La censura colpisce meno di un film su duecento
Si può dire con certezza che la nostra censura è tra le più tolleranti del mondo
Roma, dicembre
Ogni tanto, gli ostacoli che questo o quel film incontra nel passare dalla lavorazione alla programmazione, rammentano l’esistenza di una censura sugli spettacoli, indignando taluni, come se si trattasse di una sopravvivenza della dittatura, stimolando talaltri a protestare perché il controllo non viene attuato con maggiore severità. In tutti i Paesi del mondo, invero, di qua e di là dalla cortina di ferro, il cinema, il teatro, la rivista sono sottoposti a censura preventiva: di qua più che altro per motivi di moralità sociale, di là più che altro per motivi politici.
TIMORI PER “ANNI DIFFICILI”
In Italia la censura ha dei limiti ben definiti, e raccolti in un elenco che ogni censore conosce a menadito: offese al pudore, al buon costume, alla decenza; oltraggio alle istituzioni o alle autorità pubbliche, quali l’esercito e le forze dell’ordine; apologia di reato e incitamento all’odio tra le classi; soggetti truci o repugnanti, crudeltà eccessive, anche contro gli animali; delitti ed omicidi impressionanti, operazioni chirurgiche (per esempio l’elettrochoc nella Fossa dei serpenti) : fatti e soggetti che siano incentivo al delitto; scene contrarie al decoro nazionale, soprattutto se possano turbare l’ordine pubblico (sulle prime si dubitò molto per Anni difficili) o i buoni rapporti internazionali. Applicati alla lettera questi criteri, forse la metà degli spettacoli dovrebbe subire mutilazioni. Di solito però la censura si impunta solo nelle situazioni più evidenti, per il resto consiglia qualche faglio o la modificazione di qualche battuta del dialogo; e i film bocciati del tutto, si conteggiano nella media di uno ogni duecento, e meno ancora, mentre i copioni teatrali non approvati sono rarissimi.
La censura cinematografica ha una organizzazione gerarchica, come una autentica magistratura. C’è per tutti i film un giudizio di prima istanza, davanti ad una delle quattro commissioni costituite dalla presidenza del consiglio, ciascuna composta di un funzionario, di un magistrato e di un rappresentante del ministero dell’interno. Davanti ai censori devono passare le pellicole già doppiate in italiano, se di provenienza estera, e corredate di tutto ciò che sarà poi presentato al pubblico; soltanto nei casi che si prevedono controversi, la casa produttrice o distributrice prega la commissione di esaminare.il film in originale.
Più che in decreti, dicevamo, il giudizio dei censori si manifesta in consigli. Qualche metro di pellicola tagliato (qualche "primo piano” di soubrettes asportato dai Pompieri di Viggiù, ad esempio), risolve gravissimi problemi di decenza e di opportunità. Le bocciature vere e proprie, quelle che fanno parlare di sé, si contano sulle dita di una mano: Gioventù perduta, Il diavolo in corpo, ed ora Manon di Clouzot. Ma in questi casi i produttori o i noleggiatori si appellano alla commissione di secondo grado, che è presieduta personalmente dall’on. Andreotti, sottosegretario alla presidenza, e composta di un alto magistrato e di un alto funzionario del ministero degli interni. Gioventù perduta era stato giudicato un film troppo crudo, impossibile ad epurarsi, senza distruggere l’insieme della composizione: ma Andreotti fece modificare due battute di dialogo, e tutto andò per il meglio, senza reazioni tra gli spettatori. Il diavolo in corpo trovò invece maggiori opposizioni. Tutto il film era pregno di sensualità e di perversione; non solo la commissione di prima istanza, ma anche quella suprema si trovarono imbarazzatissime nel dar libera circolazione ad un simile lavoro, pur mutilato nei passi più scandalosi: tant’è che in provincia ne seguirono vere e proprie sollevazioni, in alcune città commissioni di cittadini si recarono a protestare alla prefettura e alla fine la pellicola fu esclusa definitivamente.
In questi giorni tocca ad un altro film, francese e premiatissimo, di aver a che dire coi censori italiani. Manon aveva trovato oppositori fin dal momento in cui venne iscritto al Festival di Venezia, e fu necessario allora l’intervento del direttore di quella mostra, perché potesse partecipare, e vincere, il concorso: Venezia in fondo è una "zona franca” dal punto di vista morale, così come lo è per legge dal punto di vista doganale. Doppiato poi Manon in italiano e pronto per la pubblica visione, di nuovo i censori di prima istanza hanno espresso parere negativo, anche in questo caso essendo impossibile ovviare con pochi tagli al marciume morale e alla necrofilia autentica che trasudano dall’opera. L’ultima parola, come di consueto, toccherà all’on. Andreotti, ma già si prevede che, con due o tre tagli, il giovane sottosegretario darà il suo beneplacito, riaccendendo le ire di quegli ambienti cattolici molto ortodossi (come il Centro cattolico cinematografico, che attua una propria severissima censura), i quali gli rimproverano l’eccessiva liberalità.
LARGHEZZA PER IL TEATRO
Uguale indulgenza è stata imputata finora all’on. Andreotti e ai suoi funzionari a proposito della "censura artistica" che si esercita sui film italiani. Presso la presidenza del consiglio esiste infatti un "comitato tecnico” di funzionari e di tecnici, col compito preciso di stabilire quali film nazionali abbiano i requisiti di dignità artistica, per essere ammessi al premio governativo del 30 per cento, all’eventuale premio aggiuntivo del 6 per cento, e alla programmazione obbligatoria. Finora questi commissari sono stati molto generosi con tutti, hanno elargito a piene mani premi e facilitazioni; solo di recente si sono fatti più severi, già sono cominciate le prime esclusioni, per cui mostri cinematografici come La figlia della Madonna o Se io fossi deputato, ad esempio, non conteranno d’ora in avanti in quella quota di prodotto nazionale che ogni cinema deve proiettare in ciascun trimestre. Uguale severità si sta per adottare coi documentari, spesso malamente raffazzonati.
La censura teatrale è molto meno complicata. Essa si riassume press’a poco nella persona del capo-censore, che è attualmente il commediografo Cesare Vico Ludovici. Personalmente, e con molta larghezza di vedute, egli esamina i copioni, caso per caso si consiglia con gli attori e i capocomici, onde la sua è una censura in famiglia, alla buona, senza clamori.
Negli ultimi tempi è prevalso il criterio di colpire soltanto quei lavori apologetici delle perversioni sessuali, che tennero cartellone nell’immediato dopoguerra, grazie soprattutto agli autori francesi. Perciò si è proibita una commedia di Roussin, Le uova dello struzzo, legata al tema specifico degli amori omosessuali, benché a Parigi essa avesse ottenuto un grande successo; anche una ripresa di Fior di pisello pur già "approvata” nel 1945 dall'avv. Arpesani, predecessore di Andreotti, è stata ora vietata, e la compagnia Cimara, che aveva già cominciato a metterla in scena, ne ha ottenuto un giusto indennizzo; forte delle altrui esperienze, anche Evi Maltagliati ha rinunciato all’idea primitiva di riprendere La prigioniera di Bourdet. Di questi giorni, invece, Cesare Vico Ludovici ha vistato, pur dopo dubbi e travagliati consulti, Il germoglio di Feydeau, che narra la vicenda di un seminarista trascorso dal chiostro al matrimonio, e un’altra commedia francese, Luciano, il macellaio, piena di esplosioni carnali; e malgrado le mille proteste giunte da ogni parte, ha lasciato rappresentare senza alcuna mutilazione Quel piccolo campo di Peppino De Filippo, commedia di spinto anticlericalismo.
LA CENSURA DEI MANIFESTI
Gli inconvenienti vengono di solito dalla rivista. I capocomici presentano copioni castigatissimi, quanto a morale e quanto a riferimenti politici, poi, col pretesto delle improvvisazioni, sciorinano battute e barzellette che il censore avrebbe sicuramente cancellate. Allora intervengono le autorità provinciali, che non sempre colpiscono giusto, denunziano magari Rascel per una caricatura dell’on. De Nicola che il censore aveva accettato, non si preoccupano invece di certe apologie della dittatura, di moda presso comici di secondo piano e abusivamente recitate.
Una censura tutta particolare è quella dei manifesti. Ogni questura ha il suo "ufficio spettacoli”, che esamina tutti gli stampati di pubblicità murale, con diritto di appello, per gli interessati, alla presidenza del consiglio. Qui i conflitti tra case produttrici e funzionari di P. S. sono frequentissimi, sia perché questi ultimi, come tutti i funzionari in genere, spingono le loro cautele molto più in là di quanto non pretenderebbero i loro superiori; sia perché le case usano metter i censori di fronte al fatto compiuto, non sottoponendo al loro esame i bozzetti dei manifesti, bensì i manifesti già stampati e pronti per il lancio. Il rimedio più comune lo realizzano gli attacchini comunali, quando si impegnano di coprire con gli striscioncini variopinti del "prossimamente” le parti più scabrose del manifesto; ma ciò non toglie che, di tanto in tanto, il direttore generale dello spettacolo si presenti nello studio dell’on. Andreotti con fasci di manifesti tra le braccia, per invocare il suo giudizio supremo; o che gli agenti della Celere con jeep e sfollagente siano inviati a grattare dai muri della capitale la parte inferiore di un manifesto preannunziante la proiezione del film Salomè.
Ugo Zatterin, «Oggi», anno V, n.50, 1 dicembre 1949
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Ugo Zatterin, «Oggi», anno V, n.50, 1 dicembre 1949 |