Alla censura è vietata l'intelligenza?
La questione dei rapporti tra il cinema e la nostra censura va diventando ogni giorno più scabrosa, ed assume aspetti via via più idonei a stimolare le apprensioni di quanti saluterebbero ancora con piacere la comparsa di qualche buon film italiano, cosa alla quale, dopo qualche anno di "grassa”, ci veniamo progressivamente disabituando. Per una parte della critica, anzi, la ragione della decadenza è tutta lì, nei freni sempre più robusti che si pongono ai registi e, in genere, ai responsabili della fattura dei film : ma già altra volta ho detto di non saper del tutto condividere un tale punto di vista, ritenendo che si possano trovare altre e non meno importanti motivazioni all’attuale "crisi” del cinema italiano. Il che non significa, naturalmente, che la censura non abbia influenze, o che essa possa meritarsi entusiastiche approvazioni.
«Tutti sanno che La legislazione vigente è confusionaria, che contiene norme assurde (le stesse del periodo fascista), che ostacola, sul piano artistico, morale ed economico, lo sviluppo del cinema italiano. E se provassimo a cambiar metodo? Se provassimo ad affrontare seriamente il problema, ad escogitare una legislazione precisa, civile, democratica? A rigore, non ci sarebbe che una soluzione civile (checché ne pensino gli immorali moralisti di tutte le congreghe) : abolire senz'altro la censura e i controlli : e non succederebbe proprio nulla, non scoppierebbe nessuna rivoluzione, e la gioventù non si travierebbe più di quel che si travia attualmente, e il numero degli incesti, delle frodi, degli accoppamene e degli adulteri rimarrebbe stazionario». Questo scrive la "Rassegna del Film”, nell'editoriale del n. 8 del novembre scorso; e questo si chiama parlar chiaro. Ma significa anche, nella situazione attuale del nostro paese, parlare a vuoto, sapendo in partenza che nessuno si adopererà mai a realizzare quello che si è auspicato. E allora è forse più utile, dopo essersi guardati bene attorno e aver cercato di valutare quello che si può e quello che non si può fare, esaminare la faccenda con maggior senso realistico, dal momento che ia censura la si deve considerare un male inevitabile.
Certamente le proibizioni non avrebbero senso alcuni su di un piano estetico, poiché è chiaro che non potrebbero davvero stabilirsi dei limiti, in questa direzione, alle possibilità di dar vita ad un'opera d'arte. Esse derivano da preoccupazioni del tutto pratiche. Considerata la capillare diffusione del cinema, la possibilità per esso di venire a contatto con qualsiasi tipo di pubblico, è necessario — si dice — difendersi contro i nefasti influssi che esso potrebbe avere, in specie nel campo morale. Questa è, in fondo, l'argomentazione contro cui finirebbe per spuntarsi qualunque iniziativa ingenuamente libertaria. E potrebbe anche essere una argomentazione abbastanza onesta, se nei suoi confronti non si potessero muovere alcune fondate obiezioni. Intanto: perché al cinema certe cose non si possono dire, mentre nessuno si sogna di vietarle — almeno per ora — a chi si serve di una diversa forma d’espressione? (Non vorrei adesso che qualcuno dovesse ritenere arrivato il momento di mettere le cose in parità, naturalmente a tutto svantaggio di quelle altre forme di espressione). Chiunque può entrare in una libreria e procurarsi, con una spesa uguale o di poco superiore a quella di un biglietto d'ingresso in un cinematografo, libri a) cui confronto i proibitissimi La Ronde o Le Diable au corps farebbero la figura di spettacoli edificanti. Sono ad esempio in circolazione certe traduzioni di romanzi "neri” americani, nei quali gli amori dei gangster vengono descritti con incredibile dovizia di particolari, senza contare la caterva di rotocalchi a buon mercato, ricchi di fotografie che certo non rappresentano, per i giovinetti, un invito alla continenza.
E pazienza poi se questa sua opera tutelatrice — che è l'unica, in ogni caso, per cui essa possa dichiararsi competente — la censura svolgesse con solerzia e senso di misura. Accade invece esattamente il contrario. A chi scorresse un elenco, magari sommario, dei film proibiti per una ragione o per l'altra, salterebbe subito all'occhio il fatto che, tra di essi, la percentuale di quelli da ritenere importanti per giudizio di chi ha avuto il bene di vederli, o perché chi avrebbe dovuto farli era un regista di prim'ordine, è straordinariamente alta. Circolano viceversa con assoluta libertà, e accompagnati da comprensivi sorriseci di indulgenza, chilometri di pellicola stipata di carne femminile messa in bella evidenza. Non sono cose serie, si dice, accompagnando magari le parole con una strizzatina d'occhi. Ma è proprio nella mancanza di serietà la ragione della loro immoralità. Perché anche il moralista pignolo non potrà esimersi dal giustificare certe libertà di rappresentazione (chiamiamole cosi), ove esse abbiano il valore di semplici particolari, necessari ad illustrare ambienti o problemi umani, ove insomma non siano che elementi isolati riconducibili a ben diverse significazioni. Ma nei casi di cui si parla, non c'è proprio nulla — salvo la leggerezza — che possa giustificarle: qui film interi ruotano e si sostengono c puntano al successo in loro funzione, non hanno ragione di essere al di fuori di esse e in esse si esauriscono. E che cosa valga ad escludere, per i nostri censori, l'immoralità di questi prodotti concepiti unicamente per mettere in agitazione le platee con la presentazione delle riposte bellezze delle varie Silvane e Gine nazionali, è cosa assai dura da intendere.
In ogni caso, quello della tutela dei cosiddetti "valori morali” è l’unico campo nel quale una censura onesta (ammesso che possa essercene una) dovrebbe tenersi. E non è certo la nostra a restarci, la tendenza che noi buoni italiani abbiamo cosi radicata, a trasformare in regime i governi, accompagnata dai residui duri a morire di una mentalità fascista, insofferente di critiche e per altro verso incline a spostare il centro di qualsiasi problema verso il più squallido qualunquismo, han fatto prendere ai veti di natura politica proporzioni allarmanti. La lista dei film che si sono arenati per ragioni di questo genere (anche se esternamente le cause possono apparire diverse) sta diventando interminabile. Fare film di critica sociale diventa impossibile, gli altarini vanno sempre più tenuti ricoperti e gli stracci sporchi lavati in famiglia; cosicché non c’è da meravigliarsi, se poi vien fuori qualche pezzo grosso il quale, con la mentalità del classico generale "mannaggia la Rocca", fa mettere in galera questo e quello al fine di difendere l’onore e gli "immutabili destini”. Senza avere il tempo — o magari i mezzi — per pensare che li ha offesi non chi si è preso la briga di gettare uno spiraglio di luce su certe verità, per scottanti che possano essere, ma invece chi, con la divisa addosso, si dedicava a quelle poco onorevoli attività sulle quali si vorrebbe poi gettare una discreta ed ipocrita cortina di silenzio. Nella lista nera, che é aperta dal caso — incredibile se non fosse vero — di All Quiet on the Western Front di Milestone, vietato dalla dittatura e rivietato da questa nostra malsicura democrazia, figurano con onore i nomi di Antonioni, di Lizzani, di Visconti, di Lattuada, di De Santis e di tanti altri ancora; del tutto politico è poi il veto alle pellicole orientali. E in elenchi del genere si potrebbe, avendone voglia, seguitare per un bel pezzo.
Ce n'è insomma abbastanza, anche a non volerla fare troppo lunga, per chiedere alla censura di fermarsi un momentino ad osservare i propri sistemi, per prendere qualche onesta risoluzione, che restringa intanto il suo campo d'azione alla difesa della pubblica moralità, lasciando da parte le valutazioni politiche. Come riuscire a farci capire la grande differenza che esiste tra i paesi a regime dittatoriale, nel quale è vietato agli oppositori di esprimersi, e il nostro, democratico, nel quale altri oppositori non possono manifestare liberamente le loro idee di critica, e magari di rifiuto di un sistema? Si tratterà anche di idee sbagliate. ma non &i vede perché debba essere proibito esprimerle attraverso il cinema, se tutti possono sbandierarle dai balconi. E, anche senza andare al dibattito tra le fazioni politiche, si vorrebbe che la censura operasse con maggior senso di serietà, che indirizzasse i suoi strali verso quei registi che continuano a sfornare film senza alcuna importanza, senza scopo, senza speranza — ì soli che siano veramente immorali, — e lasciasse in pace coloro che lavorano seriamente; sforzandosi di capire che la forza di una nazione non si fonda sullo sbandieramento dei destini più o meno supremi, ma sulla coscienza di quel che si vale, in bene ed in male. E non si dica che sono tanti e tanti gli argomenti di cui i cineasti potrebbero occuparsi: tra i tanti ci sono anche quelli ; né si vede perché dovrebbe essere proibito occuparsene.
In quanto all'opera materna che tanto sta loro a cuore, sembra lecito chiedere ai censori che la svolgano con maggiore intelligenza. E' ridicolo impedire a delle persone normali di andare a vedere (spulcio qualche titolo, tra i tanti) Topaie, Clochemerle o A Steetcaar Nam ed Desire, come è ridicolo tagliuzzare brani di pellicola che si ritengono scabrosi. Che si prendano diversi provvedimenti : che si elevi, ad esempio, in certi casi, il limite delle proibizioni ad assistere alle proiezioni, portandolo a diciott’anni, e lo si faccia rigidamente osservare. Ma si finisca di considerare lo spettatore un deficiente o un vizioso, e il cinema un'arte destinata a rimanere forzatamente in sott’ordine rispetto alle altre.
Mi sembra che, detto in breve, questo sia il po’ che si può chiedere ad una censura che sia decisa ad uscire dagli equivoci nei quali per ora è impastoiata, con grave pregiudizio e per il proprio prestigio, e per il nostro cinema. Se male ha da essere — ed è inevitabile die lo sia — che sia almeno il minore possibile.
Giuseppe Sibilla, «Cinema», n.118, 30 settembre 1953
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Giuseppe Sibilla, «Cinema», n.118, 30 settembre 1953 |