina svestita credette di ravvisare gli estremi dell'oltraggio al pudore. Motivo per cui li cittadino bresciano stese un diffuso rapporto sul fatto, ne considerò la portata e le conseguenze, e lo presentò all’ autorità giudiziaria locale La quale però, avendo notato che il cartellone era stampato e diffuso da due ditte fiorentine, passava la denuncia a Firenze.

Il giudice fiorentino, esaminati bene gli atti, ed attentamente osservata la vignetta incriminata, ha emanato una curiosa — anzi interessante — sentenza, di non luogo a procedere, la cui motivazione potrà forse far testo per altri procedimenti analoghi.

Secondo il procuratore della Repubblica fiorentino, il pudore oltraggiato insomma non è nella figura stessa, ma nei sentimenti che l’insieme del lavoro può suscitare. Nel fatto specifico il giudice ammette che la donna tracciata con linee alquanto procaci poteva suscitare veramente pensieri non del tutto casti nell’osservatore, ma accanto alla donna c’è la faccia esilarante di Totò, che crea l’antidoto. Infatti la smorfia dei viso di Totò esprime una tale umoristica concupiscenza «da ridicolizzare e quindi annullare lo stimolo erotico che altrimenti sarebbe derivato dalle procacità della donnina». In conclusione è più forte l'attrazione comica dell’attrazione femminile.

La comicità di Totò è dunque un antidoto al pudore oltraggiato. E questo spiegherebbe perchè quando è sul palcoscenico Totò si possa circondare con indifferenza di donnine seminude. I lazzi e le smorfie di Totò sono addirittura antiafrodisiache. Chi lo avrebbe mai detto?

Marco Marchini, «Il Piccolo di Trieste», 10 aprile 1951


La metà di Totò e Carolina

II film «Totò e Carolina» ha un'aureola di martirio che si si addice poco; nel senso che un anno e più di battaglie con la censura e i trenta tagli subiti costituiscono un fardello troppo pesante per il suo scheletro gracile. Non è sempre vero che la persecuzione dia grandezza a chi la soffre; talvolta semplicemente fa piccolo e ridicolo chi la esercita. Nel caso di «Totò e Carolina» nasce addirittura questo sospetto: le ragioni che hanno mosso l'ira della censura forse sono le stesse che "prima" avevano impedito al regista Mario Monicelli di realizzare compiutamente il film (la metà che resta è buona, gradevole, diverte e talvolta anche intenerisce; ma la metà non fatta lascia un vuoto, più grande del divertimento).

Vediamo infatti come potrebbe essere ricostruita la storia di «Totò e Carolina» (mi rendo perfettamente conto dell'arbitrarietà del procedimento, da Corte d’Assise, ma non trovo mezzo migliore per spiegarmi). L'idea prima dei film è molto bella. A un agente di polizia viene affidata una ragazza che vuol morire; l’agente ha il dovere di impedirle di morire, non ha il diritto di imporle di vivere. Tutto qui: un nodo drammatico di grande vastità, perchè propone l'antico conflitto fra società e individuo in termini così elementari che la soluzione diventa impossibile. Entrambi i protagonisti infatti sono, hanno da essere creature semplici, lì mio suicidio, dice lei, è motivo di scandalo e lo credo; ma allora tu metti fine all'altro scandalo, cioè toglimi dalla condizione di dovermi uccidere. Il che non è possibile, perchè la società nè te lo chiede nè te lo consente. E allora? Allora non c’è via d'uscita. E' la logica irresistibile dei semplici, quella che chiede i conti finali a tutto, eserciti imperi monopoli codici tavole. La società viene messa in crisi dalla caparbia infelicità di una servetta e dalla fedeltà apparentemente idiota, sostanzialmente eroica di un agente di polizia alla legge. Il fatto poi che un dramma di questo genere abbia uno svolgimento comico, anche questo è naturale, perchè c’è una straziante assurdità nei problema stesso.

Il soggetto, anche dal punto di vista narrativo, era eccezionalmente limpido e felice. La ragazza viene presa in una retata di prostitute a Villa Borghese, dallo stesso agente che la dovrà riportare a casa, al paese donde è venuta. e dove il ritornare è peggio della morte. E appunto arrivati al paese, dopo un viaggio accidentato, anche sentimentalmente. il poliziotto comprende che davvero non c’è via d'uscita. Dunque una azione fluida, continua, verso una conclusione assolutamente necessaria, l'unica possibile: la legge non può soffocare lo scandalo dell'infelicità?, ebbene la legge divorerà lo scandalo facendo propria quella infelicità, caricandosela addosso, portandosela a casa: il poliziotto difatti si porta a casa la ragazza. E' una conclusione irrazionale, lo so; ma la logica dei poveri ha sempre una conclusione irrazionale.

A un certo momento della realizzazione, regista e sceneggiatori si sono preoccupati di motivare, con ragione, l’infelicità della ragazza. Disgraziatamente non si sono fermati alla spiegazione di uno Stato psicologico. Hanno chiamato in causa la società, il che significava farlo per la seconda volta, giacché una ragazza che tenta il suicidio i suoi conti con la società li ha già fatti. In verità, mi sembra, essi non si sono accorti che stavano motivando "la loro propria infelicità”; ed è accaduto che mentre Totò e Carolina se ne andavano sulla jeep a risolvere il loro problema nel modo che s’è detto, gli autori del film li seguivano gettando intorno occhiate irritate, offese, accusataci, come a dire continuamente «vedete di chi è la colpa, di chi è la colpa, di chi è la colpa...». A quel punto, viceversa, che la società fosse in colpa lo avevamo già stabilito e ci interessava sapere come se la sarebbero sbrigata fra loro, l'agente e la ragazza, con quale gioco di invenzioni sentimentali, con quali rischi, cadute, scontri, repulsioni, attrazioni. U caso appunto ha avuto (ma è stato soltanto un caso?) che proprio quelle occhiate accusatrici, dispersive agli effetti della vera azione del film, abbiano irritato i censori e procurato tanti guai.

A meno che la censura non abbia trovato intollerabile Totò nella uniforme di agente di polizia. Se cosi fosse, sarebbe davvero estremamente buffo, perchè la censura anche in questa ipotesi, commettendo un errore, avrebbe inconsapevolmente messo il dito su una critica di tutt’altro genere, ma probabilmente esatta. Totò ancora una volta ricade nella eterna caricatura di un personaggio immaginario, che non è il personaggio di questo film nè di qualsiasi altro film. Il divertimento che ci procura — un divertimento a tratti intenso e prolungato — ci costa tutta l’umanità che quell’agente di polizia avrebbe dovuto avere. Ma nemmeno Anna Maria Ferrerò è del tutto adatta alla parte. I tempi degli attori presi dalla vita per un personaggio che non può avere una faccia diversa, sono ormai lontani.

Vittorio Bonicelli, «Tempo», anno XVII, n.11, 17 marzo 1955


Totò e Carolina sfottò costituzionale

Felicitiamoci con la Celere per aver superato il suo complesso di inferiorità. A questo e non altro si poteva ascrivere la proibizione di Totò e Carolina, proibizione che sollevò un anno fa tante proteste e tanti commenti. Naturalmente, quando si seppe che era proibito tutti a Roma cercarono privatamente di vederlo, e così lo vidi anch’io. Ci trovai una svelta e divertente commedia, è vero con qualche saporito granello qua e là di politica e malizia, però nulla che uscisse dai limiti di un costituzionale sfottò. Ma ammesso pure che i censori lo avessero giudicato eccessivo, mi parve strano che per poche battute facilmente rettificabili si fosse impegnata addirittura l’autorità dello Stato con una condanna cosi recisa e solenne, creando al film un esagerato piedestallo di scandalo, quasi un’aureola di conculcata libertà.

Pensai dunque che, dovendo a ogni costo trovare un motivo, l’unico forse era quello, pregiudiziale, di aver messo indosso l’uniforme della Celere a Totò, e di avere cosi compromesso in un personaggio farsesco il decoro di un Corpo armato dello Stato. Questo incubo del vilipendio, prodotto di una mentalità arretrata e meschina, è tanto diffuso che mi raccontarono che a suo tempo i produttori di Pane, amore e fantasia passarono i loro patemi nel dubbio che l’amabile macchietta del Maresciallo potesse essere stupidamente interpretata come un oltraggio alla nobile Arma dei Carabinieri.

È un errore credere che il presentare in luce familiare e spassosa certe istituzioni le indebolisca. Non ci fu mai un esercito preso in giro come lo fu il francese, nella letteratura e nel teatro del primo Novecento, quando Courteline satireggiava la vita di caserma, e non c’era si può dire pochade in cui non comparisse un generale in mutande. Eppure proprio l’esercito francese doveva vincere, pochi anni dopo, una delle più titaniche battaglie della storia, Verdun; una delle ultime del tipo classico, perché poi già nella guerra seguente era tutto cambiato, e non parliamo poi delle future, in cui le battaglie si decideranno quando a distanza di cinquemila chilometri, l’ultimo soldato sarà atomicamente arrostito come un pollo.

Un po’ sulla linea curtelinesca è anche questo agente scelto Caccavallo Antonio il quale, avendo una sera durante una retata a Villa Borghese «rastrellato» abusivamente una ragazza che per un fallo e un disinganno d’amore aveva ingerito proprio in quel momento dei barbiturici, e che i sanitari che la salvano giudicano psichicamente scossa e capace di ripetere il gesto, è comandalo dal suo Commissario di riportarla. al paese e consegnar , la alla famiglia. Ma la ragazza non ha famiglia, e nessuno la vuole, per cui alla fine il disgraziato agente scelto che in quella avventurosa giornata passa a causa della scia, guratella ogni sorta di guai, compreso il rischio di rimetterci l’osso del collo, decido di prendersi a carico lui quelle due bocche in famiglia, la ragazza subito e il pupo quando verrà. Ebbene si può prevedere sin d’ora che questo diventerà un personaggio popolarissimo. Non solo perché ha una grande carica comica, ed è uno dei migliori Totò mai visti (anche Anna Maria Ferrero esce molto bene), ma perché nella sua ingenua burbanza, e travettistica umiltà, e confusionario zelo, è puro un personaggio simpatico e umano. Sicché alla fine la Polizia ci farà un buonissima affare, e anche senza il predicozzo iniziale che non serve a niente, questo film gioverà probabilmente alla sua popolarità presso il pubblico italiano, molto più dei marziali vocalizzi della Attualità Incom.

Ma Totò e Carolina vale soprattutto perché rappresenta un tentativo purtroppo rarissimo tra noi, di farsi intelligente. Infatti pur avendo radice in un dramma, so stanzialmente l’andamento è di farsa, anzi in più di un punto ne prende addirittura il ritmo precipitosamente motorio. Farsa, e tuttavia intelligente perché, salvo qualche accidentale caduta, come nel. l’episodio dell’osteria e del bidone di latte, Flajano soggettista e Monicelli regista sono riusciti a tenerla su un costante livello di ingegnosa invenzione e di comica classe, mai vista nel nostro cinema dove il comico è sempre o stupido o scurrile; e da questo punto di vista interesserà seguire il responso degli incassi. Quanto alle battute rimaneggiate o soppresse, si potranno deplorare queste amputazioni per ragioni di principio, ma anche se gli hanno tolto talora senso e mordente non si può dire che abbiano pregiudicato il film. Ringraziamo a ogni modo che sia stato conservato uno dei passaggi più scabrosi: quello in cui il celerino in camionetta, che era balzato furioso a terra per fare una scenata credendosi tamponato da un autocarro di «rossi», si mette immediatamente sull’attenti e chiede scusa, appena si accorge che si tratta invece di boy scouts guidati da un reverendo. È una cosa da nulla, solo una piccola, innocua boutade laica. Ma il fatto che, a questi chiari di luna, si sia osato tanto è confortante. Forse una nuova era si apre per la Patria.

Filippo Sacchi, «Epoca», anno VI, n.231, 6 marzo 1955


Per Totò e Carolina è arrivata l'assoluzione

Non c’è nulla di immutabile, a questo mondo. Nel 1953-54, quando cercò di ottenere il visto di censura per poter essere immesso nei normali circuiti cinematografici, un film come ”Totò e Carolina” andò incontro alle grane sue. La vicenda non può essere definita molto rivoluzionaria, nè la trama eccessivamente scabrosa. Si tratta della storia di una ragazza — vent'anni e meno — appena giunta dalla campagna e spinta dalla disperazione a intrupparsi tra le derelitte di Villa Borghese, a Roma: naturalmente, alla prima "retata" della polizia si fa "beccare”. Già in questura, sopraffatta dalla vergogna. Carolina (Anna Maria Ferrero) incomincia a mettere nei guai il commissario con un tentativo di suicidio.

Dopo la regolamentare lavanda gastrica all'ospedale, il commissario pensa di liberarsi del grattacapo rifilando la ragazza allo zelante agente scelto, Antonio (Totò), perchè la riaccompagni al paesello con il rituale foglio di via. Dopo una breve sosta a casa dell’agente, vedovo con padre e figlioletto a carico, i due partono in jeep per Montefiascone. Ma neppure al paese — dove giungono dopo un’infinità di peripezie, da un tentativo di fuga a quello di un altro suicidio — qualcuno, parenti, parroco, autorità, vuole assumersi il compito di "prendere in carico” una ragazza già schedata dalla polizia e che, per di più, confessa di essere in attesa di un figlio. Al povero agente non resta che far marcia indietro con la ragazza, di cui ormai si sente responsabile, nella speranza di trovare una soluzione. Ma non c’è niente da fare: neppure un ladruncolo (Maurizio Arena), sorpreso a rubare in un camion e che potrebbe farla franca se solo volesse andarsene con Carolina, accetta il baratto. E alla fine l'agente si rassegna a portarsi a casa la ragazza: potrà dargli una mano nel mandare avanti una famiglia dove sono solo uomini.

Una storia esile esile, ravvivata da un’eccellente recitazione, da una sciolta regia di Mario Monicelli, e da alcune efficaci notazioni di costume introdotte in fase di sceneggiatura (curata, assieme allo stesso Monicelli, da Ennio Flaiano e Rodolfo Sonego), che non si vede proprio in che cosa possa costituire scandalo. Ma nel 1954 le ragioni di scandalo apparvero molte. Prima di tutto quello spirito di "volemose bene" che sotto sotto pervade tutto il film, comprende anche i comunisti, visti come più propensi alle bicchierate in osteria che alla preparazione della rivoluzione. E poi, come si poteva concepire un agente di polizia tanto poco marziale, tanto pover'uomo, persino disposto a lasciar scappare un ladruncolo purché lo togliesse dalle grane come si dimostra il buon Totò? C’era da risvegliare l’inorridita indignazione dei difensori della morale e dell’onore patrio. E il film, mentre le polemiche sui giornali infuriavano, dovette attendere per mesi il suo visto, poi rassegnarsi a tagli. Oggi, su queste cose, si può sorridere.

«Epoca», 18 luglio 1970


Totò, come si rideva!

Caro Totò, dai e dai, anche per lui la tv è riuscita ad azzeccare il film giusto. Sino ad ora non erano sfilati che cascami. «I due orfanelli», «Totò le Mokò», «Totò sceicco»... sbrindelli di rivista, e non proprio della migliore, trasferiti sullo schermo e ricuciti alla meglio, frettolosamente... gualche risatina... il più delle volte si stava li, in paziente attesa di un'occasione di ilarità che tardava a venire... Oppure abbiamo visto «Yvonne la nuit», fumettone lacrimoso dove Totò c'entrava come i cavoli a merenda... Ma questa settimana, finalmente, è stata riesumata una pellicola che, senz'essere un capolavoro, è garbata e intelligente, persino con una punta di satira: Totò e Carolina di Mario Monicelli.

Andiamo a guardare chi è il soggettista: Ennio Flajano. In un'epoca (1955) in cui il poliziotto, ancora più di adesso, diremmo, si ergeva a grande distanza dal cittadino, autoritario simbolo del potere statale, provvisto di casco e di sfollagente, solo ad un tipo ironico e amaro come Flajano poteva venire in mente di offrire un'immagine di agente di P. S. bonario e pasticcione, strampalato e sgangherato, alle prese, tra le quattro pareti domestiche, con un figlioletto dalle calze a pezzi e con un vecchio padre rimbambito, una volta accuditi dalla moglie ora defunta... E' poco più di un morto di fame che sogna un piccolo aumento di stipendio e che sente un'immediata solidarietà per una ragazza che appartiene alla sua stessa categoria, la categoria dei poveri e dei diseredati che tirano la carretta faticosamente... Quando si trova in difficoltà grida «Compagni!» invocando il soccorso di alcuni socialisti (allora il socialista era l'unico rappresentante delle sinistre che poteva essere nominato: i comunisti noti dovevano esistere); e quando la jeep che pilota viene tamponata da un camion scende imbestialito, ma trovandosi al cospetto di un reverendo s'inchina sino a terra...

Anche se poi, a conti fatti, «Totò e Carolina» è una casetta, si capisce come vent'anni fa la censura si sia inquietata e abbia messo i suoi bravi bastoni tra le ruote del film, probabilmente tagliato, certo ostacolato e osteggiato. Perché abbiamo detto, all'inizio, «caro Totò»? Ma perché abbiamo di Totò, collocato in quel periodo (grosso modo tra il '50 e il '60), un ricordo particolarmente affettuoso. Il periodo era — come dire? — tutto severo, tutto serioso, tutto conformista, tutto teso all'edificazione morale. Rammentiamo (ed è bene rammentarlo perché troppa gente se l'è dimenticato) che venivano tolti dalle vetrine di una galleria d'arte i nudi di Modigliani; che sui giornali era proibita la parola amante: che non si poteva rappresentare «La Mandragola» di Machiavelli; che si coprivano con striscioline di carta le gambe della ballerina in tutù effigiata sul manifesto di «Scarpette rosse»; che la televisione nasceva in un clima di limitazioni, di imposizioni, di riguardi e di paure (dove l'innocente espressione «scherzo da prete» scappata al concorrente di un quiz suscitava orrore e scandalo).., ma dovremmo continuare per un pezzo, occupare parecchie Una statua e una "via Totò" colonne, forse un intero volume...

Bene, in quel periodo Totò era, sia pure modestamente e negli angusti confini tollerati dalla censura e comunque scrupolosamente rispettati dai produttori, un emblema di apertura burlesca, di verve sornionamente ammiccante, di sghignazzata (o pernacchia, se del caso) lietamente irriverente, come sana e spontanea e popolaresca reazione a troppa austerità. In «Totò e Carolina» abbiamo ritrovato, a tratti, questo spirito e l'abbiamo apprezzato. E per continuare il discorso della comicità cinematografica in tv, annotiamo che al sabato c'è un'antologia di vecchie farse (l'altra settimana Cretinetti, stasera Robinet): tutte cose girate negli stabilimenti di Torino (e per le vie di una mitica, incredibile Torino deamicisiana e gozzaniana). La rassegna ci sembra molto interessante e gradevole. Ma di regola incontri quelli che ti dicono in tono risentito: «Io non sono riuscito a ridere veramente...». Bella scoperta: è come se uno pretendesse di singhiozzare a «Cenere» conia Duse o a «La falena» con Lyda Borelli. Sono documenti preziosi di un gusto o di un'epoca in cui si colgono senza difficoltà le matrici dell'arte comica che verrà dopo: e da cui non è raro tirare fuori momenti di autentico divertimento. E poi. perché protestare? Chi non è soddisfatto dell'umorismo del cinema muto non ha che da toccare un pulsante e passare sul «nazionale»: qui cadrà fra le braccia di Bramieri e sarà avvolto dall'umorismo che cercava, fragoroso e ben imbottito di parole.

Ugo Buzzolan, «La Stampa», 5 maggio 1973


Questa sera in TV il film Totò e Carolina

Uno stralunato pulcinella

Un attore sul cui conto si sprecano i luoghi comuni - Ha lavorato con diversi registi - Una maschera che urtò i potenti - La grande nostalgia per il teatro - Proporlo in televisione è un limite - Non servono più i fantasmi - Il principe e il comico

Il principe De Curtis, in arte Totò, è un uomo sul cui conto i luoghi comuni si sprecano. Per esempio: snobbato dalla critica, è stato rivalutato dopo la morte; il che non è completamente vero, ed è comunque un errore da superare, non un tormentone da ripetere. Oppure: un grande attore che ha fatto solo brutti film; fandonia delle più clamorose, basta rifarsi ai dati per rendersene conto. Dati che parlano chiaro: la filmografia che Goffredo Fofi aggiunge in calce al volume Totò: l'uomo e la maschera, da lui curato insieme a Franca Faldini, comprende 97 titoli. In questo cospicuo elenco, riscontriamo sette regie di Monicelli, tre di Pasolini, una ciascuno di De Sica, Bolognini, Comencini, Rossellini, Blasetti, Greporetti, Lattuada, Eduardo De Filippo; due sceneggiature di Vitaliano Brancati, due di Ennio Flaiano; due adattamenti da Pirandello e uno (Totò e i Re di Roma, 1951) da testi di Cechov. Bellissimi nomi, tutti quanti. Certo sono una minoranza, la massa è rappresentata ai film di Camillo Mastrocinque, di Mario Mattioli, di Sergio Corbuccì, questi sì autentici «mercenari» della sotto-commedia italiana. Ciò non toglie che sarà bene cominciare a distinguere, in questo come in altri campi.

Un’altra cosa da non dimenticare è come Totò, nell’immediato dopoguerra e fino agli inizi degli anni Cinquanta, fu impiegato in film di carattere quasi neo-realista. Merito di Rossellini che lo usò in un film purtroppo poco riuscito, Dov'è la libertà del 1952; merito soprattutto di Mario Monicelli che lo diresse (prima in coppia con Steno, poi da solo) in Totò cerca casa (1949), paradossale film-inchiesta sulla crisi degli alloggi; in un memorabile Guardie e ladri (1951), dove il duetto con Aldo Fabrizi raggiunge vertici sublimi; e, ultimo ma non ultimo, nel film di questa sera, Totò e Carolina (1953), da un soggetto di Ennio Flaiano.

Proprio Totò e Carolina è importante per capire come la maschera di Totò potesse urtare i potenti. Finito nel 1953, il film fu bloccato dalla censura e potè uscire solo nel ’55, impietosamente tagliato. Totò vi interpreta il ruolo di un poliziotto che deve ricondurre al suo paese, con foglio di via, una ragazza che ha tentato il suicidio. Un soggetto difficile, e poi, ma scherziamo, un poliziotto con la faccia di Totò? Monicelli e Flaiano dovettero operare trentacinque tagli.

E’ giusto, quindi, che Totò e Carolina vada in TV, anche venticinque anni dopo. E’ anche un atto di riparazione, perchè la TV, pubblica e privata, ha sfruttato e massacrato Totò come nessun altro: presentando copie macilente, piene di salti, inguardabili, e organizzando centoni che non rendono minimamente giustizia all’attore. Vorremmo finalmente vedere film integri, e soprattutto vogliamo vedere film interi, non raccolto di spezzoni. Per capire come, a volte, Totò fosse veramente costretto a salvare copioni allucinanti con la sola forza della propria mimica e dei proprio nonsense; e anche per capire come, talvolta, questo stralunato Pulcinella si limitasse a scatenarsi in due o tre scene, disinteressandosi del film nel suo complesso. Monicelli stesso ce lo dice: «Totò si compiaceva se chi gli scriveva le sceneggiature erano autori di nome, però credo che sul fondo non gli interessasse molto. La grande passione, la grande nostalgia di Totò era il teatro, il cinema lo ha fatto per ragioni economiche...».

D’altronde, Totò in TV lo amiamo, ma ci fa tristezza; già il cinema è un’arte tecnica, di riproduzione della realtà; il cinema in TV è riproduzione di una riproduzione. La cosa funziona per grandi registi nelle cui mani l’attore è solo materiale narrativo, non può andare bene per Totò. Facciamo allora una proposta: trasmettiamo tutti i film di Totò, uno al giorno, per omaggiarlo; poi chiudiamoli in una stanza, e facciamoli vedere solo a bambini di tre o quattro anni che dimostrino un precoce talento per la mimica e per l’assurdo: impareranno parecchio, e forse, finalmente avremo un nuovo Totò. Perchè non ci servono più fantasmi, ci serve un uomo di carne, che sappia fare a pezzi il buon senso e le convenzioni usando esclusivamente la lingua e le mani.

Ci serve un altro uomo che, come Totò, sappia superare le classi, nutrendo la propria maschera degli spiriti vitali e anarcoidi del sotto proletariato, senza perdere la propria nobiltà, la propria signorilità. Totò era così: era un principe, ed è l’unico luogo comune che ancora gli si attagli bene. Racconta Vittorio De Sica che lo diresse in l'Oro di Napoli: «Il primo giorno che lavorai con lui gli domandai: "Devo chiamarla principe o Totò?”. Ci pensò un attimo, poi mi rispose: “Mi chiami Totò”. Ma tutti gli altri dovevano chiamarlo principe...».

al.c., «L'Unità», 17 novembre 1980


001 Toto Carolina

MONICELLI - La sera cantavamo con Totò

Steno ed io diventammo registi per caso quando inventammo «Totò cerca casa». Per «Risate di gioia» la Magnani non lo voleva: «Abbassa il tono del film»

«Ok, parliamo dell'estate 1949. Allora girai il mio primo film, in collaborazione con Steno: Totò cerca casa». Mario Monicelli, con quel suo modo un po' brusco un po' sincopato di parlare, accetta finalmente di ripercorrere un pezzetto della sua lunga carriera. Non voleva farlo. «Non mi piace guardarmi indietro - aveva detto -. Il passato è passato. E, poi, non ho il gusto dell'aneddoto. Figuriamoci del pettegolezzo retrospettivo. Posso parlare solo del mio lavoro, del cinema. E' l'unica cosa che ho fatto nella vita».

Di cose, nella sua vita, veramente ne ha fatte moltissime. Ha 77 anni e fa cinema da quando era diciottenne. Ha girato una settantina di film e nella storia del cinema è entrato come uno dei maestri della commedia all'italiana. Ha lavorato con grandi attori e suoi sono alcuni capolavori come La grande guerra, I compagni, L'armata Brancalcone. Ma nel mondo dei ricordi s'inoltra malvolentieri. Mentre si muove con serena sicurezza fra gli interessi e gli affetti del presente. Eccolo sorridere - neanche tanto spesso - nella piccola casa dove è andato ad abitare con la sua nuova famiglia. Mostrare i quadri dipinti dalla giovane moglie. Raccogliere il pupazzo di peluche che la sua ultima figlia - Rosa, di 4 anni - ha piazzato sul più bel divano della stanza. E soffermarsi sul film cui sta lavorando, insieme con Suso Cecchi D'Amico e due esordienti.

«Vorrei fame - dice - una sorta di continuazione e controcanto di Speriamo che sia femmina. Lì raccontavo il rapporto fallimentare fra uomo e donna, la speranza per il mondo nelle relazioni nuove che le donne sanno instaurare fra loro. Adesso vorrei raccontare quanto le donne - passate attraverso l'esperienza del femminismo - hanno spaventato gli uomini, li hanno intimiditi, messi in fuga. lnsomma vorrei che le donne si prendessero un po' la responsabilità del fatto che i sessi non riescono più a trovare un'intesa fra di loro».

E Totò? Il regista fruga fra buste ingiallite mescolate a libri e dischi. Fatica a mettere ordine fra le foto di film disparati. Si diverte, qualche volta, nel rivedere una faccia. S'imbroncia, più spesso, davanti a visi di gente scomparsa, ragazze sparito dopo la breve parentesi in celluloide. Finalmente ecco una piccola antologica di Totò. Totò che ammicca, strabuzza gli occhi, avanza sghembo come solo lui sapeva fare. Monicelli riflette e dice: «Lui era speciale».

Racconta: «L'ho conosciuto nel '49, anche se - prima - l'avevo spesso incontrato. Insieme con Steno avevo scritto le sceneggiature di tanti suoi film di successo. Io e Steno eravamo una coppia molto richiesta quando noi dopoguerra ci fu quell'imprevedibile boom del cinema italiano. Tutti credevamo che - aperte le porte alle pellicole americane, finita la protezione che il regime aveva assicurato al nostro cinema - non ci sarebbe stato un futuro per noi. Molti si erano dirottati verso attività alternative: giornalismo, fumetti. Invece scoppiò il neorealismo. Nacquero - nonostante i pochi soldi, i mezzi tecnici scadenti - quei capolavori e tante pellicole di cassetta. I film costavano poco e rendevano. La gente faceva la coda davanti ai cinema. I produttori investivano e ci guadagnavano. Stimolavano anzi gli autori a sperimentare nuovo strade Insomma, fu un boom.

«Steno ed io diventammo registi per caso. Carlo Ponti aveva sotto contratto Totò per due mesi. Doveva fare un film per la Lux di Alfredo Guarini. Pensò di fame due di film, invece di uno. Allora si girava alla buona, senza la prosopopea di oggi. Ponti ci disse: inventatevi un soggetto, presto! E ci venne l'idea di Totò cerca casa. Il problema degli alloggi era drammatico. Le città erano semidistrutte. Quella storia teneva d'occhio l'attualità e - come si faceva alloro saccheggiava anche le idee di altri, gli spunti che venivano da una conversazione, il teatro napoletano tradizionale. L'episodio dell'alloggio nel cimitero, ad esempio, è preso di sana pianta da un alto unico - anonimo - del repertorio napoletano. Il clima era quello del tempo dell'opera buffa, di Cimarosa e Paisiello, quando un'aria si trasferiva da un'opera all'altra, e cosi una situazione, un personaggio. Le cose nascevano cosi, con grande felicità, in una maniera che poi si è perduta e che rimpiango molto. Si stava insieme, allora, registi, scrittori e attori. A Roma ogni sera sul palcoscenico di un piccolo teatro, l'Arlecchino, saliva a cantare o recitare chi voleva: Aldo Fabrizi come Ennio Flaiano, Ciarletta. Brancati, Mazzarella, la Valeri.

«Ponti interpellò un paio di registi, poi ci disse: Ma, scusate, porché il film non lo dirigete voi? E cosi finimmo dietro la macchina da presa. Era estate, naturalmente, perché allora si girava solo nei mesi estivi quando il bel tempo era sicuro. Non come oggi che, con le pellicole e i mezzi tecnici a disposizione, si può lavorare sempre e, anzi, la luce invernale, di taglio, è preferita. Le ragioni artistiche allora non potevamo neppure permettercele. Mentre oggi - ironia della storia! - film non se fanno quasi più. Arrivammo sul set col copione completo. Non si usava cambiare, avere ripensamenti. Non c'era il tempo per rifare una scena. Totò aveva approvato la sceneggiatura. Lui veramente non discuteva mai. Gli andava sempre bene tutto. Non contestava mai una situazione, una psicologia. All’inìzio aveva tentato di dare qualche suggerimento, per portare avanti una comicità più surreale, più lieve. Ma non fu capito. E la smise di insistere.

«Anch'io l'avevo contrastato. Avevo voluto, semmai, umanizzare il personaggio, portarlo fuori dal cliché della macchietta. Ho fatto un errore. E me ne dispiaccio, tanto più che, poi, mi ha sempre divertito molto rovesciare i ruoli, inventare attori. Sono stato io - in La ragazza con la pistola - a fare di Monica Vitti, l'interprete dell'incomunicabilità e dell'alienazione, un'attrice comica. E nei Soliti ignoti ho avuto l'idea di trasformare in attore comico Gassman, che fino ad allora il cinema aveva voluto nei ruoli del latin lover o del cattivo o dell'antipatico. Sempre in quel film feci saltare fuori Marcello Mastroianni comico, la Cardinale che era una ragazzetta appena venuta da Tunisi e che non sapeva neppure parlare l'Italiano. Tiberio Murgia che faceva Io sguattero in un ristorante... Stessa operazione, ma in senso inverso, nella Grande guerra, dove affidai a Sordi un ruolo drammatico...

«Già allora, nel '49, Totò era fragile, di salute delicata. Era un vero uomo di teatro, abituato a orari diversi, spazi ristretti. Si sentiva a disagio all'aperto dove si girava. Si stancava e infastidiva per le lunghe pause, sotto il sole o la pioggia, nelle attese che il cinema comporta. In realtà amava il teatro e riteneva che quello fosse il luogo in cui valeva la pena esprimersi. Del cinema non gliene importava molto. Era gentile, un signore. Lui era il cast, per questo gli si mettevano accanto anche attori non professionisti che facevano ripetere una scena magari tante volte: Totò non si spazientiva. Con le sue partner, le bellone del tempo, aveva un modo distaccato di comportarsi: era come su un palcoscenico d'avanspettacolo, quando le luci si spegnevano tutto finiva lì. Certo, era un divo. Ma, insieme con Aldo Fabrizi mi diede la prima grande lezione di uomo di spettacolo. Li volli per Guardie e ladri, nel '51. Erano due mostri sacri. Fabrizi aveva fatto il regista, aveva lavorato con la Magnani, era un uomo scontroso e irritabile. Sembrava un'impresa impossibile farli lavorare insieme. Tutti erano preoccupati. Invece mi rivelarono che - quando più divi lavorano insieme - ciascuno vuole mostrare quanto è disponibile: arriva in orario, non pretende il camerino migliore, non si presenta al trucco per ultimo per guadagnare mezzora di sonno. Andò tutto benissimo.

«In quell'estate del '49 due cose mi colpirono di Totò. Una sorta di sdoppiamento fra l'attore e il principe. Sul set recitava, era scurrile, farsesco, comico. Poi diventava il principe De Curtis e la sua fedeltà alla figura del blasonato era totale. Amava stare a casa. Aveva una saletta di proiezione dove si vedeva - anche do solo - i film. Ascoltava musica e ne componeva. Quando riceveva, la sera, ci faceva sentire le sue canzoni, raccontava aneddoti. Era un uomo molto simpatico, ma non faceva il comico, non si esibiva. Sapeva ascoltare. Si facevano le due, le tre...

«Le volte che andava a vedersi - e non lo faceva neanche sempre - assisteva al film come se quello sullo schermo fosse un altro: rideva di gusto oppure non si divertiva per niente, ma non entrava mai nel merito dicendo questo si poteva fare così questo è andato male perché... Era come se la cosa non lo riguardasse: un atteggiamento che non ho mai trovato in nessun altro attore. Era davvero così diviso? Era una corazza che si era costruito? Non l'ho mai capito. Ho capito poi, invece, quanto grande fosse il mito - mania, debolezza, fissazione? - per quel suo titolo nobiliare. Una volta, nel '51, mentre giravamo Guardie e ladri al Palatino, lui puntò il dito verso l'Arco di Costantino. ‘ Sai che quello è mio?", disse. Io non capii. “Certo, certo”, risposi con ironia. Lui, serissimo, insistè: "E' mio perché Costantino era un imperatore romano. Mentre io discendo direttamente da antenati greco-bizantini”.

«La sua notorietà era senza confronti. Con lui girai il primo film che firmavo da solo, nel '55, Totò e Carolina (film che mi diede un sacco di guai con la censura, perché Totò era un poliziotto diciamo umano, vessato dai suoi superiori, sostenuto da un groppo di persone che cantavano L'Internazionale e sventolavano la bandiera rossa: dovetti fare un sacco di tagli, l’identità di quelle persone fu cancellata e il film uscì con mesi di ritardo!).

«Le nostre strade si separarono per anni. L'ultima volta che lavorai con lui fu nel '60. in Risate di gioia, con Anna Magnani. La Magnani la conoscevo bene. Andavo spesso alle serate in casa sua, serate molto divertenti: lei recitava sketches, cantava, faceva terribili scherzi col telefono svegliando la gente, spacciandosi per altri... Per quel film ci scontrammo: lei non voleva Totò. Tira giù il tono del film! diceva. Io però mi impuntai o Totò fu nel cast. La macchina da presa - vidi - gli era diventata più familiare. Il pubblico cinematografico, per lui abituato al rapporto platea-palcoscenico, non era più qualcosa di astratto. Alla fine di ogni scena la troupe - 20-30 persone - si raccoglieva insieme e lo applaudiva. Questo lo riscaldava, gli piaceva. Un'idea geniale. Che però non avevo avuto io...»

Liliana Madeo, «La Stampa», 15 luglio 1992


Totò censurato da Andreotti

La ridicola severità della censura negli Anni 50 emerge da una ricerca comparata su film di Totò, spettacoli a teatro, sketch per la tv, poesie e foto. La ricerca scientifica è stata eseguita su materiale noto e meno noto e su inedite note di censura che offrono un quadro vivacissimo delle difficoltà in cui si muoveva l'artista. Ad esempio «Totò-travet», che prende in giro l'impiegato che ruba, per mandare le figlie in vacanza e trovar loro marito, viene aspramente criticato perché il censore individua «rischio grave» nel modello di un capo dipartimento dello Stato che si fa corrompere. Le repliche, gli accomodamenti e ogni ipocrisia della censura sono così descritti variamente sulla base degli incartamenti di produzione: spicca un viaggio all'inferno di Totò il cui finale realistico (che adombra le disavventure di un disoccupato nell'Italia del boom) è modificato in «sogno», su disposizione di un appunto di censura, firmato Andreotti.

«La Stampa», 19 gennaio 1996


Il ritorno della censura dopo il 18 aprile - Quando la Dc tagliò Totò

Dunque, la vittoria della DC e dei suoi alleati, nelle elezioni del 18 aprile 1948, avrebbe garantito la libertà di tutti, frenando i cavalli cosacchi ansiosi di abbeverarsi alle fontane di Piazza San Pietro (non stiamo inventando nulla, anche di questa pasta, appigliandosi magari alla maldestra profezia di un Venerabile Uomo, fu la propaganda anticomunista e antisocialista di quel periodo). Ma, certo, per le nostre arti dello spettacolo, cinema e teatro, si trattò di lottare fino allo stremo contro l'ondata di oscurantismo e di cieca repressione scatenatasi con particolare virulenza nei primissimi Anni Cinquanta.

Dei casi, a volte grotteschi e risibili, comunque drammatici, che si verificarono allora, sono stati riempiti interi libri (citiamo, almeno, «La censura nel cinema italiano» di Mino Argentieri, Editori Riuniti, e «La censura teatrale in Italia» di Carlo Di Stefano, Cappelli editore). Qualche esempio appena vorremmo citare, perché specialmente clamoroso ed emblematico. Abbiamo sott'occhio la riproduzione della copertina del capolavoro teatrale di Niccolò Machiavelli, «La Mandragola», e di traverso, stampigliata in lettere maiuscole (due volte, a scanso di equivoci), la scritta «Non approvato». La data, come da timbro, è quella del 21 aprile 1951. Responsabile del nefando divieto il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dell'epoca, e competente per la materia, Giulio Andreotti. Identico «no» riceverà, il 18 gennaio 1952, «La Governante», creazione, stavolta, di un apprezzato autore contemporaneo, Vitaliano Brancati.

C'è bisogno di sottolineare l'importanza di Machiavelli, e della «Mandragola», nella storia della cultura, e della politica, del nostro Paese, ma non soltanto di esso? Si deve ricordare che fu la lettura di tale gran commedia uno dei motivi determinanti della vocazione teatrale del giovane Carlo Goldoni? Piuttosto, rammentiamo che, finalmente autorizzata dopo la sconfitta della legge-truffa (giugno 1953), e rappresentata nella stagione successiva dalla Cooperativa Spettatori Italiani (registi Marcello Pagliero e Luciano Lucignani), l'opera machiavelliana costò alla Compagnia il taglio della sovvenzione ministeriale, e il conseguente scioglimento.

Quanto alla «Governante», dovettero passare diversi lustri prima che essa potesse affacciarsi alla ribalta (la censura sul teatro sarebbe stata abolita solo nel 1962). Brancati, morto immaturamente nel 1954, non l'avrebbe mai vista. Al tempo del divieto, pubblicò il testo e vi premise un appassionato «pamphlet». Ma Bompiani, il suo editore, si defilò (lo sostituì, degnamente, Laterza), e Alberto Moravia, avanzando imbarazzate scuse, rifiutò d'introdurre il volume. Questa la libertà di cui godevano intellettuali e artisti italiani, anche i migliori, sotto il regime democristiano.

E il cinema? Nemmeno Totò sfuggì alle forbici di Andreotti (ma altri sottosegretari, e poi ministri, si avvicendarono al suo posto, con non dissimile zelo, e tra di essi, guarda guarda, l'attuale Capo dello Stato). «Totò e Carolina» di Mario Monicelli, ultimato nel 1953, apparve sugli schermi solo nel 1955, tagliato per centinaia di metri di pellicola, e con la colonna sonora manipolata. Intonavano «Di qua di là dal Piave» in luogo di un inno proletario, i lavoratori in gita su camion sovrastati da bandiere rosse (ma, essendo il film in bianco e nero, il colore non si vedeva). E la servetta (una deliziosa Anna Maria Ferrero), scortata dal buon poliziotto Totò, apostrofava un anziano compagno, riluttante a darle un sospetto aiuto, con l'espressione «Bel socialista sei!», anziché «Bel comunista». Questione di sfumature?

Aggeo Savioli, «L'Unità», 3 gennaio 1999


Sotto la bombetta del grande Totò

Uno dei film protomartiri di un certo oscurantismo vigente mezzo secolo fa resta l’innocente «Totò e Carolina» (1953-55) di Mario Monicelli, il cui purgatorio in censura si protrasse a lungo. L'ha restaurato la Cineteca di Bologna per le cure dell’infaticabile Tatti Sanguineti, animatore del progetto «Italia taglia».

Ora, nell'imminenza della presentazione del film domenica alla Mostra di Venezia, lo stesso Sanguineti firma un libro («Totò e Carolina», Transeuropa-Film, pagg. 207) dove il lettore curioso di retroscena troverà di che divertirsi: documenti, sceneggiature e testimonianze d'epoca che permettono di ricostruire l’intero fattaccio. E c’è anche il soggetto inedito di Ennio Flaiano, dove per la prima volta compare Totò in divisa da poliziotto. A proposito di Totò raccomando di non perdevi, nel ricordo di Franca Faldini, i soprannomi che applicava ai politici vedendoli in tv.

Tullio Kezich, «Corriere della Sera», 4 settembre 1999


Via i tagli della censura rivive Totò e Carolina

La prima mutilazione per la «prostituta» Anna Maria Ferrerò offerta ad un cliente. Tatti Sanguineti: «Dobbiamo ancora recuperare 15 minuti di immagini originali»

VENEZIA

Nella Sala Volpi del Palazzo del Cinema ieri è stato presentato il film di Mario Monicelli, «Totò e Carolina», reintegrato di un quarto d'ora di immagini che 45 anni fa erano state tagliate dalla censura del governo Scelba. E' il primo lavoro organico, ma non ancora ultimato, su un film, nell'ambito del progetto triennale «Italia Taglia», promosso dalla Cineteca di Bologna e dall'Anica, con l'appoggio del Dipartimento dello Spettacolo che ha messo a disposizione i verbali e i tagli della censura del dopoguerra. Il film è stato uno dei più bersagliati dalla censura che l'aveva «sequestrato» per 15 mesi e poi mutilato con 38 tagli, 83 battute modificate e gli aveva vietato qualsiasi proiezione all'estero. «La copia di "Totò e Carolina" proposta a Venezia - precisa Tatti Sanguineti, uno dei curatori dell'operazione non si può considerare reintegrata del tutto perché dobbiamo recuperare un altro quarto d'ora di tagli e modificare una settantina di battuta. In alcuni casi si tratta di modifiche ridicole: la parola "prostituzione" era stata sostituita con "sregolatezza", "peripatetica" con "svitata", "donnaccia" con "disgraziata", "vigliacca" con incosciente". Nella nostra ricerca abbiamo scoperto che per Totò il film di Monicelli è stato l'ultimo capitolo di una sua "fase" cronachistica, sociale, neorealistica, impegnata e di denuncia. E in questa fase (che comprendeva "Totò cerca casa", "Totò e le donne" e "Guardie e ladri" che ha avuto 40 tagli) è sempre stato censurato».

«In quegli anni - sottolinea Giuseppe Bertolucci, presidente della Cineteca di Bologna - la censura si imponeva di tutelare la religione, il prestigio della polizia e una certa ideologia politica. Il primo taglio di "Totò e Carolina" riguarda una scena in cui l'agente Caccavallo (Totò) e un prete cercano di affibbiare una giovane prostituta, Carolina (Anna Maria Ferrerò non ancora ventenne), ad un produttore di vini, non confessandogli che è incinta. Il secondo intervento era concentrato sulla tutela dei "celerini", in quegli anni attivi; il terzo è politico. Nella prima versione Monicelli aveva previsto un camion con operai comunisti che cantavano "Bandiera rossa", nell'edizione del '55 cantavano la canzone del Piave».

Ieri i tagli ripristinati sono stati doppiati (dal vivo) nella sala Volpi, da Carlo Croccolo, dal 1957 voce cinematografica di Totò. Oggi Carlo Lizzani presenta un «evento speciale» realizzato per la televisione. Si tratta di un omaggio a Luchino Visconti che domani sera verrà trasmesso da Rai Uno in seconda serata. «Questo programma di un'ora spiega Carlo Lizzani - nasce dall'idea di fare un grande omaggio a Luchino Visconti attraverso una ricostruzione fiction della sua vita, ma purtroppo fatti i preventivi l'opera sarebbe comunque risultata troppo costosa. Ed allora ho ripiegato su un ritratto di Visconti raccontato attraverso le dimore e i luoghi della sua infanzia, adolescenza e giovinezza».

Dopo la ressa di pubblico di giovedì scorso per assistere alla proiezione de «I vitelloni», restaurato da Mediaset, il film di Federico Fellini ieri è stato riproposto al Lido. Un'opera del '53 che fa parte del programma «Cinema forever» di Mediaset che ha già riportato alla perfezione originale 16 capolavori italiani.

Retequattro a fine settimana trasmetterà le copie restaurate di «Francesco giullare di Dio» di Roberto Rossellini, «Deserto rosso» di Michelangelo Antonioni, «La comare secca» di Bernardo Bertolucci e «Umberto D.» di Vittorio De Sica.

Ernesto Baldo, «La Stampa», 6 settembre 1999


Cambiate frasi come «Il suicidio è un lusso», «Abbasso i padroni»

«Totò e Carolina» ritorna senza tagli

Alla Mostra del cinema il film di Monicelli censurato 46 anni fa con l'accusa di aver offeso la polizia

Un poliziotto senza autorità, una ragazza sedotta e abbandonata, un parroco menefreghista, un manipolo di comunisti con tanto di bandiere rosse e pugni chiusi. Troppo per l'Italia democristiana dei primi Anni '50, epoca governo Sceiba. E così «Totò e Carolina», diretto nel '53 da Mario Monicelli, divenne uno dei bersagli preferiti della censura. Bocciato a ripetizione dalle varie Commissioni di revisione cinematografica, unanimi nel ritenerlo «offensivo del decoro e del prestigio dei funzionari e degli agenti di forza pubblica». Agenti che, per tener alto l’orgoglio nazionale, mai avrebbero potuto indossare la faccia impunita di Totò, per di più ribattezzato nel film Antonio Caccavallo.

Alla fine, per farla uscire nelle sale, la pellicola fu mutilata con 38 tagli e 23 battute furono modificate. E così i comunisti divennero socialisti, «Bandiera rossa» fu sostituita da un coro di montagna («Di qua, di là del Piave»), il grido «abbasso i padroni» con «viva l’amore». Cancellata pure la frase di Totò: «Il suicidio è un lusso, i poveri non hanno neanche la libertà di uccidersi». Insomma, dell’originale restò ben poco. «E’ stato il mio film più massacrato», ricorda Monicelli subito conquistato da quel soggetto di Flaiano.

Adesso però, 46 anni dopo, una versione inedita di «Totò e Carolina» sarà presentata il 5 settembre alla Mostra del Cinema di Venezia, presenti il regista, gli sceneggiatori Age, Scarpelli, Sonego, Anna Maria Ferrero (la Carolina del film). Merito di «Italia taglia», il progetto curato dall’Anica, dal Dipartimento dello Spettacolo, dalla Cineteca di Bologna e dal critico Tatti Sanguineti, che ha trovato in Svizzera una versione quasi integrale. Che riporterà al suo posto i militanti comunisti, «Bandiera rossa», e tutto il resto.

«Nessuno di noi che realizzò "Totò e Carolina” era comunista — rivela lo sceneggiatore Furio Scarpelli —. Se fossimo stati comunisti non avremmo rappresentato i compagni che, su un camion, la domenica vanno a farsi un’allegra scampagnata, bensì le lotte nelle officine e nei campi. Il fatto che la scena sia stata tagliata mi fa pensare che fosse ritenuta un’insidia mostrare i comunisti come della gente quasi normale, che se ne va in giro a mangiare il cocomero anziché i bambini».

Giuseppina Manin, «Corriere dell'Informazione», 6 settembre 1999


Presentata la pellicola di Monicelli che negli anni Cinquanta subì 23 minuti di tagli. Il governo Scelba volle cancellare anche la canzone «Bandiera rossa»

Totò censurato torna con la voce di Croccolo: mi chiese aiuto anche quando perse la vista

L'attore recita dal vivo le battute tagliate Assente la Ferrero: offesa dal festival

VENEZIA

Il film è appena cominciato, la retata delle passeggiatrici di Villa Borghese è in pieno svolgimento, quando appare Totò che trascina Anna Maria Ferrero: è l’agente Caccavallo che ha scoperto la timida Carolina. A lei è rivolta la prima battuta: «Su, delinquente, su su, avanti!». La voce, con il timbro inconfondibile del principe de Curtis, proviene dalla platea, dove l’attore Carlo Croccolo legge le frasi di Totò, che i censori soppressero dal film «Totò e Carolina». «Sono emozionatissimo — confessa Croccolo che recitò con Totò in "Miseria e nobiltà"—. Anche perché torno a dare la voce al mio
grande maestro: fu lui a chiedermi di doppiarlo dopo che aveva perso la vista. Nei "Due marescialli" doppiai anche De Sica».

Ieri, nell’angusta Sala Volpi, si presentava la copia «integrata» di «Totò e Carolina», il film di Mario Monicelli che, pronto nel 1953, uscì solo nel marzo 1955, massacrato da crudelissimi interventi. Copia lavoro, spiegava Giuseppe Bertolucci direttore della Cineteca di Bologna, perché la ricerca dei materiali espunti dai censori non è ancora terminata: la pellicola subì tagli per ventitré minuti e in molti altri punti il sonoro venne alterato. Tra i casi clamorosi, uno oltrepassa le soglie del ridicolo: sul camion con le bandiere rosse i comunisti cantavano «Bandiera rossa», nella copia che uscì in sala si ascoltava «Di qua, di là dal Piave».

Tatti Sanguineti, curatore del volume «Totò e Carolina», appena pubblicato da Transeuropa, e animatore del progetto «Italia taglia», racconta le peripezie di questa riscoperta: «Dalla Cinématheque di Losanna avevamo recuperato una copia sonora con meno tagli di quella abitualmente vista, poi, pochi giorni fa, alla Cineteca di Roma, è saltato fuori il negativo di un’altra copia, ancora più vicina a quella originale, però muta. Quella proiettata a Venezia nasce dall’assemblaggio fra le due, e Croccolo ha integrato con la sua voce il Totò perduto».

Lo sceneggiatore Rodolfo Sonego ricorda: «Con Monicelli eravamo giovani, forse incoscienti, credevamo di poter parlare liberamente di polizia, istituzioni, religione. Preoccupato, il produttore Carlo Ponti fece un’anteprima per soli preti: che risero tanto, ma questo non bastò ai censori democristiani del governo Sceiba». Ma quello non fu il solo film di Totò a essere scempiato: tutte le commedie di cronaca (da «l sette re di Roma» ad «Arrangiatevi!» fino al «TuttoTotò» Rai, rimasto incompiuto per la morte del comico) furono duramente ritoccate. Per il timore dei politici di essere sbeffeggiati. Del resto, come ricorda la vedova Franca Faldini nel libro curato da Sanguineti, Totò in casa se la rideva di presidenti ministri e capi-partito. da Gronchi ribattezzato «Piede 'e papera», ad Andreotti «l’Aspirante sagrestano» fino a Berlinguer, «Stanlio».

Protagonista femminile, Anna Maria Ferrero. Non invitata, è rimasta a Parigi dove vive da anni. «Andrò a Roma, alla proiezione con Monicelli. A Venezia si sono comportati da maleducati con me».

Ranieri Polese, «Corriere della Sera», 6 settembre 1999


Teatro - Nicola Fano

Da Totò a Eduardo: i tesori nascosti dalla censura

C'è chi denuncia con allarmismi fuori luogo la perdita della memoria e chi invece lavora e va curiosando con intelligenza negli archivi. C'è chi si intestardisce a rivisitare e fare ipotesi assurde o meno sugli ultimi giorni di Mussolini e chi del ventennio vuole scoprire tracce meno visibili ma più influenti, capaci di parlarci davvero di atmosfere e situazioni. Nicola Fano è di questi ultimi. Da anni lavora su quel mondo tanto emblematico della rivista, del varietà, dell'avanspettacolo, ricerca e ricostruisce, scopre e racconta. Ora, dopo aver sentito casualmente parlare del ritrovamento dei faldoni della censura teatrale, è riuscito in anteprima a consultarli all'Archivio di Stato e cercarvi le avventure dei nostri comici, dai De Rege ai Maggio, dai De Filippo a Totò, dal romano Aldo Fabrizi al triestino Angelo Cecchelin.

Le sorprese non mancano e sono di quelle che suscitano curiosità, accanto alla ricostruzione di una realtà minore ma esemplare. Nel filo che unisce l’italietta giolittiana a quella fascista, e questa al successivo potere democristiano, rivela come il gusto e la cultura potessero giocare un proprio ruolo, impensabile in altri regimi.

Leopoldo Zurlo, prefetto, fu nominato capo dell'Ufficio per la censura teatrale preventiva istituto con la legge 599 del gennaio 1931. Uomo di letture classiche - annota Fano - appassionato di teatro, preoccupato di non apparire troppo zelante agli occhi dei teatranti né eccessivamente morbido a quelli dei fascisti, dopo la guerra, nel '52, scriverà le proprie Memorie inutili, dedicandole a Andreotti che, sottosegretario allo spettacolo e coordinatore per la censura teatrale nel primo governo De Gasperi, l'aiutò.

Ma veniamo alle sorprese, sistemate in vari capitoli dopo un'introduzione storica che cerca di mettere finalmente ordine nel passaggio dal Café Chantant all'avanspettacolo in sale cinematografiche. Cecchelin, per esempio, fuori Trieste, dove qualche anno fa gli dedicarono anche uno spettacolo, è poco noto. Eppure fu un uomo contro, un liberale anarchico a suo modo, feroce nelle sue battute col fascismo come poi col potere del dopoguerra, processato prima e dopo la Liberazione, sempre però censurato con la scusa della sua libertà nel riferirsi al sesso.

Censurato da Zurlo fu pure il primo Fabrizi, di cui furono tagliati o respinti cinque copioni inediti tra il ‘35 e il ‘37 ritrovati da Fano, che vi ravvisa un'anticipazione non casuale dei temi del neorealismo post bellico.

Non fu invece respinta la parodia di Al Capone creata da Totò nel suo inedito Covo Al Gallina, inserito nel copione della rivista Cinquanta milioni c'è da impazzire del ‘38. Il suo gangster è uno scemo italoamericano all'ennesima potenza, di quei geniali cretini cui solo Totò sapeva dar vita e senso, che parla storpiando tutte le parole, provocando così equivoci e doppi sensi. Questi racconta una maldestra rapina divagando e dando un misero ritratto della proprio banda.

Il primo lavoro esaminato dalla neonata censura fascista fu Ogni anno punto e da capo di Eduardo, di cui, nella busta 111 dell'Archivio, è tra l’altro conservato il manoscritto originale di De Filippo con visto del 5 agosto 1931 compilato a mano da Zurlo, poiché non era ancora stato approntato il timbro ufficiale, che apparirà sui copioni più avanti. Di Eduardo, Titina e Peppino, oltre a loro collaboratori come Maria Scarpetta, Fano ha ritrovato anche 17 copioni, tutti in dialetto napoletano, di cui si avevano notizie, ma che sono nella maggioranza del tutto inediti. E L'autore assicura che in quei Faldoni in via di catalogazione c'è una vera miniera di altre curiosità e testimonianze.

Paolo Petroni, «L'Unità», 1 novembre 1999


015 Napoli milionaria

Sesso e politica gli argomenti tabù. E' in uscita un libro-documento sulla campagna di sospetti e persecuzioni che colpì l'attore dagli anni '50

Totò, il governo e le forbici della censura

«Si tagli!»: così sparirono le gag del principe della risata. De Gasperi diventò Bartali

Ercole Pappalardo, impiegato statale con famiglia numerosa. rischia il licenziamento: l’odioso superiore ha scoperto che non ha la licenza elementare. Se non passa l'esame perderà il posto. Così, eccolo presentarsi alla commissione. Gli domandano di nominare un pachiderma, lui resta muto. Il presidente compassionevole gli mima una proboscide. Pappalardo s’illumina e risponde: «De Gasperi!» pensando al gran naso del presidente del Consiglio. Italia 1952: la gag contenuta nella sceneggiatura del film Totò e i re di Roma, scritta da Mario Monicelli e Steno che firmano anche la regia. non arriverà mai sullo schermo. Gli spettatori udranno invece. come risposta. «Bartali!».

Non fu quello il solo intervento riservato dalla censura al film, che a più di un anno dall’inizio delle riprese uscirà fortemente mutilato e cambiato. Il punto più scabroso per i censori era il suicidio dell'impiegato che spera, dall’Aldilà, di mandare i numeri del lotto alla moglie. Produttori e registi dovranno accettare di far passare la storia per un sogno; il Paradiso, poi. diviene l’Olimpo e il dialogo fra il defunto Pappalardo e l'Onnipotente («chi più truffa più è rispettato. chi più mena più ha ragione, e gli imbroglioni i mascalzoni i delinquenti i farabutti sono quelli che comandano») viene cassato per intervento dello stesso sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giulio Andreotti. Un anno dopo il già tartassato Guardie e ladri (Steno e Monicelli: l'immagine di Fabrizi, agente di Ps che fraternizza con un ladruncolo sembra inaccettabile) comincia nei confronti di Totò una campagna di sospetti e di persecuzioni. Che si appunteranno su due temi: il sesso e la politica (che comprende non solo le battute su onorevoli e ministri, ma anche la rappresentazione comica o troppo umana delle forze dell’ordine, dei magistrati ecc. ).

«In realtà — dice Alberto Anile, autore di Totò proibito che esce in questi giorni da Lindau — l’offesa al comune senso del pudore serve spesso da paravento per più decisi interventi su temi propriamente politici. Un esempio: di Sua eccellenza si fermò a mangiare, un tardo film di Mattoli. 1961, che già si doveva chiamare E il ministro si fermò a mangiare, viene molto tagliata la visita che Totò, finto medico del Duce, fa alla coni ad inolia opulenta. Ma intanto scompaiono tutte le battute sui ministri ladri («Se è ministro, per forza!»)». Così, ne I tre ladri (1954) si taglia Simone Simon discinta sul letto, ma parte anche la scena finale di giudici e poliziotti che si tuffano a raccogliere i soldi lanciati dal ladro impunito. Di Totò all'inferno, 1955, si alleggerisce la scena della seduzione di Fulvia Franco ma cade anche la battuta del diavolo: «E’ un onorevole, dallo in pasto agli elettori». E nello stesso anno Siamo uomini o caporali viene sforbiciato sia nelle immagini di «signore nude, indossatrici semisvestite» ma anche di frasi come: «questi ministri (...) sono brutti, brutte espressioni brutti visi»; o anche: «si stava meglio quando si stava peggio».

Contenuta già nella legge del 1923, la censura è assunta dall'Italia repubblicana senza grosse modifiche rispetto a quel testo. Ma in più entra in uso la prassi, peri produttori, di consegnare le sceneggiature già prima dell'inizio delle riprese. Questo dovrebbe consentire ai funzionari di indicare subito eventuali cambiamenti, ed evitare la bocciatura a film ultimato. Il cinema e lo spettacolo, in assenza di un ministero, fanno capo alla presidenza del Consiglio e, per delega, al sottosegretario. Giulio Andreotti riveste questo ruolo nei governi De Gasperi dal 1947 al ’53. Lavora alla rinascita della cinematografia nazionale («dobbiamo incoraggiare una produzione sana, moralissima e nello stesso tempo attraente»), anche se il suo nome resterà legato ai «panni sporchi» che il neorealismo, e De Sica in particolare, avevano secondo lui il torto di esporre in pubblico. I primi guai, Totò e i suoi film li passano sotto Andreotti: di certo, per i censori il comico surreale e burattino che si cala nei problemi sociali della ricostruzione non va bene. Totò non è, non è mai stato di sinistra: però — si ragiona così nelle commissioni censura — certi registi ( Monicelli) e certe tematiche populiste possono trasformarlo in una pericolosa arma di critica al governo. Così, quando dopo varie traversie i film ottengono il nulla osta, sono spesso bollati con il divieto ai minori di 16 anni (e contemporaneamente dal giudizio «Escluso» del Centro Cattolico Cinematografico).

Il culmine dell’accanimento si registra nel ’54, per Totò e Carolina di Mario Monicelli. La strana coppia formata dal poliziotto buono e dalla ragazza incinta scappata di casa eccita i più efferati interventi che. dopo un anno e mezzo di battaglie, audizioni, polemiche, arriverà nelle siile con oltre venti minuti in meno e un'infinità di cambiamenti nelle parti parlale. Di questo film, il caso monstre dei nostri anni ’50, si era occupato Tatti Sanguineti che nel 1999 presentò a Venezia i risultati delle sue ricerche. «Faceva parte del progetto "Italia Taglia" nato due anni prima» spiega Sanguineti. «Una esplorazione sulla censura in Italia, una ricostruzione della storia proibita del cinema italiano. Che oggi, dopo una interruzione, può riprendere grazie a un nuovo finanziamento ministeriale».

Il ’54 però vede un cambiamento di ruoli. Quell'anno al posto di Andreotti subentra Oscar Luigi Scalfaro, certo meno addentro alle cose del cinema. E che forse, insinua Alberto Anile. aveva ancora il dente avvelenato con Totò. Tutto per via della lettera all'Avanti che il comico mandò dopo  l'episodio (1950) della signora Toussan, apostrofata dall'onorevole come "donna disonesta" perché in un locale pubblico esponeva spalle e braccia scoperte. Sfidato a duello dal padre e dal marito della donna, Scalfaro si rifiutò in nome del «sentimento cristiano». E il principe Antonio Focas Comneno De Curtis, in quella lettera, gli impartì una lezione di cavalleria.

Dal ’54 al '62, anno della nuova legge sul cinema (che introduce due divieti ai minori di 14 e di 18 anni, e apre le commissioni di censura ai rappresentanti delle categorie dello spettacolo), i guai di Totò si moltiplicano. Si creano problemi per I soliti ignoti (titolo originario, bocciato, Le madame), per I due marescialli, per Chi si ferma è perduto. Prevedibili difficoltà incontra Arrangiatevi! girato in una ex casa chiusa. Ma l’episodio più bizzarro tocca a Totò Peppino e la dolce vita (1961) che sconta, insieme, gli ultimi rigori della vecchia legge e le vendette dei censori che nulla avevano potuto fare contro il film di Fellini. Cadono fotogrammi di feste, si cancellano battute sui ministri che deviano l'autostrada per contentare i propri elettori, si cassano allusioni alle «polverine», i giochi di parole con i Proci. Insomma, un'ecatombe.

Totò, ormai quasi cieco del tutto, assillato dalle tasse, si appresta a girare le cose più alte della sua carriera: con Pasolini fa Uccellacci uccellini e i due episodi. Il mondo visto dalla luna e Cosa sono le nuvole. Potrebbe accomiatarsi sereno, se non fosse per l'ultimo spregio che viene dalla Rai-Tv che, nel fargli confezionare gli episodi di un TuttoTotò (1967), toma a vessarlo con assurdi tagli e rigidissime censure. E pensare che lui sulla televisione aveva sempre avuto dei sospetti, almeno da quando. 1958, durante una puntata del Musichiere. gli era scappato un «Viva Lauro!» che gli costò un lungo ostracismo. Conservatore, aristocratico, monarchico e qualunquista si era trovato a far la parte del sovversivo per troppi anni. Oramai, era veramente tempo di chiudere.

Ranieri Polese, «Corriere della Sera», 28 gennaio 2005


I FILM DEL GENIALE COMICO SEVIZIATI DAI TAGLI. MA QUALCHE VOLTA E' STATO UN BENE

Totò, non tutta la censura vien per nuocere

Frasi «offensive della morale e della pubblica decenza», «offesa al decoro e al prestigio dei funzionari e degli agenti di forza pubblica», «gravemente offensivo del sentimento religioso». E poi: «situazioni e battute improntate a una volgarità alquanto smaccata», addirittura «scene e sequenze che possono turbare il normale sviluppo dell'età evolutiva». In definitiva: «è innegabile il cattivo gusto, la grossolanità, la estrema scabrosità». Vilipendio. Blasfemia. Dio perdoni. Non è uno scherzo. Sono le vere osservazioni, nero su bianco, della vera censura che mezzo secolo fa, anno più anno meno, flagellava senza pietà i film di Totò.

Una «storia puntigliosa e grottesca dei rapporti tra il principe De Curtis e la censura» è ricostruita da Alberto Anile in Totò proibito (Lindau, pp. 231, Euro 18,50), un libro molto piacevole e documentato, con una quantità di informazioni anche sull'uomo e sulla sua arte. Gli occhiuti custodi dell'ordine stabilito, e della moralità di facciata, imponevano tagli e aggiustamenti, e quando non bastava calavano la mannaia, commercialmente devastante, del divieto ai minori (di 16, poi, dopo la nuova legge sul cinema del 1962, di 14 o 18 anni). «Malthusiani del cinema», li definiva Cesare Zavattini, osservando che «l'intolleranza sta sospingendo gli artisti lontano dalla partecipazione alla storia in atto del nostro paese». Accadde anche Totò, almeno in parte. Perché nel clima di normalizzazione post '48 ogni attentato all'ottimismo ufficiale riusciva politicamente sospetto, e anche il comico più popolare del momento era bene lasciasse perdere certi temi «molesti», come la penuria di abitazioni o la miseria diffusa, a cui era sospinto dai registi della nuova generazione.

Ma, proprio per questo: è poi così sicuro che le tremebonde sollecitudini censorie, tra una sforbiciata alla scollatura troppo generosa e un'altra alla battuta intollerabilmente audace, non sortissero pure, alla fine, qualche paradossale effetto benefico, depurando la vena eversiva e surreale del comico da certa farragine (neo)realistica? Ovviamente, si tratta di scegliere: se Totò sia «soltanto» un attore - un grande attore - della sua epoca, o non piuttosto un geniale dinamitardo che si è assunto il meritorio compito di far saltare le nostre certezze, polverizzare le convenzioni, scardinare le realtà consohdate e lo stesso linguaggio, restituendoci alla fluidità problematica della vita. Da questo punto di vista, forse, anche la «grottesca» vicenda della censura può essere riconsiderata, al di là della scontata deprecazione. Il caso più noto riguarda un film girato alla fine del '53 da Mario Monicelh, Totò e Carolina. Qui il Nostro è un agente di P.S. che deve ricondurre al paesello natio una giovane disperata, improvvisata prostituta e aspirante suicida, presa durante una retata. Ma non sono le tematiche dell'amore mercenario a cadere sotto la lente d'ingrandimento degli zelanti funzionari di Palazzo Balestra, sede della Commissione di censura: in un'Italia scossa dalle polemiche sul caso Montesi, dal massacro poliziesco dei manifestanti di Mussomeli, dall'uccisione in carcere di Gaspare Pisciotta, dall'arresto di Giovanni Guareschi in seguito alla querela di De Gasperi, dall'arresto del critico cinematografico Guido Aristarco per vilipendio delle Forze Armate, la preoccupazione principale dì Scelba - già ministro dell'Interno, presidente del Consiglio dal febbraio '54 al giugno '55 - è quella di tutelare sempre e comunque l'onorabilità dei suoi celerini evitando ogni possibile rappresentazione men che positiva. Anche così si spiega l'accanimento senza precedenti verso il film, la cui protagonista ricorda un po' troppo la povera Wilma Montesi (con il rischio di evocare le polemiche sul ruolo avuto nella vicenda processuale dal capo del governo) e in cui Totò porta in scena un poliziotto non proprio «tutto d'un pezzo».

E la vendetta del paese ufficiale con chi si è intestardito a scherzare con il fuoco: tanto più evidente in quanto altri film non meno «scollacciati» (per l'epoca), ma meno scottanti politicamente, ottengono senza problemi il nulla osta. Dopo una travagliata vicenda durante oltre un anno, tra primo e secondo grado, ricorsi rimaneggiamenti tentativi di accordo, il 2 marzo 1955 Totò e Carolina arriva finalmente nelle sale. Ma non è più quel che si voleva all'inizio. Una risposta della ragazza, «sono abituata a mangiare quello che avanza ai padroni» è diventata un meno pohticamente impegnativo «mangiavo quello che mi davano»; dell'osservazione di Totò che «il suicidio è roba da ricchi» non resta traoda; il canto Bandiera rossa intonato da un gruppo di lavoratori è stato sostituito con il vecchio inno partigiano Di qua e di là dal Piave; un anziano comunista che grida «Abbasso i padroni» diventa un socialista che grida «Viva l'amore! Viva la libertà!». Certo il film ha perso efficacia polemica: ma, anche senza questi aggiustamenti, sarebbe rimasto uno dei più comicamente infelici nella produzione di Totò. Lo stesso Monicelli, in seguito, si pentirà di avergli fatto indossare la camicia di forza del neorealismo. È davvero quello il Totò più autentico, quello che d parla ancora oggi, che d fa ridere, e d fa pensare? Da una pellicola all'altra, le preoccupazioni dei censori si moltiplicano. E i film si trasformano, tra la preventiva consegna della sceneggiatura all'Ufficio centrale per la cinematografia, presso la Presidenza del Consiglio, e i diversi interventi censori, più o meno istituzionali.

In Totò, Peppino e la dolce vita, diretto da Sergio Corbucci alla fine del 1960, cadono le battute sui droga-party e sui piani regolatori «accomodati», la satira del sindacalista die pensa agli interessi propri, i giochi di parole su una «preghiera» di raccomandazione fatta in un «luogo di preghiera». In Totò e ire di Roma (Steno e Monicelli, 1952) si ; attenua la caricatura della burocrazia romana e del travettismo, scompaiono gli accenni scettici alla Patria, il «De Gasperi!» scappato di ; bocca al comico come esempio di proboscidato viene sostituito da : «Bartali!» (battuta ridoppiata da \ una voce palesemente diversa). ; L'ambiente ministeriale di Chi si ferma è perduto (Corbucci, 1961), per non offendere nessuno, diventa un fantomatico Ente Nazionale Trasporti.

E si modificano i titoli: per non indurre troppo facili accostamenti al presente, nonostante la collocazione ai tempi del fascio, E il mìnistro si fermò a mangiare diventa Sua eccellenza si fermò a mangiare (Mattoli, 1961); Le madame, come venivano chiamati i poliziotti nel gergo della malavita, diventa I soliti ignoti (Monicelli, 1958); mentre del film I due marescialli (Corbucci, 1961) si conserva soltanto il titolo e tutta la trama viene completamente stravolta. E poi: aggiunte posticce di commentini moraleggianti, vod fuori campo per riassumere qualche cosa che in scena non si vede (più), decine e centinaia di metri di pellicola eliminati, fino al 2000 del totale inizialmente dichiarato. Tutti volevano dire la loro: l'inflessibile capo divisione Annibale Scicluna, il direttore generale dello Spettacolo Nicola De Pirro, ex squadrista, i sottosegretari allo Spettacolo Giulio Andreotti e in seguito Oscar Luigi Scalfaro, prelati di varia levatura, per il tramite del Centro cattolico cinematografico, comitati vari di benpensanti, in un caso perfino i profughi istriani, offesi per una parte marginale di Arrangiatevi (Bolognini, 1959). Pressati dalle sollecitazioni esterne, i film di Totò diventano un'opera aperta, in cui il Genio comico fatica a farsi strada. Ma alla fine viene fuori dalla prova, vincente e più puro. Almeno nel suo caso, e certo non sempre, non tutta la censura vien per nuocere.

Per una sorta di eterogenesi dei fini, assieme a gag che dovevano risultare irresistibili e che purtroppo possiamo soltanto immaginare, come la giaculatoria in latino maccheronico di Totò, Peppino e la dolce vita («Prego vobiscum eccellenzia vostra prò sistemazione mea, ora prò nobis»), sotto i colpi della censura cade anche, altrove, qualche pistolotto intrìso di un patetismo di maniera. Citiamo soltanto un caso, da Totò e i re di Roma (Steno e Monicelli, 1952); «chi più truffa più è rispettato, chi più mena, più ha ragione, e gh imbroglioni, i mascalzoni, i delinquenti, i farabutti sono quelli che comandano e i poveracci come me devono sempre abbozzare». Onestamente, possiamo dire di averci perso qualcosa? Ripensando a certe tirate che invece sono rimaste, per esempio in Dov'è la libertà...? (Rossellini, 1954) o Siamo uomini o caporali (Mastrocìnque, 1955), viene quasi da rimpiangere che i censori abbiano tenuto le forbid a posto.

Maurizio Assalto, «La Stampa», 17 febbraio 2005



Totò, Carolina e la censura: il mistero degli 82 tagli

Perché tanto accanimento contro il film che Mario Monicelli cominciò a dirigere nel settembre del 1953, ma che riuscì ad arrivare sugli schermi solo nel marzo 1955, continua a restare un mistero. È vero che la Rosa Film, la società produttrice di proprietà di Carlo Ponti, ma gestita dal marchese Altoviti, non aveva voluto chiedere il «giudizio preventivo» sulla sceneggiatura (pratica andreottiana che di fatto equivaleva a un vaglio censorio sul film prima ancora che si iniziasse). È vero che il celerino interpretato da Totò non aveva certo la statura dell' eroe, ma piuttosto quella del «povero fesso» (come ribadisce anche l' ultima battuta del film) che finisce dentro a un ingranaggio più grande di lui e che cerca di cavarsela alla meno peggio, chiedendo ora una mano ai manifestanti comunisti (per trascinare la sua camionetta fuori da una scarpata), ora a un ladro (Maurizio Arena, non ancora povero ma bello).

Ma la storia dell' agente «dell' Urbe» Caccavallo Antonio che deve ricondurre a Poggio Falcone l' infelice Carolina, arrestata a Villa Borghese e decisa a togliersi la vita perché incinta di un mascalzone che l' ha piantata, non sembra certo uno di quei soggetti così anticonformisti da scatenare le ire della censura. Eppure il film fu davvero massacrato, togliendo battute e allusioni (come quella sui poveri che non hanno nemmeno la libertà di suicidarsi «perché è roba da ricchi»), «obbligando» un gruppo di manifestanti a non cantare «Bandiera rossa» ma «Di qua, di là del Piave» e sostituendo il troppo nostalgico «dell' Urbe» con «di Roma». L' edizione in dvd della FilMauro rende finalmente disponibile il lavoro filologico fatto da Tatti Sanguinetti e dalla Cineteca di Bologna che hanno ricostruito la versione originale prima degli interventi censori, praticamente battuta per battuta e scena per scena. Manca solo, rispetto al testo pubblicato da Sanguinetti all' interno della ricerca Italia Taglia, la lunga scena con il parroco e il sor Torquato, che però Monicelli sostiene di aver tagliato per ragioni di ritmo. Peccato che l' assoluta mancanza di extra o di testi di spiegazione renda d' impossibile comprensione per il pubblico normale un lavoro di ricostruzione filologica davvero straordinario.

Paolo Mereghetti, «Corriere della Sera», 17 marzo 2008


Quando la censura metteva al bando le beffe del principe

Totò e Carolina integrale: subì 82 tagli

Ottantadue tagli per ventitré minuti in meno di pellicola, un anno e mezzo privo di visto censorio, nessuna distribuzione nelle sale, e cinque anni di veto all’estero in quanto il film avrebbe potuto ingenerare «errati dannosi apprezzamenti sul nostro paese». È la sorte toccata a «Totò e Carolina», girato da Mario Monicelli nel '53 — soggetto di Ennio Flaiano — e che racconta le peripezie dell’agente di Pubblica sicurezza, Antonio Caccavallo (Totò) incaricato di riaccompagnare al proprio paese Carolina (una giovanissima Anna Maria Ferrerò), incinta e con alle spalle un tentato suicidio al commissariato. Il film è per la prima volta in edicola nella versione senza tagli. Merito del restauro effettuato su una copia del film, vicina a quella originale, trovata, una decina d’anni fa, alla Cineteca di Roma.

Ma perché censurare Totò? «È il destino di tutti i grandi comici dell’epoca, da Aldo Fabrizi a Macario a Nino Taranto, che non risparmiò neppure Totò, il quale, con la censura, aveva già avuto a che fare ai tempi della rivista, in pieno regime fascista», risponde il critico cinematografico Goffredo Fofi, autore, con Paolo Mereghetti, della parte scritta della collana del Corriere dedicata al principe della risata. «Bisogna risalire a Leopoldo Zurlo, tra i più grandi censori teatrali, il quale racconta come Totò arrivasse nel corso dei suoi monologhi a ironizzare perfino sul severo divieto fascista del Lei al posto del Voi — osserva Fofi — a tal punto da costruire una gag su Galileo Galilei trasformato in Galileo Galivoi». In platea non poteva mancare il solito gerarca, serio, pignolo e in orbace: per Totò scattò subito la denuncia.

Lo stesso Fofi ricorda di avere trovato, scartabellando fra storici e polverosi faldoni censori, il fascicolo di quel procedimento, per fortuna «graziato» addirittura da Benito Mussolini, estimatore di Totò, con il commento lapidario: «Fesserie». Se capitava di saltare il fossato — Totò e Carolina sarà considerato «offensivo del decoro e del prestigio dei funzionari e degli agenti della forza pubblica» — si rischiava di restare comunque al palo: un progetto non realizzato e con tanto di processo alle intenzioni. «Nei primi anni '50, guai a toccare, anche solo a parole, il perbenismo nazionalista — aggiunge Fofi —. Renzo Renzi, per esempio, tra i più grandi critici cinematografici, quando scrive L'Armata s’agapò", storia dell’invasione italiana in Grecia («s’agapò», «ti amo» in greco, era il modo con cui gli abitanti della Grecia chiamavano gli italiani occupatoti, n.d.r.), pubblicandola sulla rivista Cinema nuovo di Guido Aristarco, è accusato di vilipendio alle forze armate e condotto, insieme allo stesso Aristarco, nel carcere di Peschiera».

Rischi e imbarazzanti punizioni sfiorate da Totò in tutta la sua carriera. «Un attore coraggioso, Totò, basta andare a leggersi i suoi copioni teatrali finiti sotto l’occhio della censura», dice il critico: «Un episodio su tutti: gli americani sono sbarcati ad Anzio, ma Roma è ancora occupata dai nazisti, quando Totò, alla fine di un suo spettacolo, si presenta con una sedia sul palco e inventa la scenetta di un uomo ansioso che guarda sempre l’orologio come se stesse aspettando qualcuno, facile il rimando agli americani». Il coraggio della battuta ritorna in Totò a colori, — conclude Fofi — «facile intravedere nell’onorevole Trombetta il tipico politico democristiano», in Totò cerca casa l’eterno problema dell’alloggio nell’Italia del Dopoguerra, o «negli appetiti sessuali simboleggiati nella battuta "Pesce democristiano", perché l’animale che nuota nell’acquario ostacola la visione della donna nuda nel film Fifa e arena».

Peppe Aquaro, «Corriere della Sera», 18 ottobre 2008



Censura 1946

Censura e morale nel cinema e nello spettacolo

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SEQUENZE - QUADERNI DI CINEMALa Chiesa e il cinema La Chiesa e il cinema PRESENTAZIONE Quali sono i rapporti fra il cinema e la religione cattolica? Esiste una cinematografia ispirata ai…
«Sequenze - Quaderni di cinema», anno II, n.7, marzo 1950
20

Leonardo Azzarita, «Epoca», a.III, n.70, 9 febbraio 1952


I primi passi della censura cinematografica in Italia (1913 - 1921) di Marco Grifo

Il 31 maggio 1914 con regio decreto firmato dal Presidente del Consiglio Salandra, veniva approvata la Legge Facta, con la quale veniva istituito l’ordinamento censorio. L’introduzione di questa legge, e la sua conseguente applicazione, sviluppa un dibattito intenso nella stampa cinematografica dell’epoca, la quale affronta il tema sotto un duplice aspetto: se da una parte si reputa opportuna la decisione di vietare film diseducativi , dall’altra la rigidità della censura viene accolta dubbiosamente. Ed è proprio quest’ultimo parere quello che più si abbraccia nella critica cinematografica, concordando su quanto l’istituzione fosse fallimentare poiché attentava a una fiorente attività industriale con la complicità di uno Stato miope. (cinecensura.com)


Prevenire è meglio che tagliare. La precensura nel cinema italiano di Enrico Gaudenzi

Il secondo dopoguerra è considerato uno dei momenti d’oro del cinema italiano. Nonostante i successi internazionali e il rilancio economico del settore, reso possibile dai provvedimenti contenuti nella legge del 1949 (meglio nota come “Legge Andreotti”) il futuro Presidente del Consiglio è fortemente criticato per la durezza della pratica censoria. La censura preventiva diviene in quegli anni l’arma più forte ma contemporaneamente anche la meno plateale tra quelle a disposizione della Direzione Generale.

Fonte: www.cinecensura.com


La censura cinematografica in epoca fascista di Roberto Gulì

Il fascismo eredita dall’Italia giolittiana i principali strumenti per esercitare la “vigilanza” sulle pellicole cinematografiche, lasciando sostanzialmente immutato il sistema delle commissioni di revisione per il rilascio del nulla osta. I successivi provvedimenti legislativi e la creazione, nel 1934, del Sottosegretariato di Stato per la Stampa e la Propaganda, portano a modificare la natura e il ruolo delle commissioni e ad ampliare le funzioni della censura cinematografica, che si appresta a divenire un organo pienamente funzionale alle esigenze del regime. Dall’azione della censura emergono, da un lato, la continuità con l’età liberale nell’opera di revisione delle pellicole italiane ed estere, dall’altro, alcune tendenze peculiari dell’epoca fascista, quali la guerra alle ideologie nemiche, la preoccupazione per la difesa dalle culture straniere e per la salvaguardia dell’italianità, l’ostilità verso le rappresentazioni realistiche della società e dello stesso regime fascista.

Fonte: www.cinecensura.com


La rivista vanta un’eredità di titoli che sono diventati altrettanti punti di riferimento: Strade, Bottega 900, Marionette, che sanziona, per citarne soltanto alcuni. Gli occhi del colto censore del regime, il napoletano prefetto del Regno Leopoldo Zurlo, sempre vigili sui copioni sottoposti all’esame per l’obbligatorio visto di autorizzazione, spesso si chiudono per aiutare l’autore sotto esame a modificare qua e là il testo, per evitare le allusioni più pesanti, e quando Zurlo può, senza appiattire eccessivamente la satira.

Anche se nelle varie piazze i questori - fidarsi è bene, non fidarsi è... meglio - mandano regolarmente un funzionario a verificare l’aderenza del copione all’interpretazione dei comici e, spesso, usano metri diversi da quello dello stesso censore, in caso di “avvertite inadempienze”. Che si traducono, nel migliore dei casi, in convocazioni in ufficio per ammonimenti, quando non determinano tagli di battute o di intere scene e, come avviene spesso, non provocano il ritiro del copione e, di conseguenza, lo scioglimento della compagnia.

Un episodio che riguarda un bravo cantante, Carlo Todini in arte Leo Brandi, e il suo rapporto con la censura, viene riferito proprio dal figlio dell’artista, Alfonso.

«Mio padre era un artista di varietà, popolarissimo alla sua epoca, uno dei beniamini del pubblico napoletano, in seguito ignorato e dimenticato da certi improvvisati storici della canzone napoletana. Papà diceva: sono un artista e la politica la devo ignorare, non sono iscritto al partito e ho altri argomenti per far ridere il pubblico. Se avesse osato ricorrere alle volgarità ed ai gesti degli attuali grandi del teatro, lo avrebbero mandato al confino.

La censura era vigile e purtroppo anche Leo Brandi, in buona fede, cadde nelle sue maglie. Papà era famoso per le sue parodie ed all’epoca era in voga una canzone Addio Juna che ben presto divenne Addiune. La cosa non sfuggì al censore e un bel giorno papà fu convocato in questura, mai pensando al perché. Una volta lì fu festosamente accolto da funzionari e agenti; dopo poco fu ammesso alla presenza del questore. Mi pare fosse napoletano e si chiamasse Cella.

Il questore, sulle prime, assunse un atteggiamento severo - recitava anche lui - e poi disse: vedete. Brandi, ci risulta che voi vi esibite in una parodia della canzone Addio Juna e dite: io canto “addiune”. Sapete, di questi tempi, siamo in guerra, e queste allusioni potrebbero turbare la gente. Cerchiamo di evitare.

Dopo questo richiamo, ripresosi prontamente, mio padre rispose: signor questore, voi siete napoletano e in napoletano come direste la frase “io canto addio Juna”? Il questore, di botto: “io canto addiune”. Naturalmente, dopo l’imbarazzo del momento, finì in risate e in tanti caffè e in vogliamoci bene».


La censura cinematografica nel 1943-1946 di Roberto Gulì

Tra il 1943, anno dello sbarco degli Alleati in Sicilia, e il primo dopoguerra la censura cinematografica segue le sorti del paese e si ritrova anch’essa spaccata a metà. Il sud Italia passa in mano agli anglo-americani e il settore cinematografico, così come gli altri mezzi di comunicazione italiani, passa sotto la gestione dello Psychological Warfare Branch (“Divisione per la guerra psicologica”), bloccando tutti i film italiani di chiara opera fascista e promuovendo la diffusione di film di produzione alleata. Il nord Italia rimette in moto, nella Repubblica di Salò, la censura “fascista”, che, nonostante la debolezza istituzionale, persevera nella linea seguita durante il Ventennio. La liberazione di Roma, nel 1944, se da una parte segna un ripristino del regolare funzionamento della revisione cinematografica e un graduale disimpegno anglo-americano, dall’altra mette in luce il problema dell’“epurazione”. Le pellicole italiane dell’epoca fascista, con i nomi di alcuni cineasti, artisti e dirigenti, vengono respinte o condizionate.

Fonte: www.cinecensura.com


Il cinema “vietato ai minori” tra petizioni popolari e commissioni censura di Franco Grattarola

Il cinema “vietato ai minori” degli anni ’60 e ’70. Il mondo benpensante italiano reagisce con numerose e spesso folkloristiche petizioni e campagne moralizzatrici. Non si fanno attendere le commissioni di censura, gli interventi di integerrimi procuratori e di ministri pignoli e zelanti, su opere “scandalose” come Rocco e i suoi fratelli, L’avventura, Blow-up, Bella di giorno. Ed è proprio dalle ceneri di questo pregiato cinema autoriale e della maggiore liberalità delle commissioni di censura che il panorama cinematografico, dagli anni ‘70 in poi, viene invaso da pellicole che da erotiche diventano pornografiche.

Fonte: www.cinecensura.com


La revisione cinematografica e le riedizioni: modifiche e ritocchi di Maurizio Negri

Con la legge n. 938, del 20 dicembre 1949, si stabilisce che ogni filmato destinato alla proiezione in pubblico sia soggetto a nulla osta rilasciato tramite decreto ministeriale, secondo le norme stabilite dalla legge n. 161, 21 aprile 1962, che prevede (oltre alla possibilità di diniego per ogni tipo di spettatore) eventuali limitazioni per i minori di 14 o 18 anni (16 con la vecchia normativa). Naturalmente per tutte le opere incorse in provvedimenti limitativi si prevede la possibilità di appello; qualora l’esito della nuova revisione sia negativo o non soddisfacente, c’è comunque la possibilità di presentare le opere a nuovo esame, previa la sostituzione del titolo e di parti sceniche e dialogate. A parte alcune operazioni atte a rivedere restrizioni adottate per vecchi film, quando si accerta un’avvenuta maturazione della sensibilità degli spettatori, la prassi riguarda soprattutto la possibilità di sfruttamento commerciale dei film da parte di emittenti televisive. E la necessità di ottenere l’autorizzazione (in prima serata se per tutti, dopo le 20,30 se vietato ai minori di 14 anni) ha fatto sì che si procedesse spesso a tagli indiscriminati, con il risultato di far perdere alle opere la propria identità. Tra il 1960 e il 2013 sono stati sottoposti alla revisione cinematografica, con richiesta di riedizione, 1183 film di produzione italiana e 976 di produzione straniera.

Fonte: www.cinecensura.com


I cattolici e i moralisti contro lo spettacolo

Censura e morale - L'intervento della censura clericale nelle opere di cinema e teatro

03 Lug 2021

Le trasmissioni saranno sorvegliate anche dal Clero?

Le trasmissioni saranno sorvegliate anche dal Clero? Disturbata da incidenti tecnici di varia entità (scariche, interruzioni, mancanze di corrente) la TV italiana ha iniziato domenica scorsa le trasmissioni regolari. Le condizioni meteorologiche…
Michele Serra, «L'Europeo», anno X, n.2, 10 gennaio 1954
595
02 Lug 2021

Il diavolo nel cinematografo

Il diavolo nel cinematografo L’83% dei film giudicato immorale dalla commissione ecclesiastica. Roma, marzo I cattolici hanno deciso di muoversi anche sul terreno pratico e organizzative per moralizzare il cinematografo. Secondo essi,…
Gino Visentini, «L'Europeo», anno VI, n.12, 19 marzo 1950
676
29 Apr 2024

Il comune senso del censore. Cinema, teatro e morale

Il comune senso del censore. Cinema, teatro e morale «Il cristiano buono non vuole andare a spettacoli. E con ciò stesso ch’egli frena la sua bramosia per non andare a teatro, va dietro al Cristo gridando, gridando per esser guarito. Ma tanti altri…
"Processo allo spettacolo", Domenico Tarantini, Edizioni di Comunità, Cremona, 1961 - "La Rivista del Cinematografo", mensile del del Centro Cattolico Cinematografico
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Meccanismi di censura nel cinema - L'Italia degli anni sessanta - Grazia Saccente

La ricerca confluita nelle pagine di questa tesi prende avvio dall'idea che il cinema italiano sia legato parallelamente alla storia della censura e all'evoluzione delle sue leggi. In particolare si prende in esame il decennio degli anni Sessanta, come periodo denso di avvenimenti cruciali nel nostro paese, da un punto di vista politico, economico e culturale. L'analisi parte dalla ricostruzione del percorso storico compiuto dalla produzione cinematografica italiana, in relazione agli aspetti di trasformazione generale della società, che inevitabilmente condizionano le scelte di registi e di alcune case di produzione. La tesi mira, pertanto, a chiarire il funzionamento della revisione cinematografica come strumento di potere, con un'influente possibilità d'intervento sul cinema. Infine, tale argomentazione viene dimostrata attraverso l'analisi di due casi studio, quello dei film "Rocco e i suoi fratelli" di Luchino Visconti e "8½" di Federico Fellini.

Il comune senso del censore - Un secolo di censura cinematografica in Italia


Negli anni in cui la fama cinematografica di Totò raggiunse il suo apice, i produttori dovevano tenere in considerazione, prima di ogni investimento (in particolare con soggetti "a rischio") il grosso ostacolo della revisione preventiva prima, definitiva successivamente. Tra censura amministrativa, censura politica e la censura cattolico-morale del Centro Cattolico Cinematografico, i film con protagonista Totò erano presi particolarmente di mira. Qui l'esempio di una guida dei criteri con cui il CCC sanzionava i film. In riferimento ai film di Totò, quasi tutti erano classificati "D", pochi "C o C1", quasi nessuno con "A" o "B".


La censura cattolica era attenta a tutte le manifestazioni culturali (cinema, arte, teatro),
alla vita pubblica (stampa, moralità, moda, pubblico pudore), al sesso, alla religione...

Nel 1945 l'A.N.I.C.A. (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche ed Affini) redige il 'Codice per la cinematografia', un libretto nel quale vengono sottoscritte le disposizioni guida per la realizzazione delle future produzioni filmiche in nome della salvaguardia morale dello spettatore. (Documenti censura Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo - www.cinecensura.com)


Lo spettacolo, lo stato e la censura

Nata dal moralismo e dal paternalismo di cui nessuno stato sembra poter fare a meno, la censura vorrebbe educare gli uomini, renderli piu buoni e più puri. Ma quando mai c’è riuscita?

Si avverte da qualche tempo una allarmante ingerenza dello Stato nei problemi dell'arte. Dopo la generale euforia dei primi mesi succeduti alla liberazione (durante ia quale nessuno ebbe voglia o modo di occuparsi di queste cose) lo Stato uscì a poco a poco dal suo spiegabile torpore e cominciò a volgere intorno gli occhi per rendersi conto di quello che stava succedendo. Eravamo in piena ubbriacatura, allora. Caduta la rigida disciplina culturale imposta dal fascismo, si fu totalmente invasi dal desiderio di conoscere ciò che ci era stato vietato, di sperimentare direttamente ciò di cui si era avuta indiretta e vaga notizia, di rifare i tentativi che altri avevano fatto, di assaporare, infine, senza esitazioni e senza pentimenti, il gusto pieno della libertà di cui potevamo improvvisamente godere. Nessuno avrebbe pensato di dar biasimo agli italiani, per questa ubbriacatura. Sarebbe stato assurdo. Un istante solo di riflessione sarebbe bastato per comprendere che il loro stato d'animo era giustificabile sotto ogni punto di vista. Ed era salutare, poiché avrebbe accelerato la guarigione degli italiani da quella gravissima malattia morale e sociale che durante i venti anni littori si chiamò conformismo.

Già: bastava riflettere. Ma lo Stato, forse, non può riflettere. Forse non ne ha il tempo. Forse, per qualche arcano motivo che a noi sfugge, non deve riflettere. Ciò parrà incredibile agli occhi dell'osservatore straniero (qualcuno l'ha già rilevato), ma non pare incredibile a noi che l'abbiamo provato e lo stiamo provando.

Accadde questo. Constatalo che nel campo dell'arte e della cultura in genere, non c'erano più freni, non esistevano più bardature burocratiche e non funzionavano più censure, io Stato diede segno di viva preoccupazione. Così, evidentemente, non poteva e non doveva continuare. Libera ed incontrollata, chissà dove sarebbe andata a finire l'arte italiana. Chissà di quali aberrazioni si sarebbe macchiata. Per impedire che la situazione precipitasse, lo Stato decise di correre ai ripari. Nella seguente graziosa maniera.

Non è necessario risalire troppo indietro nel tempo. Prendiamo i fatti più recenti e clamorosi. Ecco il primo. Verso la fine del 1946, l'on. Paolo Cappa, allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, inviò una lettera ai produttori cinematografici italiani, che diceva testualmente: « Ho dovuto rilevare con profondo disappunto come la produzione cinematografica italiana — la quale ha dimostrato in questi ultimi tempi un innegabile progresso tecnico ed artistico — si avvalga ed abusi di motivi drammatici e di elementi spettacolari non raccomandabili dal punto di vista morale. Il tema del banditismo e dei fuori legge, la pratica delle case di tolleranza, il rilievo eccessivo di fatti sessuali, delittuosi e morbosi, riempiono i nostri film, e ciò rivela purtroppo che non tutti i produttori hanno compreso e comprendono quali gravi responsabilità morali e sociali abbia il cinema nella vita della nazione. Per i suddetti motivi sono stato costretto, mio malgrado, a negare il nulla osta di circolazione ed a sospendere la programmazione di alcuni film nazionali ». Questa lettera destò un certo stupore all'estero. Ricordiamo un commento di « Cine Suisse » quanto mai significativo.

Suppergiù nel medesimo periodo, veniva impartito l'ordine ! alle Questure (supponiamo dallo stesso sottosegretario alla Presidenza del Consiglio) di vietare la vendita del romanzo di David Herbert Lawrence, L'amante di Lady Chatterley. In qualche regione, eguale divieto (u esteso ad un altro romanzo, assai più famoso, Madame Bovary. Grazie all'intelligenza dei Questori, e probabilmente alla resipiscenza del sottosegretario, il divieto non venne applicato che per poche settimane.

Nella primavera del 1947, l'ufficio di censura teatrale della Presidenza del Consiglio vietò la rappresentazione di una commedia di Ezio Mancini, Città proibita. Motivo: immoralità.

Negli ultimi mesi l'azione della censura si è intensificata. Sono state sospese le proiezioni di Desiderio di Roberto Rossellini e Marcello Pagliero. Sono state imposte modifiche all'Onorevole Angelina di Luigi Zampa e a Tombolo di Giorgio Ferroni. Il regista Alberto Laltuada si è visto rifiutare il permesso di realizzare Senza pietà. Ultimo della catena, il divieto di proiezione di Gioventù perduta di Pietro Germi.

Abbiamo citato soltanto i fatti di dominio comune. Altri certamente ve ne sono, ma non avendo di essi conoscenza diretta (soltanto gli interessati potrebbero renderli noti, e non ci consta che l'abbiano fatto) ci asteniamo dal prenderli in considerazione. Come si vede, il settore dello spettacolo è quello bersaglialo con maggiore accanimento. E' logico che sia così.

Prima di esaminare il lato sostanziale della questione e di tentare una discussione sul malinteso paternalismo dello Stato, proponiamo un piccolo quesito di carattere legale. Esistono dunque in Italia, nell'Italia democratica, due commissioni di censura preventiva, una per il teatro, l'altra per il cinema. Ora, si desidera sapere dagli organi che rappresentano lo Stato, quale legge sancisce resistenza ed il funzionamento di queste commissioni. Se non erriamo, nella Costituzione testé approvata non si parla di commissioni per la censura preventiva degli spettacoli. E allora? Non vorremmo azzardare troppo (non siamo qualificati per trattare questioni di diritto), ma abbiamo il vago sospetto che le predette commissioni siano illegali. O che, almeno, per renderle legali, si debba ricorrere a qualche deliberazione del governo fascista. (Beninteso, qualora si voglia dar loro il suggello della legalità, poiché fino ad oggi nessuno si è mai preso la briga di darglielo. Come si spiega questo fatto?).

Inoltre, visto che siamo sul terreno della legalità ed il cittadino ha il diritto ed il dovere di informarsi sul modo in cui si tutelano i suoi interessi, ci sia permesso chiedere da chi sono composte le commissioni suddette. Sarebbe di somma utilità per tutti conoscere i nomi e le qualifiche di coloro che hanno il potere di decidere insindacabilmente sugli spettacoli da presentare al pubblico. Ancora. Si vorrebbe sapere come e in base a quali criteri di ordine estetico, morale sociale, funzionano le commissioni. In base a norme scritte, catalogate in apposito e preciso regolamento, o secondo le opinioni e gli umori passeggeri dei commissari? Infine, dato che il regolamento esista e che il funzionamento delle commissioni possa essere giustificato con cavilli giuridici, perchè non rendere di pubblica ragione le decisioni prese di volta in volta dai censori, adducendo 1 motivi che li hanno indotti a vietare questo o quell'altro spettacolo?

Ma lasciamo le disquisizioni giuridiche, che altri potrebbe fare meglio di noi. Veniamo all'essenza del problema. E' stato dimostrato più volte dai fatti (e noi italiani dovremmo essere particolarmente edotti in materia) che l'ingerenza dello Stato nelle questioni dell'arte è sempre dannosa. Si proponga essa fini buoni o cattivi.

C’è sempre qualcuno che si crede depositario di una verità eterna. Poiché la ritiene eterna ed assoluta — ed è convinto che fuori di essa vi siano il caos, l'abbrutimento e il Male — si adopera con tutte le sue forze per farla trionfare (fin qui niente da obiettare) e per imporla con ogni mezzo agli altri. Qui non si può più essere d'accordo, evidentemente. Se non erriamo, lo Stato non dovrebbe essere il depositario di alcuna verità eterna, almeno nel campo dell'arte. Per una ragione semplicissima: che lo Stato nelle sue forme e nella sua struttura non è eterno, non è immobile. Tant'è vero che ad una verità eterna ed assoluta se ne sostituisce, dopo un tempo lungo o breve, un'altra, a questa una terza, alla terza una quarta e così via. E tutte queste verità assolute sono diverse l'una dall'altra.

Per cui accade questo interessante fenomeno: il possessore della verità assoluta A, quando riesce ad avere in mano i poteri dello Stato, impone i suoi criteri in materia d'arte ed esercita la censura in base alla verità A, bocciando, poniamo, tutti gli spettacoli antinazionali; il possessore della verità B, quando ha la fortuna o la forza di spodestare il predecessore, getta all'aria tutto ciò che costui ha fatto e, poiché la sua verità è diametralmente opposta, impedisce gli spettacoli a tinta nazionalistica; il possessore della verità C, quando subentra a quello della verità B, chiude magari un occhio sugli spettacoli antinazionali ma vieta rigorosamente quelli di carattere anticlericale; il possessore della verità D, avuta ragione degli avversari, infierisce sugli spettacoli filoclericali ed approva quelli... ecc. Sembra, ed è, una burletta. Eppure questa « rotazione » delle verità eterne ed assolute è avvenuta ed avviene, portandosi dietro tanti piccoli uomini presuntuosi che sono fermamente intenzionati ad imporre agli altri uomini le loro idee, ed a vietare cocciutamente ogni idea contraria. Sarebbe bene che i censori meditassero questo argomento, e comprendessero il ridicolo della situazione. E riandassero col pensiero alle madornali « cantonate » prese, in tutti i tempi, dai loro predecessori, dai depositari delle varie idee eterne ed assolute A, B, C, D (non bastano certo le lettere dall'alfabeto ad elencarle tutte). Essi, gli attuali censori, sono i primi a ridere di quelle « cantonate » e di quelle idee allora ritenute eterne.

Non importano le buone ragioni. Le ragioni dei censori sono sempre buone. E' la censura in sè che è cattiva. E l'imposizione postulata dalla censura che è condannabile. F la presunzione dimostrata dalla censura (dalle censure di tutti i tempi) che è stupida, cattiva, intollerabile. Non è ovvio, lapalissiano tutto questo? Non è ingenuo il doverlo ripetere? Certo, a parole siamo tutti d'accordo. Poi i fatti ci smentiscono ogni giorno, ed è necessario l'intervento dell'ingenuo di turno, il quale ripete le cose che anche i ragazzi sanno a memoria.

Nata dal moralismo (presunzione fastidiosissima) e dal paternalismo di cui nessun Stato sembra poter fare a meno, la censura vorrebbe educare gli uomini, renderli più buoni e più puri. Ma quando mai c'è riuscita? Prendiamo il caso attuale. Nessuno nega che lo spettacolo (teatro e cinema) abbia una considerevolissima influenza sulla massa e possa istradare i suoi istinti in direzioni non propriamente giuste e buone. La censura si sbraccia per impedire che ciò avvenga e castra senza pietà gli spettacoli cosiddetti immorali (però, occorrerebbe prima intenderci bene sul significato di « immorale »). E voi credete che questo basti per stornare gli uomini dal Male e dall'Ingiusto? Credete che lutto il Male e tutto l’Ingiusto nascano dagli spettacoli « immorali? » Se sì, la vostra è una pia illusione. Ci sono cento altre cause del Male e dell'Ingiusto contro le quali la censura non può nulla. Diciamo le cose chiaramente: l'immoralità e la delinquenza dilaganti nel paese sono conseguenze non degli spettacoli (o lo sono in piccola misura) ma della guerra che ha sconvolto il mondo. Dalle devastazioni e dagli orrori della guerra è nata l'immoralità che si è propagata nell'animo degli uomini e si è insinuata nella sostanza degli spettacoli. Immoralità negli uomini e immoralità negli spettacoli (estendiamo: nell’arte) sono effetti della stessa causa. Sono due conseguenze parallele, e non sono che in minima parte in rapporto di causa ed effetto fra di loro. Per cui è un'altra illusione quella di credere che spettacoli puri, casti e liliali possano fugare l'immoralità degli uomini. Pensare così, significa sopravvalutare l'influenza dello spettacolo, che è grande ma non illimitata. Senza contare che lo spettacolo mielato ed ottimista per partito preso (cinema americano medio, per esempio), fornendo al pubblico un'idea falsa e stratosierica della vita, crea nell'animo degli ingenui altre pericolosissime illusioni, non ultimo e non irrilevante fomite della deprecata immoralità presente.

Si noti: non abbiamo parlato delle ragioni dell'arte. Non abbiamo parlato della insopprimibile libertà dell'artista, che sta al disopra di ogni gretto paternalismo, di ogni sciocca presunzione di censore. Rifare un discorso simile (che pure è il fondamentale) ci è sembrato non soltanto ingenuo e ridicolo, ma mortificante. Per i censori, per i lettori, e per noi.

Fernaldo Di Giammatteo, «Il Dramma», 1 febbraio 1948


In via del Babuino 107, in Roma, ha sede l'Associazione Nazionale per il Buon Costume. Presidente, il settantenne professore Carlo Costantini, già docente di educazione fisica nel pubblici istituti. Da qualche anno a questa parte, non v'è attività rappresentativa, couplet teatrale, canzonetta trasmessa per via radio, che non subiscano la critica serrata del predetto Presidente. Sua la moralissima lotta contro il turpiloquio. Sua la santa battaglia contro i costumi da bagno succinti. Sua la crociata contro il malvezzo di indirizzare alle donne, per istrada, frasi traboccanti d'amore. Il professore ha superato la barriera del provincialesco quietismo e si è lanciato nel turbine della casistica nazionale. Un vero e proprio ufficio stampa gli segnala le pubblicazioni da ritenersi scandalose.

Le ballerine intimidite non sostengono lo sguardo inquisitorio del Presidente del Buon Costume.

Ed in terribili guai incorsero Guasta e la redazione del «Travaso» allorché, due numeri eccezionali del periodico (il «Coniugal Travasassimus» e lo Studentorum Travasissimus»), parvero troppo piccanti al professore che presentò denuncia alla Pretura di Roma contro il responsabile del «Travaso» per oltraggio al pudore, offesa alla morale e tante altre voci di rubrica. La Pretura si dichiarò incompetente e la causa passò al Tribunale.

Il settantenne prof. Carlo Costantini sulle cui ginocchia riposano le sorti della morale italiana, è stato sorpreso dal nostro fotografo mentre assiste alle prove di uno spettacolo di rivista.

Ma la polemica trascinò nella propria scia il moralista n. 2, il Prefetto di Brescia, città cattolicissima oltre ogni dire. Il qual Prefetto un numero del «Travaso» sequestrò, incorrendo nei tormentoni dei nostri amici vignettisti. Il prof. Costantini la cui vita celibataria, appena ravvivata dalla presenza di una cameriera cattolica praticante, lo induce a perfezionare sempre più i proprii sistemi di lotta contro gli offensori della morale è rimasto, dopo quella prova, sulla breccia. Uno spettacolo alquanto scollacciato sta per essere lanciato sui palcoscenici romani?

Nel cerchio bianco, la nuca del Presidente, attraversata da strane idee intorno alla caducità delle cose umane. Ndello sfondo, le "girls" in "sleep" sfilano a passo di carica. Ma soltanto al Professore, vigile vedetta del Buon Costume, èdato di vederle. Interdetta ai minori la visione della prova.

Ecco il prof. Carlo Costantini assistere alle prove per giudicare della sua possibile immissione sul mercato. L’aria del Presidente é assorta. Le ballerine, intimidite, sfilano sotto il suo sguardo distaccato dalle tentazioni della carne. Ma, nell’ombra, un fotografo della «Video» è appostato. Tre scatti di obbiettivo. Il prof. Costantini passa alla storia.

Jerome, «Tribuna Illustrata», 22 agosto 1948


Diamo un cervello alle forbici

Qualche tempo fa il misterioso organismo che esercita la censura sui film da programmarsi in Italia, incriminò Gioventù perduta, e molti noti giornalisti e registi insorsero contro una decisione che appariva ingiustificata e arbitraria. Gioventù perduta ottenne il permesso di circolazione, e credevamo di non dover tornare più su un argomento cosi antipatico. Invece, proprio in questi giorni, abbiamo letto su un quotidiano che Le diable au corps è stato fermato dalla censura; e la cosa è troppo grave perché la si subisca in silenzio.

Esiste una commissione di censura (e approfittiamo di questa occasione per chiedere che ci siano comunicati i nomi di coloro che ne fanno parte): è. umanamente comprensibile quindi, che ogni tanto alcuni signori, investiti di una data autorità, provino il desiderio d'esercitarla. Ma è preoccupante che tale desiderio li colpisca esclusivamente quando si tratta di bei film. Gioventù perduta era il miglior film italiano del 1947, Le diable au corps è fra i migliori film prodotti in questi anni, in tutto il mondo; ed è lecito pensare che appunto per questo la censura l’abbia incriminato.

In Le diable au corps ve un adulterio, siamo d’accordo; ma ogni giorno vediamo filmetti di levatura men che mediocre, costruiti attorno a un adulterio, e circolano liberamente. Abbiamo visto Furia, La legge del sangue, Lo sconosciuto di San Manno, tutti biasimevoli, dal punto di vista d’un censore, e inoltre brutti; forse li han lasciati circolare proprio grazie alla loro bruttezza. Bonacciona e indulgente davanti alle opere che non hanno alcun valore, la nostra censura diviene severa quando scopre, come nel caso di Le diable au corps, un'opera d’arte.

Questa tutela della stupidaggine a tutto detrimento dell'intelligenza, ci appare singolarmente staraciana, e anche per questo ci offende. Sappiamo che lo Starace originale combatteva l'intelligenza semplicemente perché era al di fuori della sua comprensione: desidereremmo sapere perché la combatta la commissione della nostra censura cinematografica; se la ragione è la stessa, spiegheremo allora che Le diable au corps non può essere immorale, malgrado l’adulterio di cui narra, perché descrive l’amore di due giovani invasi da una bramosia più forte di loro, che li rende felici e disperati, che li assilla sempre senza appagarli mai. E’ un amore cosi intenso da divenir sofferenza, e i due amanti piatiscono per amore durante quasi tutto il film: fino alla fine, quando Marthe muore, e Francois annientato, assiste ai suoi funerali.

Immorale, è lo spettacolo che può invogliare all'immoralità; in questo film disperato v'è soltanto il travaglio della nostra condizione umana; per esso nessun adolescente perderà il sonno, nessuna fanciulla rinunzierà alla modestia. E poiché la peccatrice alla fine trova la sua punizione, cioè muore, non verrebbe censurato neppure da quel catastrofico signor Johnston che, in America, ha tagliato la scena d'un film, perché vi appariva su una mensola un putto di porcellana nudo.

C'è quasi da vergognarsi a scrivere cose tanto ovvie, ma sembra che sia necessario. Noi non vogliamo escludere che una commissione di censura possa esistere, ma siamo almeno in diritto di chiedere che funzioni su schemi pubblicamente noti. Si dica: «I bei film in genere, sono censurabili e riprovevoli», e avremo se non altro il vantaggio di saperlo. Proprio in questi giorni ho veduto la presentazione di un film intitolato Il barone Carlo Mazza, dove vi sono dialoghi di questo genere: «Quante palle?». «Hum, cosi»; e il Carlo Mazza di Nino Taranto, in Italia, è l’alfiere dei cornuti; tuttavia la censura non ebbe nulla da eccepire contro tale film, forse perché, quando l’hanno veduto, i censori ridevano per il garbato dialogo : oppure stavano pensando ai provvedimenti da prendere contro Le diable au corps.

Sarebbe ora d'intenderci una buona volta sul valore della parola «immorale». Noi riteniamo immorale tutto ciò che è imbecille, ma questa è opinione personale, e non possiamo pretendere d'imporla, perché pregiudicherebbe molte categorie di persone. Ma meniamo anche immorale l'insensata apologia della violenza che vediamo in gran parte dei film d'oggi. Riteniamo immorale la scuola di perfezionamento nell'arte dei calci in faccia che dobbiamo frequentare entrando al cinematografo. Ormai, chiunque frequenti una sala di proiezione sa come sfondare il cranio al prossimo, e come fargli inghiottire i denti; non v’è più bambino che ignori il corretto modo in cui va tenuta una pistola perché l’avversario non possa né fuggire né difendersi; sempre più spesso, il pezzo forte d’un film è la «cazzottatura», che adesso si usa anche in technicolor, con realistiche macchie di sangue rosso.

Né il signor Johnston, né i nostri più modesti censori hanno mai detto una parola contro questo costume selvaggio e senza scuse, che solletica i più bassi istinti umani; il cinema è gremito di calci in faccia, flagellazioni, torture d'ogni genere, tanto che ci si chiede se, per caso, l'intero corpo delle S.S. non si sia trasferito nelle varie Case di produzione; e nessuno protesta. Ma che un giovanotto faccia all amore con una sua coetanea sposata, allora crolla il mondo, e tutte le macchine burocratiche si mettono in movimento. E’ noto infatti che. specialmente sotto la nostra latitudine, non accadde mai un fatto cosi riprovevole; l'ultima adultera di nostra terra fu Francesca da Rimini, e andò all’inferno. Meno male, perché se Dante avesse messo Francesca in Paradiso, nessuno avrebbe potuto salvare la Commedia dalla censura.

Scherzi a, parte, questo è un discorso molto serio; la morale è assai vasta, e non risiede esclusivamente in un perizoma o in reggipetto. Noi disapproviamo ogni forma di censura (tranne quella ovvia contro chi offende il buon gusto), ma non aspiriamo ad imporre le nostre vedute. Quindi se la maggioranza ritiene che il cinema debba essere moralizzato, lo si moralizzi; ma tenendo presente che lassassimo, la selvaggia brutalità, le revolverate e i linciaggi sono riprovevoli almeno quanto l’adulterio. Che i censori ci liberino di questa incessante propaganda alla violenza, e allora avranno una giustificazione anche quando vorranno impedirci di vedere l’amore di Marthe e Francois. Prima d’allora non hanno alcun diritto, tranne quello d’incassare lo stipendio, se ne percepiscono uno.

E rispettino un poco l’intelligenza, che ha diritto anch'essa di vivere. I giornalisti contano poco, è vero, ma i giornalisti di tutto il mondo hanno reso omaggio a Le citarle au corps, chiamandolo opera d’arte; le giurie di due Mostre cinematografiche gli hanno assegnato premi; possibile che ciò non abbia alcun valore?

A Bruxelles, quando venne proiettato Le diable au corps nel corso del Festival, l‘ambasciatore di Francia, indignato nel vedere che la moglie d’un combattente francese trascurava i suoi doveri di sposa fedele, s’alzò a metà spettacolo, lasciando la sala; e tutti furono concordi nel giudicarlo un pessimo ambasciatore, perché dimostrava pubblicamente i suoi sentimenti; un pessimo spettatore perché non era in grado di seguire fino alla fine un buon spettacolo; e anche un pessimo francese, perché col suo gesto aveva offeso l’ingegno d’un compatriota.

I membri della nostra commissione di censura non sono ambasciatori, e non sono francesi; ma, se hanno preso il provvedimento da noi lamentato, almeno pessimi lo sono certamente.

B., «Cinema», 25 novembre 1948


Per rendersi conto della portata sociale della cinematografia, della forza educatrice e formatrice di quella artisticamente e moralmente degna, e della pericolosità e dannosità di quella originata da interessi unicamente speculativi e volta ad appagare i più elementari bisogni del pubblico ed a sollecitarne gli istinti più bassi, non c’è bisogno di essere filosofi o critici, nè di conoscere le teorie estetiche degli specialisti o i trattati e le statistiche dei sociologhi. Per questo basta la normale, chiara intelligenza di una madre di famiglia e il suo semplice e sano buon senso. Purché sia una vera madre di famiglia, vigilante ed attenta alla buona educazione ed alla buona riuscita dei figli nella vita.

Per giudicare del valore educativo o antieducativo dei film c’è, per ogni madre di famiglia, un campo di osservazione a portata di mano e sul quale lei stessa è al riparo da possibili incomprensioni: quello delle letture dei suoi ragazzi. Essi studiano a scuola e per la scuola su certi libri, e io fanno, naturalmente, non sempre di buona voglia, ma per dovere e per obbligo: ma poi, appena possono, get tano in un canto i libri di storia patria e la grammatica latina per consolarsi delle amarezze dello studio con «Le tigri del Bengala» o con «Le avventure di Sherlock Holmes, poliziotto dilettante», con quelle di «Arsenio Lupìn, ladro gentiluomo». Per distrarsi e riposarsi il ragazzo si allontana così quanto più possibile dal mondo delle sue fatiche e difficoltà che è tanto noioso, per entrare in un mondo di meraviglie e di ir realtà: un mondo popolato di fantastici eroi, con i quali è facile identificarsi ed è facilissimo vivere le più eroiche avventure e passare di vittoria in vittoria.

La brava madre che osserva i suoi ragazzi sa anche che quelle innocenti scempiaggini stimolano la fantasia del ragazzo e possono avere anche un briciolo di utilità per il suo sviluppo; ma sa anche che, e le è ben semplice constatarlo, che quel tipo di letture, se troppo prolungato, mina e stempera facoltà di cui il piccolo uomo ha e avrà sempre più bisogno, crescendo, nella vita: mina la sua intelligenza e indebolisce la sua volontà. Identificandosi frequentemente con gii assurdi eroi dei suoi romanzi di avventure, il ragazzo si compensa dello zero in latino, colla sognata conquista del tesoro dei Ca-raibi o colla riconquista di Mompracem, se non pure sposando Jolanda, la figlia del Corsaro nero. E lo zero in latino perde assolutamente ogni valore, diventa una piccola, ridicola cosa. Il mondo della realtà si svaluta e s’abbuia, non ha diritti da far valere dinnanzi a quello dell’illusione e del sogno. È precisamente l’effetto degli stupefacenti, seppure in piccole dosi.

La savia madre di famiglia lo sa ed è ben contenta quando suo figlio lascerà queste letture sconclusionate per leggere, anche se ancor giovanetto, «Anna Karenina» o «L’assommoir» o «La madre» : anche se questi romanzi, ad una superficiale osservazione, possano sembrare meno innocenti di quelli d’avventure, anche se pongono in termini inquietanti il problema dell’amore colpevole, il dramma dell’alcoolismo, la tragedia dei conflitti sociali. Perchè questo tipo di letture ha un carattere artistico e non puramente ricreativo e cioè non parla soltanto alla fantasia, ma attraverso la fantasia, all’intelligenza e alla coscienza del lettore. E perciò non suggerisce al lettore fughe dalla realtà, rifugio nell’illusione, compensi alle sconfitte ed alibi alle insufficienze; ma pone problemi, ricostringe nella realtà, aiuta a comprenderla, stimola alla vita e rivela quale essa è e deve essere: concreta lotta del bene contro il male. Certamente letture inquietanti, ma, proprio' per ciò, educative e formative.

Questo sa ogni madre di famiglia e da questo punto di vista essa deve guardare anche all’altra e tanto più diffusa forma di divertimento e di svago (che non è solo dei suoi figli, ma suo e di suo marito) : il cinematografo. Un po' di riflessione la farà accorta che molto spesso è proprio lei, coi suoi capelli ormai brizzolati, e suo marito colla fronte stempiata, che credono alle stesse deleterie suggstioni dei loro ragazzi; che il 90% dei film contengono lo stesso soporifero stupefacente dei romanzi polizieschi e avventurosi tanto attraenti per i ragazzi: lo stesso svalutare la realtà e la vita per opporre loro il mondo dell’illusione e delle chimere. E che è tanto più difficile rien-trare ne! mondo della realtà quotidiana, tanto opaco di fronte a quello scintillante di luci e di sfarzo dei film dove si assiste al costante trionfo del bene sul male. Ma il bene deve trionfare sul male nella vita e non sullo schermo.

Ed ecco perchè — si farà sempre più accorta la madre di famiglia — la «censura» non si comporta nei confronti del film e del suo pubblico, come lei, nella sua semplice ed illuminata saggezza, si comporta nei confronti dei figli e delle loro letture.

Perchè la censura è dunque, non come una buona madre, ma come una cattiva matrigna; lieta delle suggestioni nocive e distruttive che i ragazzi traggano da certe letture, pur di «non essere disturbata»: perchè ia censura è l’organo di difesa dei rappresentanti dell’ingiustizia sociale, che non vogliono essere disturbati da possibili «inquietudini» del pubblico, da un possibile porsi problemi, da parte del pubblico, e applicarsi a risolverli.

Ecco perchè si premia a Venezia un film («Manon») e poi se ne vieta la diffusione, perchè si tenta di vietare un altro film («In nome della legge»), che rappresenta al vivo la brutalità dei «baroni» Siciliani, e si impongono tagli a «Gioventù perduta», che denuncia il problema della gioventù traviata; ecco perchè non si permette di documentare l’opera di un comune democratico («Modena») altamente costruttiva: e benefica.

La «censura», dove è strumento in mano di pochi per la difesa di interessi di pochi, non ha alcuna funzione morale: ma anzi, come da noi, invece di dare la caccia ai film soporiferi, ne promuove la diffusione: esercita con i film americani una vera e propria guerra dell’oppio. E tutto il pubblico ha il dovere di darsi la sua censura da sè, di difendersi e di boicottare il pericoloso sciocchezzaio di Hollywood.

Umberto Barbaro, «Noi donne», 9 aprile 1950


Com'è noto, presso il Centro Cattolico Cinematografico funziona una Commissione per la revisione e classificazione dei film. I competenti, scolti tra persone competenti per cultura ar tistica e sensibilità morale (sono quasi tutti padri e madri di famiglia, vengono nominati dalla Commissione Episcopale per l'Alta Direzione della A.C.I.. ricevendo così il mandato esplicito di dare per ogni film un giudizio morale secondo lo spirito e la lettera dell'Enciclica «Vigilanti Cura».

Ecco la prassi usata per a revisione. I commissari visionano collegialmente il film. Ognuno di essi stende una relazione scritta, in cui dopo aver riportato la trama, esprime un giudizio estetico ed uno morale. Il Segretario della Commissione esamina a sua volta in redazione unica la relazione del film; non senza aver controllato il giudizio morale emanate dal Centro Cattolico Cinematografico del paese d’origine, se il film è di produzione straniera. Solo dopo questa elaborazione il giudizio definitivo — approvalo dal Presidente della Commissione — viene pubblicato sulle «segnalazioni ufficiali». Quando poi i giudizi dei vari commissari non coincidono, il film viene riesaminato con la partecipazione del Presidente e di eventuali esperti.

Alcuni film sono stati visti dalla Commissione, prima del giudizio definitivo, tre e anche quattro volte. Come il lettore potrà rilevare non si potrebbero avere maggiori cautele e più oculato impegno. La Commissione infatti sente tutta la responsabilità del compito che le è affidato, e si preoccupa di dare, per quanto è possibile, un giudizio obiettivo. Sarebbe infatti ingiusto e controproducente escludere un film con contenuto positivo, mentre estremamente pericoloso tornerebbe un giudizio di approvazione ad un film che, o per la tesi, o per le scene, contenesse elementi consoni ai principi cristiani. Ma per dare un giudizio obiettivo occorre, evidentemente, una norma da seguire. Ogni commissario deve perciò attenersi ad un ampio e dettagliato formulario che applica ai film la dottrina cristiana.

Le difficoltà incominciano quando si tratta di fare, praticamente, questa applicazione. Ci sono dei film che si giudicano con estrema facilità. Non occorre, ad esempio, un'acuta indagine ver trovare in «Adamo ed Eva» o in «Botta e risposta» ampi motivi di esclusione. Quando le scene sono apertamente immorali, quando sullo schermo si presentano attori in costumi o in atteggiamenti sconvenienti, non possono rimanere dubbi sul giudizio. Più difficile diventa giudicare la tesi. Talora infatti non risulta evidente se il film intenda sostenere e approvare una tesi contraria ai principi cristiani; altra volta sono frammisti motivi negativi a quelli positivi, e non è sempre facile determinare quali di essi prevalgono. Sono questi i casi che impongono maggior discussione e più attento esame. Occorro infatti orientare il pubblico ed è l'asserire che quando il film è «pulito» nelle scene si può chiudere un occhio e largheggiare nel giudizio. Nella morale cristiana non c’è solo il sesto comandamento. Un suicidio ad esempio, presentato in forma [...] o quale evasione necessaria, rende fi film inaccettabile.

C'è poi qualche film che presenta difficoltà d'ordine pedagogico. Mi spiego. Il film «Un piede in paradiso» è obiettivamente incensurabile. Si narra in esso la storia di un pastore protestante che, coadiuvato dalla moglie che ne è l'ispiratrice e il sostegno, affronta sacrifici per il bene delle varie comunità che gli vengono successivamente affidate. Qua e là però ci sono battute che possono indurre un pubblico cattolico a considerare ogni religione ugualmente buona, e situazioni non consone alla mentalità cattolica, in una parola, è un film di propaganda protestante, che se non è di danno ad un cattolico di piena maturità morale, può costituire un pericolo.

Un'altra difilcoltà è costituita dall'elemento soggettivo di giudizio. Quand'è, ad esempio, che una data scena può essere definita immorale? Se non ci sono gli estremi che rendano evidente il giudizio, la sensibilità morale dei singoli commissari può portare a giudizi non identici. Per evitare questo pericolo, vengono sovente invitati alle visioni collegiali, padri e madri di famiglia che non hanno «l'abitudine» del cinema e il loro parere vien preso nella dovuto considerazione. E' un lavoro non facile quello della Commissione. Mi premeva però di assicurare che la revisione del film vien fatta con senso di responsabilità e con impegno cristiano.

Albino Galletto, Presidente della Commissione di Revisione, «Il Piccolo», 15 giugno 1950 - Censura cinematografica


Spesso le pellicole, torturate senza criterio dalle terribili cesoie, gemono o piangono la perdita di “parti" essenziali

Accade spesso d'udir voci levarti contro la censura cinematografica, le cui malefatte si moltiplicano, (ino a gravare sulla nostra migliore produzione come un vento maligno che veglia inaridire le fonti più schiel-te del Ispirazione. Ma» non si deve credere che solo adesso Madama Anastasia si sia messa a tagliuzzare i film in base a criteri mal codificati che si risolvono caso per caso in arbitril ipocriti e in puntigliosi capricci. In realtà questa vecchia signora si è sempre condotta a un modo cioè malissimo, sin da quando si assunse il compito di educare a colpi di forbici quel vivace bambino che, appena uscito dall'asilo d'infanzia dei fratelli Lumière si dette a gettare sul mondo strisce di pellicola come si fa a carnevale con le stelle filanti. Essa, trent’anni fa, non era meglio di adesso.

Lo sa bene chi come il sottoscritto trentanni fà faceva il «metteur en scène» ovverossia il regista, e si occupava di cinema scrivendo critiche di film e cronache di «bianco e nero» in un giornale romano. Infatti la censura cinematografica uscita da poco dalle mani dei funzionari di polizia per passare a quelle di Commissioni istituite in base a una legge dei 9 ottobre 1919 si affrettò alcuni mesi dopo, nel marzo del 1920, a bocciare un mio film intitolalo «La notte romantica» e mi fece con ciò passare un sacco di guai. Era il mio secondo film, e ne avevo scritto da me il soggetto e la sceneggiatura ispirandomi al racconto, di Poe: «La rovina delta Casa degli Usher» perchè vedevo nel cinema possibilità di suggestioni fantastiche che ancora non erano state sfruttate. Non era un vero film espressionista, come quel «Gabinetto del dottor Galigari» che arrivò in Italia l’anno dopo.

Era una specie di incubo notturno, creato dalle suggestioni d'un vecchio castello e dei suoi strani abitanti in una sera di temporale. Una cosa innocentissima che la mattina si risolveva in un sogno. Ma un membro della Commissione di censura, un giudice che s’occupava di ragazzi abbandonati, s'impuntò sul fatto che il mio film «faceva paura» e non ci fu verso di fargli cambiare parere. Gli dava perfino fastidio un gatto nero che di notte entrava in una stanza e certi scenari con su delle figure mostruose che m'ero fatto dipingere dallo scenografo. Il film potè uscire solo tutto tagliato irriconoscibile, ed io mi mangiai il fegato alle ironie del produttore che mi diceva: «Ecco cosa succede a chi vuol fare le puzzonate!» Non ebbi altro sfogo che nel l’attaccare la censura nelle mie cronache, ogni qualvolta mi ai offrisse la occasione.

Ho ridato un'occhiata a queste cronache di trenta e più anni fà, che conservo incollate a certi grandi fogli ormai gialli come vecchi codici. Tra le critiche di «prime visioni», che allora si chiamavano «Lo scaldino» di Genina o «La casa di vetro» di Righelli (e che incoraggiamenti a questi registi che volevano far dell'arte tra la volgarità dei mestieranti!) ho trovato continue prese di posizioni contro Madama Anastasia, la mia bestia nera. Per esempio, in una cronaca del 21 marzo 1920, riproducevo il giudizio apposto dall’Ufficio di revisione a un «soggetto» che gli era stato presentato per la censura preventiva: «Ad eliminare l'impressione moralmente disgustosa che può risentire il pubblico dall'omicidio commesso dal Marchese nella persona del suo giardiniere, non d’altro colpevole che di difendere l’onore della propria sorella, a cui il Marchese attentava, si dovrà sopprimere la scena stessa, o quanto meno rappresentarla in modo da togliere l’accennata impressione, escogitando un movente del delitto che lo rendeva meno «antipatico» dal punto di vista morale». Ed io commentavo malignamente: «Bisognerà dunque presentare i delitti sotto una veste «simpatica»? Bisognerò che il pubblico quando vede consumare un delitto sullo schermo, non ne provi disgusto?».

Il 14 novembre tornavo alla carica pigliandomela col funzionamento delle Commissioni stabilite dal Regolamento della legge, dell’anno prima: «La censura cinematografica, formata da principio da funzionari del Ministero dell’ Interno, cominciò a menar di forbici e a pronunciar giudizi in materia di estetica e di morale, con quella competenza che era lecito attendersi da così autorevoli persone. Le pellicole, torturate senza criterio dalle terribili forbici cominciarono a gemere dolorosamente, piangendo la perdita di quel poco di logica e di organicità che era stato loro concesso dagli autori e dagli esecutori. Gli industriali assai spesso a torto levarono altre strida reclamando una riforma del la censura che desse affidamento di maggiore serietà e larghezza di criteri sul funzionamento di una così delicata istituzione. E una voce venne dall'alto che diceva: «vi daremo i «competenti» che chiedete. Vi daremo le Commissioni formate, per esempio, da un giornalista, da un letterato filosofo, da una madre di famiglia ecc. Ricordatevi però i ranocchi chiedevano un re. Guai a voi!» Ed era in essa un feroce sarcasmo. Il peggio infatti è venuto. Alla Commissione di funzionari che agiva con un cervello solo storto ma uno, si sono sostituite sei Commissioni che agiscono come sei cervelli diversi ognuna con un criterio suo (se si può chiamare criterio l’applicazione di principi mai chiaramente enunciati (producendo tutti insieme una mirabile uniformità di giudizi, la quale fa si che il film più innocente, capitato tra le mani riesca invece a far passare sotto il naso della Commissione il suo bagaglietto di delitti e di porcheriole».

Ora tutte queste cose, per quanto si perdano nella notte dei tempi (nella storia del cinema un anno conta quanto un secolo nella storia degli uomini), mi pare che ogni tanto ritornino, come suol dirsi d’attualità. Dico «mi pare» perchè da molti anni, da quanto finii la mia esperienza di regista con «La rosa» di Pirandello, non mi sono più occupato di cinema altro che per vedere e giudicare dei film, i quali per me cominciano ad avere un interesse dal momento che vivono su uno schermo. Mi sottrassi cosi a qualunque contatto con Madama Anastasia, che da allora non ha più potuto recarmi offese dirette. Ma solo al ricordo dei guai che mi fece passare questa maligna signora trentanni fà, ogni suo nuovo misfatto mi fa rimescolare il sangue.

Arnaldo Fratelli, «La Gazzetta di Reggio», 30 giugno 1951


«Epoca», 24 novembre 1951


Legge e censura

Di fronte alla nuova legge e alle nuove norme di censura - che non differiscono da quelle fasciste - il Comitato permanente degli autori, registi e critici ha ribadito le sue richieste

Nel Giornale romano del numero scorso abbiamo detto che la Commissione cui era stata demandata in sede deliberante la nuova legge sul cinema ' aveva aggiornato i suoi lavori a dopo le elezioni amministrative. Mentre Cinema Nuovo era in macchina, in séguito alle pressioni delle dategoris interessate e al movimento di opinione pubblica che la prima decisione aveva sollevato, i parlamentari decisero di riprendere l’esame degli articoli e in poche ore posero fine al loro lavoro: abbiamo dunque la nuova legge, claudicante, incompleta, inappetibile.

Le disposizioni approvate avranno vigore dal 1° gennaio 1956 e scadranno, secondo una proposta avanzata dagli on. Calabro (MSI), Selvaggi (PNM), Natta, Alicata e Corbi (PCI), il 30 giugno 1959. Il provvedimento è stato trasmesso al Senato per l’ulteriore corso legislativo: la sua approvazione definitiva dovrebbe avvenire prima delle ferie estive. Nella medesima seduta della Commissione della Camera è stato approvato anche un art. 17 bis, sostitutivo dell'art. 28 della legge del 1949, proposto dagli on. Selvaggi.

Nata e Alicata, in base al quale le vigenti disposizioni concernenti i nulla osta per la proiezione in pubblico e per la esportazione dei film, restano in vigore fino alla emanazione delle nuove norme sulla revisione dei film, e in ogni caso non oltre il 31 dicembre 1957. A conclusione dei lavori, l’on. Brusasca ha rilasciato all’Agenzia Ansa alcune dichiarazioni, nelle quali ha sottolineato che la nuova legge contiene alcune ” importanti innovazioni” per ciò che concerne i film per la gioventù, i settori del cortometraggio e dell’attualità, la formazione delle commissioni, i premi ai film di qualità e le norme concernenti la inclusione deeli allievi del CSC fra i collaboratori dei film. Tra gli ordini del giorno, presentati ed approvati dopo la fine della discussione sulla legge, ordini del giorno che l’on. Brusasca ha accettato come raccomandazioni, ce n’è uno dell’on. Alicata di invito al governo a nominare una Commissione in cui siano rappresentati esponenti dell’arte e della cultura cinematografiche, della produzione e dell’esercizio, «al fine di compiere uno studio preliminare per la elaborazione di un definitivo disegno di legge che organizzi la produzione cinematografica in Italia». Un altro ordine del giorno, degli on. Semeraro. Selvaggi e Caiati. invita il governo a provvedere onde i 300 milioni previsti dalla legge a favore dell’Enic «vengano utilizzati per controllo dei mutui atti a coprire parte delle passività dell’Ente stesso»; un terzo ordine del giorno, infine, degli onorevoli Semeraro, Cappugi e Selvaggi fa voti perché il Governo chiami entro il 1957, un’unica persona a presiedere gli enti cinematografici statali (Cinecittà, Enic, Cines). persona che «sia in grado di interpretare in modo unitario le direttive della politica governativa».

Il Comitato permanente degli autori, registi e critici cinematografici ha quindi ribadito le sue richieste: 1) conferire al disegno di legge un carattere inequivocabile di provvisorietà stabilendo fin d’ora una scadenza più ravvicinata che sia possibile e, comunque, non posteriore al 31 dicembre 1957; 2) istituire in pari tempo una commissione per la immediata elaborazione di un testo unico sulla cinematografia.

Contemporaneamente è stato reso noto il testo del disegno di legge concernente la revisione del film e dei lavori teatrali, testo che è già stato approvato dal Consiglio dei Ministri. E’ composto di otto articoli due dei quali stabiliscono le nuove norme di censura mentre gli altri sei precisano le modalità da osservare per l’applicazione della legge. L’articolo 1 dice: «La proiezione in pubblico di film e la rappresentazione in pubblico di lavori teatrali di qualunque specie, nonché l'esportazione all’estero di film nazionali, sono soggetti a nulla osta della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il nulla osta è rilasciato da parte di speciali commissioni di primo e secondo grado». Il secondo articolo precisa che «non può essere rilasciato il nulla osta quando i film o i lavori teatrali riproducano soggetti o scene contrari al buon costume e aH’ordine pubblico od offendano la Nazione, il sentimento religioso o le pubbliche istituzioni». Queste norme regolano pure l’esportazione dalla quale sono esclusi anche quei film che possono turbare i rapporti internazionali.

Se si confrontano questi criteri con quelli che caratterizzano il codice fascista si scoprirà che nessun mutamento sostanziale è avvenuto. Volevamo una censura più responsabile, più consona alla nuova Costituzione democratica e in fondo non abbiamo avuto che delle leggi fasciste riscritte. La genericità delle indicazioni lascia alle Commissioni la più ampia libertà di censura e i censurandi sono oggi come ieri di fronte all'eterno dilemma: questo si può fare o non si può fare? Che cosa è il "sentimento religioso” per un censore? Avessero almeno scritto ”la religione”! Ma no, il "sentimento religioso". Di chi? Della beghina, del fanatico, del miscredente? Non si sa. E altrettanto dicasi del "buon costume" e de "lordine pubblico”.

Abbiamo visto come siano state intese queste generiche categorie dai censori del ventennio e dai loro epigoni repubblicani. Non era questa la legge che aspettavamo. Questa ha tutta l’aria di essere una burletta Volete assolutamente qualcosa di nuovo sulla censura? Ebbene prendetevi questi articoli che ricalcano esattamente quelli che vi stanno sullo stomaco. Anche i critici più facili ai compromessi, più ossequienti, di fronte a questo gioco di bussolotti hanno elevato la loro protesta. Sicché accanto a una "nuova" legge che non serve a nulla, abbiamo anche una "nuova" regolamentazione della censura che riabilita la concezione di libertà che fu cara ai fascisti.

Per concludere la burla basterà guardare come saranno composte le commissioni addette alla revisione: tre funzionari governativi, un magistrato, un insegnante di pedagogia e tre cittadini nominati dalla Presidenza del Consiglio. Nemmeno un esponente delia cultura, nemmeno un rappresentante delle varie categorie che operano nel campo cinematografico. Cosi impareremo a chiedere ciò che i superiori non ci vogliono dare.

Leo Penna, «Cinema», 25 maggio 1956


Esistono nel cinema, come nella vita, i figli legittimi e i figli bastardi, le opere che passeggiano liberamente sugli schermi, di dominio pubblico, di proprietà universale e lo pellicole proibite, nate-morte, sottratte agli occhi del più. Un tremendo ostacolo, la censura, si para al film subito dopo la lavorazione. Il capolavoro e lo scarto, la produzione media e quella spicciola, senza alcuna distinzione, devono superare il difficile esame prima di uscire alla luce del sole. E qualcuno cade. E' per questo che In Italia, dove fare un film è come partire per un’avventura ignota e dove il costo è altissimo, si sottopone alla censura non soltanto il soggetto ma l'idea stessa del film! 

Ma la censura non è un male italiano. Questa arcigna zitella, più illibata di cento donzelle messe insieme, prospera rigogliosa in tutte le nazioni del mondo, meno una: l’Olanda. Nella terra del tulipani non esiste alcun divieto agli spettacoli, lassù la gente vuole divertirsi in santa pace. Altrove la censura infierisce con svariate imposizioni ed è, a seconda delle latitudini, morale o politica rigida o bonaria, feroce o accomodante, uno strano molosso che impedisce a New York ciò che approva a Roma: Amore di Rossellini. O vieta a Roma ciò che consente a Parigi: La ronde di Max Ophuls. 

Essa stronca le visioni troppo crude, taglia i particolari più efferati, abolisce le azioni più raccapriccianti, gli strazi, i massacri, i tormenti più orribili. E fin qui potrebbe andar bene. Ma essa odia anche, e per questo l’abbiamo detta zitella, la bellezza del corpo, s’irrita per le nudità da museo, non tollera le donne discinte e vorrebbe ammantare con panno pesante le gambe, le braccia, il collo ed ogni altra deliziosa periferia femminile sempre in procinto di scoprirsi.

In Italia, dove non si vuol rimanere indietro a nessuno, la censura è integrale, morale e politica, tutelatrice e guardiana della pace spirituale delle famiglie e dell'ordinamento sociale. Certe nazioni sono segnate come pecore nere. La genuinità degli svedesi che mostrano spesso donne spoglie di vesti come i ghiacci del polo che non hanno vegetazione, o il cupo realismo dei francesi vanno a cozzare invariabilmente contro le lame censorie. Più tranquilli gli americani che partono da casa propria con un codice fornitissimo di imposizioni. Isterismi della zitella! Negli Stati Uniti si sopprime la scena del bambino di Ladri di biciclette che fa la pipi vicino al muro con la grazia di un cagnolino e si vieta a due coniugi di giacere insieme sotto le coperte di casto letto matrimoniale; a Londra si dà l’ostracismo all’innocente Don perchè parla con la divinità; In Germania si tollera la visione di donne nude (ricordate l'odalisca del Barone di Munchausen?); in Russia... Bè, lasciamo andare. 

Ma noi non stiamo più allegri. Lunga la lista del film proibiti in Italia. Merita di aprirla All'ovest niente di nuovo che ha collezionato due no: uno dalla dittatura e uno dalla democrazia. Il film di Milestone riesce evidentemente antipatico a molti. In realtà si tratta di un’ottima pellicola su un gruppo di giovani volontari dell'altra guerra. L'opera ha più di venti anni ma non dispera di ottenere il visto, un giorno o l'altro. Tanto più che è stata già doppiala. Potrebbe anche riuscirci, dato che è la censura morale la più difficile a mutar parere. 

La censura politica cambia più spesso criterio. Subito dopo la guerra, abbiamo potuto vedere i proibitissimi Scarface, Ultimo miliardario, Ninotchka. Lasciate invece ogni speranza per il già citato La Ronde che è troppo intessuto di un sottile, raffinato senso erotico. Allo stesso modo, dimenticate gli svedesi Giovanotto, godi la tua giovinezza, che piacque molto a Venezia nel 1939, e Ella danzò una sola estate che ha suscitato scalpore quest’anno a Cannes, costringendo alla fuga verso la comprensiva patria la bella Ulla Jacobsson, ripresa nei film vestita come Eva. 

II Dies Irae, danese, di Dreyer, aspetta da quattro anni. La ragione ufficiale è la mancanza al accordi in materia di scambi cinematografici fra il paese produttore e l’Italia. Da ciò dobbiamo dedurre che a Copenaghen non conoscono la Magnani e sanno di De Sica attraverso la lettura dei giornali! Peccato, perchè il Dies Irae è un buon film le cui scene hanno a volte l’atmosfera di un quadro di Rembrandt. 

L’elenco si sta facendo lungo. A sinistra, si fa per dire, rimane il gruppo dei sovietici, ma il cinema moscovita, in verità, non fa proprio nulla per sedurre la nostra austera zitella. Los oltridados e Terra senza pane di Bunuel, Lulsiana Story di Flaherty e Roma città libera di Faglierò, sono i capitoli più recenti di questa antologia del proibito. Accanto a loro Il diavolo in corpo, tolto, dalla circolazione dopo pochi giorni (un altro romanzo di Remarque che non ha avuto fortuna sullo schermo) e Greed di Eric von Stroheim, girato nel 1925 e censuratissimo anche in America, dopo che era costato un milione di dollari! E’ per questo forse che il regista germanico stenta tanto oggi a trovare produttori che lo finanzino.

In altri casi la censura è magnanima e si accontenta di tagliare le parti... incriminabili, facendo girare il resto del film. Tali invalidi possono riuscire gloriosi ma non possono piacere. A volte sono del tutto incomprensibili, dopo la rasatura di un simile barbiere, come Les enfants du Paradis, a volte sono reduci di una vittoriosa battaglia, come Manon, che a un primo esame non ottenne il visto. 

Poi c'è il sotterfugio del Vietato ai minori di sedici anni. Si spera così di ammansire la zitella, ma spesso tale etichetta è una trovata pubblicitaria piuttosto che vera precauzione. 

Roberto Mazzucco, «Film d'oggi», 31 dicembre 1952


Paura a Cinecittà

Il cinema italiano ha vissuto una settimana di panico, ma ora l’orizzonte va schiarendosi. L’unica Casa veramente comunista è la Cooperativa Spettatori Produttori. Cinematografici, che ha prodotto “Achtung, banditi!” “Ai margini della metropoli” e “Cronache di poveri amanti”.

Norme generiche

L’onorevole Ermìnì è un uomo di 54 anni, abile parlatore, professore di Storia del Diritto Italiano e Rettore dell’Università di Perugia. Moralista rigido e zelante, egli era già noto, sotto questo aspetto, per l’opera svolta contro gli eccessi della letteratura fumettistica destinata ai ragazzi. Per attuare la sua azione (anticomunismo e moralizzazione) egli agì subito con le Commissioni per la Revisione cinematografica, cioè con la censura.

In Italia la censura è ancora regolata dalla legge del 1923, le cui norme, piuttosto generiche, sono in pratica a discrezione di chi le applica, possono essere cioè estremamente severe o estremarnente blande, causando spesso contraddizioni. Nel lungo periodo in cui fu sottosegretario, l'onorevole Andreotti guidò la censura con un criterio abbastanza duttile. Al contrario, l’onorevole Ermini ha subito dimostrato di voler seguire una linea di condotta severa e intransigente contro i baci troppo lunghi o troppo audaci, contro le gambe nude o le scollature, contro tutto ciò, in generale, che egli ritiene offendere il senso morale e il pudore. Indicativa è questa frase che gli viene attribuita: «Abbiamo tante belle cose, oltre le donne!...». Così pure per quanto riguarda le offese alle istituzioni dello Stato e alla dignità nazionale. Prima vittima: «Totò e Carolina» di Mario Monicelli. Una commedia satirica che vuol far ridere il pubblico con le vicende di un agente di polizia (Totò) che, prendendo troppo sul serio la professione, eccede nel compimento del proprio dovere. La censura ha bocciato definitivamente il film (di cui non conosciamo la consistenza artistica) e i suoi produttori Ponti e De Laurentiis lamentano una perdita di 230 milioni.

Non è la prima volta che questi due produttori vengono alle prese con la censura. Essi hanno mostrato sempre di non accettare i «consigli» preventivi della Direzione dello Spettacolo. Il loro film «Anni facili», diretto da Luigi Zampa, ne fu, l’anno scotio, l’esempio più clamoroso.

Lettere di licenziamento

Ma allora, la satireggiata burocrazia non trasse vendetta né della sfida né della satira e la censura passò il film con qualche lieve taglio. La sfida continuò con La Romana, tratto da un romanzo che è all’Indice. Per quanto i personaggi e la vicenda di Moravia siano già stati nella sceneggiatura attenuati e modificati, non è azzardato dire che, a meno dì ulteriori concessioni, anche questo film rischia la sorte di «Totò e Carolina». Così «Mambo», con Silvana Mangano, che gli stessi produttori hanno attualmente in lavorazione nonostante le riserve della Direzione dello Spettacolo sull'audacia di alcune scene.

Il divieto alla programmazione di «Totò e Carolina», le voci su un possibile intervento della censura per «La Romana» e «Mambo», misero Ponti e De Laurentiis in difficoltà. Si fermò il credito bancario e i due produttori mandarono lettere di licenziamento al personale dei loro stabilimenti.

Il fatto non aveva alcun rapporto con l'agitazione per la legge sul cinema ma, poiché con essa coincise, si fece di ogni erba un fascio e si disse che l'insipienza del Governo provocava il fermo dell'attività cinematografica e che a breve scadenza anche la Titunus, la Lux e tutte le altre Case produttrici avrebbero seguito l’esempio di Ponti e De Laurentiis. Più tardi, la stessa Direzione dello Spettacolo contribuì a chiarire la situazione di Ponti e De Laurentiis, i quali continuarono la produzione: le lettere di licenziamento furono smentite e gli altri produttori smentirono a loro volta di aver avuto l’intenzione, per forzare la mano del Governo, di sospendere l'attività prodìuttiva in corso. In realtà, qualcuno aveva prospettato l'idea della serrata, ma era stata scartata. I produttori dichiararono di aver piena fiducia in una rapida e favorevole decisione parlamentare. [...]

Domenico Meccoli, «Epoca», anno V, n. 186, 25 aprile 1954


Le armi del censore

Si è notata, negli ultimi tempi, una recrudescenza di quelle manifestazioni di sanfedismo e di intolleranza nei confronti del cinema che fanno capo al noto censore onorevole Scalfaro. Lo Scalfaro, che è da qualche tempo preposto al Sottosegretariato per lo spettacolo, va facendo le spese dei giornali umoristici per le sue attitudini sempre più spinte all’uso delle forbici. E la cosa deve essere particolarmente grave, stavolta, se perfino un giornale ultragovernativo come il Messaggero di Roma è stato costretto ad apparire con due articoli, stilati dal suo critico, e tendenti a gettare un grido di allarme per quel che va accadendo nel cinema. Il critico del Messaggero, Ermanno Contini, ha usato una immagine assai interessante: stiamo attenti, egli ha detto, a non ripetere nel cinema quel che accade alla RAI dove, tanto per fare un esempio, un redattore del Radiocorriere è stato licenziato per aver pubblicato la foto di una cantante divorziata. L'esempio è interessante per due versi: da un lato perché rivela un episodio finora inedito e certamente assai significativo del malcostume che vige alla RAI, dall'altro perchè fa vedere a quali pericoli vada incontro il cinema italiano.

L’onorevole Scalfaro, del resto, ha mostrato di avere una visuale assai chiara, dal suo punto di vista. Egli vuole un cinema che non offenda « la religione, la patria e la famiglia ». Sono tre concetti assai vaghi, ma che per Scalfaro significano cose assai concrete: non facciamo film antifascisti, non parliamo di preti se non per esaltarne la gloria, non parliamo di faccende come il divorzio o altre cose proibite da Santa Romana Chiesa. E di fronte alla protesta crescente il censore (che del resto abbiamo già veduto all’opera per una serie di film, tra i quali Totò e Carolina e Il rosso e il nero, che ancora deve apparire) non ha certo abbassato le armi, ma anzi, con grande pervicacia, ha fatto notare, in un discorso a Milano, che questo è appena il principio, e che i cineasti farebbero bene a riflettere su quel che fanno. Di fronte a questo tono fascista i cineasti faranno certamente bene a riflettere: essi rifletteranno alla loro condizione di artisti che non debbono accettare le imposizioni di un politicante meschini, e alla lotta che li attende. Una lotta che sarà dura ma che, come tutte le lotte giuste, si annunzia ancora una volta vittoriosa.

T. C., «Noi donne», 1 maggio 1955


La legge sul cinema e sugli spettacoli teatrali che sarà presentata e discussa alla Camera va seguita con particolare attenzione: essa deve, infatti, regolare uno strumento, come la censura, che è la causa prima della conformazione del l’espressione artistica. Il possente risveglio che portò, per la seconda volta, il cinema italiano al primo posto nel mondo è strettamente legato al periodo 1945-47 epoca in cui i veti della censura riguardavano quasi soltanto i films che turbassero l rapporti internazionali.

La involuzione del film italiano iniziò subito dopo il 1947 anno che vide rinascere la censura per opera dell’Assemblea Costituzionale o che segna contemporanea mente lo inizio di una serie di pressioni politiche rese, possibili dalla censura, e di manovre ostruzionistiche operate dai Sottosegretari allo Spettacolo, da Andreotti ad Ermini, da Brusasca a Madrì. Fu, infatti, trasformata abilmente il mercato interno dei films e condotta una battaglia che ebbe i caratteri di una persecuzione odiosa contro il film italiano. L'allora sottosegretario, on. Andreotti, concesse più licenze di esercizio cinematografico a sale parrocchiali che a sale pubbliche. Sorsero così in Italia un considerevole numero di cinematografi parrocchiali - oggi circa 6000 - che costituiscono un mercato cosi vasto da influire direttamente sull’indirizzo della produzione per la larga possibilità che hanno di «smerciare» soltanto certi tipi di films e non altri. La discriminazione che fu iniziata contro il film italiano fu impressionante. I films italiani incontrarono estreme difficoltà a «passare» la censura. I films americani non ne trovarono alcuna. Stando alle cifre riportate da Ivan Cipriani, nel 1953 su 232 films USA ne furono accettati 228; su 147 italiani 125; nel 1956, in pieno svolgimento della censura preventiva, furono accettati 264 films USA su 267 e solo 51 films italiani su 96.

Le leggi sulla censura crearono certi incredibili «tabù» che Chiarini e Argentieri hanno ben messo in evidenza analizzando i soggetti di films respinti. I tabù sono costituiti dalla religione che deve essere come Madre Chiesa comanda (es. «Adamo ed Eva» respinto perchè ci si era permesso di amoreggiarci); dagli ecclesiastici di cui si ammette solo una retorica esaltazione (vedi i guai di «Una sola estate»); la polizia che è una istituzione incriticabile (peripezie di «Totò e Carolina» e le preoccupazioni per Totò vestito da celerino); gli industriali (nel film «Ragazze d’oggi» venne soppressa una frase pronunciata da una prostituta perchè osava affermare che la sua casa era frequentata da industriali); la satira politica, ammessa soltanto se rivolta alle opposizioni («Don Camillo» passò dopo lunghissime attese e peripezie); la «resistenza» (non si può par lare della «fuga su Lipari», degli errori di Mussolini, guai a parlare di films su Matteotti); l'esaltazione dell’opera di uomini eminenti non iscritti alla D. C. (vedasi la fine del soggetto sull’opera di Danilo Dolci); la «storia» (vedi le vicissitudini del film «Senso» e il divieto a fìms, anche se essi si chiamano «Fratelli d’Italia» e più di recente le peripezie della «Grande Guerra» che ha vinto il festival di Venezia); la «letteratura» (è giudicato immorale fare un films sull’opera «Cristo si è fermato ad Eboli» o sulla «Colonna infame» dello stesso cattolicissimo Manzoni).

Non sembra che la situazione politica attuale sia tale da poter sperare molto da una nuova legge sullo spettacolo: ma una limitazione delle repressioni deve essere attenuta ad ogni costo. Allo stato delle cose, sembra ancora opportuno un emendamento come quello proposto da Ferri-Luzzatto alla Commissione della Camera allorchè era ivi in discussione la legge sul cinema. L'emendamento sì proponeva di ridurre la censura a semplice istanza consultiva che poteva esprimere un parere sulla moralità o meno dei films presentati, senza giudizio vincolante e comunque con un giudizio contro cui si poteva ricorrere al Tribunale di Roma.

L’emendamento Ferri-Luzzatto, a quanto appare dalla arguta analisi che il Moscon ci ha fatto sui rapporti fra morale e diritto, si riferirebbe all articolo 528 C. P. che vieta gli spettacoli «che abbiano caratteri di oscenità» e all'articolo 529 per cui, non si considera oscena l’opera d arte ». Si può essere d’accordo con il Moscon ne) chiedere che il Magistrato abbia l’ausilio di un Comitato tecnico nel promulgare la sua sentenza in quanto il giudice può avere una competenza cinematografica media e non specifica.

Fabio Canziani, «Il Corriere Biellese», 11 dicembre 1959


Censura difficile

Sette film sono sotto giudizio presso la commissione di censura che non sa cosa decidere in attesa della legge che il Senato deve approvare

Sette film "difficili" giacciono attualmente nelle celle di via della Ferratella dove ha sede il Ministero del Turismo e dello Spettacolo. La commissione preposta alla censura li ha visionati ma non sa bene che cosa farne. Bocciarli in blocco? Chiedere ai produttori una trentina di tagli? Dare il visto? Ognuna di queste soluzioni comporterebbe dei gravi pericoli. Per bocciare in toto un film bisogna addurre delle ragioni gravissime, tali da tagliar corto alle inevitabili reazioni del produttore. E nessuno dei film in segregazione è in queste condizioni. Una trentina di tagli snaturerebbero completamente l’opera. La concessione del "visto", infine, potrebbe provocare l’intervento di un Procuratore della Repubblica, il sequestro della copia e l’inizio di un procedimento giudiziario che, forse, porterebbe sul banco degli accusati, accanto all’autore e al produttore anche i rappresentanti della censura amministrativa senza il cui "nulla osta” il reato non sarebbe stato commesso. Questa è la situazione che il Senato è stato chiamato a discutere in aula sul progetto di censura presentato dal Governo e approvato dalla Camera nel 1959, quando cioè la recrudescenza degli interventi della magistratura non si era ancora manifestata. Il progetto di legge discusso dai senatori è dunque ampiamente superato dagli avvenimenti di questi ultimi mesi.

Il conflitto fra potere centrale e magistratura non potrà essere ignorato. Così come non potranno essere ignorate le ragioni degli industriali, degli autori, della pubblica opinione che ha il diritto di sapere come e fino a qual punto nel nostro Paese' esiste la libertà di espressione. Ma questo non basta. Sappiamo da fonte ufficiale che il Governo presenterà al Senato alcune modifiche al progetto già approvato dalla Camera. Il ministro Folchi infatti ha elencato questi emendamenti nel corso di una conferenza ai parrocchiani di San Bellarmino. Si tratterebbe di portare a diciotto anni il limite del "divieto ai minori”; di restaurare la censura preventiva sui copioni; di togliere dalle Commissioni di censura il magistrato che, invece, assisterebbe alle proiezioni dei film in veste di Pubblico Ministero con la facoltà di iniziare immediatamente il procedimento penale contro l’opera e i suoi autori ove ravvisasse gli estremi di un reato perseguibile in base al codice penale. Le cose, come si vede, si aggraverebbero. Questo progetto di legge, già superato dagli avvenimenti e inadeguato, secondo le recenti esperienze, troverebbe tutti discordi e contrari. Però, grazie a questi emendamenti dovrà ritornare alla Camera dove si scontrerà con un progetto che tutti i partiti, tutte le categorie interessate e tutti gli intellettuali italiani hanno concordato e che il gruppo parlamentare della D.C. ha praticamente già fatto suo permettendo agli onorevoli Simonacci e Borin di firmarlo. Questa proposta di legge, nata in seguito all’Assemblea che si tenne al Teatro Eliseo, è frutto dei convergenti pareri di tutte le forze del cinema, fu pubblicato su quattro colonne dall’Osservatore Romano e fu approvato anche dal Centro Cattolico attraverso il suo rappresentante Emilio Lonero. Quindi non solo offre le più ampie garanzie ma raccoglie il placet di tutti.

E questo accade per la prima volta nella storia piuttosto caotica del nostro ordinamento censorio. Proponendosi di interpretare rettamente le norme sancite dagli articoli 21 e 33 della Costituzione, questo progetto riforma la struttura delle commissioni di censura immettendo i critici e i docenti; dà agli autori la possibilità del contraddittorio cioè la possibilità di difendere la loro opera prima che il giudizio venga reso ufficiale; fissa i termini della notifica delle decisioni rendendone pubbliche le motivazioni ed infine contiene due disposizioni che dovrebbero ridurre al minimo i contrasti fra amministrazione e magistratura. Infatti, passato il vaglio della censura ministeriale e del codice penale, il film non potrà più essere ritirato o incriminato. Il magistrato dovrà intervenire in questa prima fase, indipendentemente dal giudizio della censura amministrativa. Se ravviserà nell’opera gli estremi dei reato, potrà procedere dopo aver chiesto l’autorizzazione al Ministero di Grazia e Giustizia. In attesa del giudizio, però, il film potrà circolare liberamente evitando così ai produttori i danni di un sequestro preventivo dell’opera che domani potrebbe anche uscire assolta (ma rovinata finanziariamente) dal procedimento penale.

Fra le tante proposte di legge questa, nel giudizio di tutti è la più realistica, la più illuminata, la più moderna e si spera che il Governo voglia farla propria in base al principio che le leggi buone sono quelle che raccolgono l’approvazione del maggior numero possibile di quei cittadini che, da questa stessa legge, devono essere amministrati.

F. C., «Tempo», anno XXIII, n.13, 1 aprile 1961


I giuristi contro la censura

Al Convegno di Bellagio sui problemi giuridici dello spettacolo, uomini di diversa fede politica hanno concordato sulla necessità di abolire la censura cinematografica

Bellagio, maggio

Se dovessi definire con una espressione sintetica il carattere del convegno sugli aspetti giuridici della prevenzione e della repressione in materia di spettacolo, promosso dal Centro Nazionale di Prevenzione e difesa sociale, nella serie delle riunioni di studio dedicati a Enrico De Nicola (che ne fu prestigioso e indimenticabile presidente) lo direi di tono essenzialmente politico. Di un politicismo tecnico e strumentale, per non fraintenderci, inteso come valutazione critica diretta alla comprensione e alla risoluzione di un complesso di problemi che incidono sostanzialmente nella vita politica del cittadino, soprattutto in quel delicato settore che è la salvaguardia delle libertà.

Gli avvocati, i magistrati, i docenti di diritto che si sono raccolti a Bellagio, secondo una consuetudine che dura da anni (ed è umanamente piacevole, in fondo, ritrovare in questo angolo del lago di Como intenso di colore e di storia, gli stessi volti, gli stessi amici) hanno discusso a lungo sulla recente legge che ha abolito la censura per gli spettacoli teatrali, mantenendola per gli spettacoli cinematografici, limitatamente ai film o a quelle parti di film, offensivi del buon costume. Potrebbe sembrare un discorso semplice e, in un certo senso, definitivo; ma, a pensarci su, quali complicazioni di ordine etico, sociale, giuridico, insorgono ai margini di una legge, stampata in appena dieci paginette. Lasciamo pure nell’ombra le questioni di natura processuale, che rischiano di creare il disordine là dove dovrebbe regnare sovrano l’ordine (alludiamo all’amministrazione della giustizia, la Cenerentola della nostra società): così la competenza del Procuratore della Repubblica, che dovrebbe procedere contro i film offensivi del buon costume; la possibilità di sottoporre al giudizio del magistrato un film che abbia avuto il nulla osta della Commissione amministrativa, o lo ottenga nel giudizio dinanzi al Consiglio di Stato promosso dal produttore al quale il nulla osta venga negato in sede amministrativa, creandosi così la eventualità di conflitti tra diverse giurisdizioni; il sequestro del film che il magistrato inquirente ritenga contrario al buon costume, problema soprattutto di ordine economico, e su cui sono decisamente intervenuti l’avv. Alberto Dallora e il dott. Riccardo Peretti Griva, proponendo (e la mozione è stata approvata dal Convegno) che il sequestro da parte del Procuratore della Repubblica mantenga la sua efficacia solo se convalidato dal Giudice nel termine massimo di quindici giorni.

Sui problemi di fondo — il mantenimento della censura per il cinematografo, il film inteso come opera d’arte (e quindi sottratto alla sanzione giudiziaria anche se contenga alcune scene contrarie al buon costume), i limiti etico-giuridici del concetto di buon costume — la discussione non è certo stata univoca, ma prevalentemente orientata verso una soluzione liberale. E va sottolineato che i tre parlamentari presenti al convegno, di opposte idee politiche, e, diremo, di altrettanto diversa personalità, il senatore Umberto Terracini, l’on. Cesare Degli Occhi e il senatore Ottolenghi, hanno concluso per l’abolizione totale della censura. Ciò induce alla ottimistica considerazione che quando sono in gioco determinati principi della nostra vita sociale, gli uomini di buona fede concordano.

E vorremmo aggiungere che hanno concordato anche nella motivazione storica, etica e politica, poiché gli argomenti che si sono avvicendati, in una contesa dialettica vivace e appassionata, avevano un chiaro minimo comun denominatore: il rispetto della Costituzione repubblicana, che non comprende, fra i mezzi di prevenzione previsti per gli spettacoli cinematografici, la censura (si è infatti proposto il deposito della copia di ogni film presso l’ufficio del Procuratore della Repubblica); la fiducia nella magistratura, che già possiede, e saprà bene usarlo, il potere di repressione di tutti gli spettacoli offensivi del pudore: il richiamo alle due istituzioni che, senza dubbio più di ogni censura preventiva, rappresentano la salva-guardia del buon costume: la famiglia e la scuola. Magistrati e cultori del diritto, dunque, come Giacomo Deiitala, Massimo Severo Giannini, Paolo Biscaretti di Ruffia, Antonio Amorth, Pietro Nuvolone, Gian Domenico Pisapia, Giuliano Vassalli, Giuseppe Lattanzi, Enzo Capaccioli, e lo stesso presidente del convegno, Michele di Pietro, fedele alle tradizioni di serenità, di cortesia, di lucidità dialettica di Enrico De Nicola, hanno sostanzialmente condiviso gli atteggiamenti aperti e impegnati della miglior cultura italiana.

Emiliano Zazo, «Tempo», anno XXIV, n.20, 19 maggio 1962


Biagi: più grave se si censurasse una notizia. Bocca: cestiniamo chi non fa ridere

«La satira? Totò era un'altra cosa»

Cerami: è morta con Tangentopoli

«Censurare la satira, per carità. Ma cestinarla magari, quando non fa ridere». Giorgio Bocca come sempre non ha peli sulla lingua. E il coro scandalizzato che si è levato alto e compatto contro la richiesta della commissione parlamentare di Vigilanza di sospendere Blob, Schegge e Tunnel in campagna elettorale, non gli fa né caldo né freddo. «E' la reazione tipica della sinistra che butta in politica quel che politica potrebbe non essere», spiega. «Quello che mi fa più impressione è questa lode di una satira che somiglia piuttosto a una filodrammatica di paese. Perchè alla fine quelle di Tunnel non sono altro che imitazioni, intorno a cui i giornali di sinistra si mobilitano, allora poi si chiede la censura, e si grida allo scandalo. Tognazzi e Vianello sì che facevano ridere. E Totò, Walter Chiari. E Dario Fo, che era un vero artista. Ma questi, mi paiono dei dilettanti. Del resto quando diventa diva una come la Panetti, che non sa né cantare, né ballare, né recitare. E quella Marini, che è una specie di mucca».

Un po' di censura non fa male allora? «Il diritto alla satira c'è in tutti i Paesi, è ovvio. Ma qui mi pare che ci sia un po' di opportunismo. Tutte le volte che qualcuno attacca in qualche modo, quelli che fanno satira partono in tromba. Forattini stesso, che oggi se ne esce con quella vignetta, non è mai stato censurato. Eppure quante volte non si capisce o non fa ridere. Ma il suo rapporto con Scalfari è tale che se il direttore di Repubblica sì azzardasse a cestinarlo, si direbbe che lo censura. Non potrebbe mai farlo». Censura sì, censura no. Onorevoli che si preoccupano della turbativa, opinione pubblica turbata da quelle preoccupazioni. Enzo Biagi è, come al solito, tagliente e lapidario. «Io mi preoccuperei di più se ci fosse una censura della notizia, che mi pare un pericolo che incombe. Ma un provvedimento del genere... Fossero stati un po' più spiritosi avrebbero lasciato perdere. Se il destino della politica italiana è affidato a Blob e a Tunnel, c'è davvero poco da ridere». Maurizio Ferrara, senatore pidiessino, ex direttore dell'Unità, per anni membro della commissione di Vigilanza, di censure ne sa qualcosa.

«La tentazione di trasformare gli indirizzi in proibizioni e veti è sempre stata costante», ricorda. E spiega: «Se è rimasta una certa ipersensibilità per la censura, è perché per anni e anni, prima durante il fascismo, poi con la monocultura de, so ne è fatta tanta. Fino agli Anni Sessanta. Tognazzi cascava dalla sedia. "Ma che fai sembri Gronchi", gli diceva Vianello, alludendo a una caduta del presidente della Repubblica. E venne cacciato dalla Rai». E Blob e Tunnel? «A volte non capisco quello che dicono. Non sono Fo né Buster Keaton, ma non importa. Non ne farei un caso nazionale. Detto questo, perché poi non si deve parlare di politica in tv quando se ne parla dappertutto? Perché, quando la politica invade la vita in tutte le for ne, non può invadere anche la televisione?». Vincenzo Cerami, scrittore e sceneggiatore di molti film di Roberto Benigni, la butta sul leggero. «Mai come in questo momento un po' di sense of humor non guasterebbe. La satira è un gioco che fa rumore ma non influenza nessuno, magari potesse cambiare il mondo». Ma poi si mette a riflettere.

«E' un genere che viene dalla goliardia antica, che per funzionare ha bisogno di un potere forte e arcigno contro cui scagliarsi. O almeno di personaggi duri, compatti, seriosi. Ecco perché, dopo essere rifiorita alla grande con Bettino Craxi, è morta con Tangentopoli. Che gusto c'era prendersela con una politica già allo sfascio? Adesso c'è Silvio Berlusconi, ma è una caricatura anche troppo facile, con quelle luci soffuse, quell'aria imbalsamata, quel sorriso artificioso e sforzato sempre sulle labbra. I comici ci si buttano a corpo morto. Ma è sempre successo così. Prendersela è inutile. Tanto le idee, la satira non le sposta. Caso mai ai suoi bersagli finisce per far pubblicità».

Maria Grazia Bruzzone, «La Stampa», 5 marzo 1993


Riferimenti e bibliografie:
  • Documenti censura Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo - www.cinecensura.com
  • "Totò proibito" (Alberto Anile) - Ed. Lundau, 2005
  • I cattolici e l'osceno: tra censura amministrativa e revisione cinematografica - Tomaso Subini - arabeschi.it
  • Meccanismi di censura nel cinema - L'Italia degli anni sessanta - Grazia Saccente - issuu.com
  • "L'arte della commedia", Mario Monicelli, Dedalo, Bari 1986
  • Luigi Zampa, Che cosa pensiamo della censura, "Cinema", n. 87, 1° giugno 1952
  • "Censura romana",«Noi Donne», anno X, n.50, 18 dicembre 1955
  • Leopoldo Zurlo - Memorie inutili. La censura teatrale nel ventennio, Edizioni dell'Ateneo, Roma, 1952
  • "Follie del Varietà" (Stefano De Matteis, Martina Lombardi, Marilea Somarè), Feltrinelli, Milano, 1980
  • "Tempo di Maggio: Teatro popolare del '900 a Napoli" (Nino Masiello), Tullio Pironti Editore, Napoli, 1994
  • Angelo Cecchelin in "Il Giornale di Torino", 1946 - "Achab", n.516, 1976.
  • Video "Me ne frego! Il grande Totò e la censura del regime" - Canale Youtube HistoryIT
  • U. Guspini, «L'orecchio del regime. Le intercettazioni telefoniche al tempo del fascismo», Ed. Mursia 1973 (Intercettazione telefonica tra Mussolini e Leopoldo Zurlo, capo Ufficio censura del regime.)
  • Documenti censura (Film Totò e Carolina) Ministero dei Beni e per le Attività Culturali e per il Turismo - Direzione Generale per il cinema - cinecensura.com
  • Patrizia Ferrara, «Censura teatrale e fascismo (1931-1944) - La storia, l'archivio, l'inventario», Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Direzione Generale per gli Archivi (2004)

Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:

  • Marco Marchini, «Il Piccolo di Trieste», 10 aprile 1951
  • Vittorio Bonicelli, «Tempo», anno XVII, n.11, 17 marzo 1955
  • Filippo Sacchi, «Epoca», anno VI, n.231, 6 marzo 1955
  • «Epoca», 18 luglio 1970
  • Ugo Buzzolan, «La Stampa», 5 maggio 1973
  • al.c., «L'Unità», 17 novembre 1980
  • Liliana Madeo, «La Stampa», 15 luglio 1992
  • «La Stampa», 19 gennaio 1996
  • Aggeo Savioli, «L'Unità», 3 gennaio 1999
  • Tullio Kezich, «Corriere della Sera», 4 settembre 1999
  • Ernesto Baldo, «La Stampa», 6 settembre 1999
  • Giuseppina Manin, «Corriere dell'Informazione», 6 settembre 1999
  • Ranieri Polese, «Corriere della Sera», 6 settembre 1999
  • Paolo Petroni, «L'Unità», 1 novembre 1999
  • Ranieri Polese, «Corriere della Sera», 28 gennaio 2005
  • Maurizio Assalto, «La Stampa», 17 febbraio 2005
  • Paolo Mereghetti, «Corriere della Sera», 17 marzo 2008
  • Peppe Aquaro, «Corriere della Sera», 18 ottobre 2008

  • Fernaldo Di Giammatteo, «Il Dramma», 1 febbraio 1948
  • Jerome, «Tribuna Illustrata», 22 agosto 1948
  • B., «Cinema», 25 novembre 1948
  • Umberto Barbaro, «Noi donne», 9 aprile 1950
  • Albino Galletto, Presidente della Commissione di Revisione, «Il Piccolo», 15 giugno 1950
  • Arnaldo Fratelli, «La Gazzetta di Reggio», 30 giugno 1951
  • «Epoca», 24 novembre 1951
  • Leonardo Azzarita, «Epoca», a.III, n.70, 9 febbraio 1952
  • Leo Penna, «Cinema», 25 maggio 1956
  • Roberto Mazzucco, «Film d'oggi», 31 dicembre 1952
  • Domenico Meccoli, «Epoca», anno V, n. 186, 25 aprile 1954
  • T. C., «Noi donne», 1 maggio 1955
  • Fabio Canziani, «Il Corriere Biellese», 11 dicembre 1959
  • F. C., «Tempo», anno XXIII, n.13, 1 aprile 1961
  • Emiliano Zazo, «Tempo», anno XXIV, n.20, 19 maggio 1962
  • Maria Grazia Bruzzone, «La Stampa», 5 marzo 1993