Totò e Carolina: due disavventure per Steno e Monicelli

Totò e Carolina

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I registi Steno e Monicelli sono uniti non soltanto per una lunga consuetudine di sceneggiature e di film realizzati in tandem, ma anche singolarmente, per la medesima sventura che li ha colpiti quando hanno rea lizzato due opere diverse, senza che l’uno si interessasse all’altro. Perchè sia Steno sia Monicelli sono stati le più recenti vittime della censura clericale, gli involontari protagonisti di due clamorosi episodi. Si tratta, per Mario Monicelli, del film di cui pubblichiamo la storia in queste pagine, Totò e Carolina; mentre per Steno (il cui vero nome è Stefano Vanzina) si tratta del film Le avventure di Giacomo Casanova.

li caso di Totò e Carolina è noto perchè molto se ne è parlato. Il film è pronto da più di un anno, ma non è potuto apparire prima sugli schermi perchè la censura si è impuntata come un cavallo imbizzarrito. Le nostre lettrici, scorrendo la storia del film, non troveranno certamente nulla che possa ledere, come era stato detto, la famiglia, la morale, la patria e le forze armate. Non vi troveranno nulla di rivoluzionario e di tremendo. Si tratta soltanto della storia di un agente di polizia che non ha una terribile grinta, ma si dibatte nei suoi problemi umani: un uomo come gli altri, visto con ironia, ma con patetica comprensione. Ecco dunque una patente offesa alle forze di polizia secondo le concezioni della censura clericale. Ed ecco i tagli, le sforbiciate a man bassa. Si è giunti a tirare e mollare cinque o sei volte, e si dice che il film sia stato visionato addirittura dall’onorevole Scelba, prima che fosse concesso il sospirato « visto ». Si è giunti a vette di ridicolo, come quando si è preteso che un gruppo di comunisti che appaiono ad un serto momento nella storia non cantassero Bandiera rossa ma la canzone Osteria del Piave.

Il che fa pensare che forse i nostri censori sono regolari frequentatori di osterie e il loro lavoro ne risente parecchio. Tuttavia non si può dire che proprio l’onorevole Scalfaro sia un frequentatore di osterie. Egli è un frequentatore di locali più lussuosi, e fu proprio in uno di questi che compì la storica impresa di schiaffeggiare una signora che, a suo avviso, aveva le spalle troppo scoperte dall’abito estivo. Con l’onorevole Scalfaro la morale è in buone mani. E per fare onore alla sua nomèa egli ha tolto dalla circolazione, dopo un mese dalla programmazione sui pubblici schermi, il film, di Steno Le avventure di Giacomo Casanova. Il sottosegretario allo spettacolo ha motivato l’incredibile provvedimento con il fatto che, dopo avere concesso il «visto» egli aveva avuto una serie di proteste da parte degli aderenti alla Azione Cattolica. Egli, invece di consigliare agli aderenti alla Azione Cattolica di non andare a vedere film che potrebbero turbare la loro vita intima, è ricorso a provvedimenti più draconiani.

La cosa è assai grave, ed ha suscitato, com’è noto, un vespaio in ogni campo. Basti pensare che il giornale della Azione Cattolica, il Quotidiano si è dato d’attorno a raccogliere dichiarazioni di solidarietà con Scalfaro ma non è riuscito a trovarne una, una sola, che provenisse da un uomo di cinema. Gli uomini di cinema, in questa occasione, sono stati più solidali che mai, nella indignazione e nella protesta. Essi non hanno esitato un attimo a prendere posizione. E’ intollerabile, infatti, che le sorti di un film (che costa non solo milioni in denaro ma soprattutto sforzi e fatiche da parte di tanti uomini e donne in esso impegnati) sia posto alla mercè di un sottosegretario che ad ogni passo rivela di essere un incosciente oltreché un incompetente.

A noi non interessa, infatti, sapere se Le avventure di Giacomo Casanova è un buon film o un cattivo film. Di ciò farà giustizia il pubblico, decretando, a suo parere davvero insindacabile, il successo o l’insuccesso. Il problema non è questo, in questa sede. E’ un problema di libertà, che interessa il cinema, come ogni altro settore della cultura e della vita nazionale. Il problema è quello della carenza della legge o, peggio, della intollerabile legge fascista. Occorre dunque, urgentemente, che vi sia una legge nuova e precisa, che limiti i confini della censura e tolga ad un uomo di governo quei poteri che egli oggi dice di avere e che usa in questo modo assolutamente dittatoriale.

V. C., «Noi Donne», anno X, n. 13, 27 marzo 1955


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Totò appare in questo film nei panni dell’agente Caccavallo, un brav’uomo che è ossessionato dall’ambizione di passare di grado, e che cerca di mostrarsi zelante in ogni occasione. Cosi egli arresta Carolina (Anna Maria Ferrero) accusandola di essere ima peripatetica. Carolina, invece, è una servetta giunta dal paesello a Roma e che, avendo avuto una grossa delusione, medita di uccidersi. Al Commissariato, non vista, Carolina ingoia un flacone di pastiglie di sonnifero. e sviene nell’ufficio del Commissario, proprio mentre questi sta andando su tutte le furie a causa dell’equivoco in cui è caduto l’agente Caccavallo. Non è la prima volta che Caccavallo combina pasticci di questo genere. Egli ha arrestato, infatti, la ragazza senza alcuna prova di una sua colpevolezza.
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Ora il Commissario manda Carolina all’ospedale, per tentare di salvarla dall’avvelenamento. Caccavallo, che è responsabile di tutto, viene inviato anche egli all'ospedale, a sorvegliare Carolina, e far sì che ella abbia le cure del caso. La preoccupazione maggiore del Commissario è che la cosa si risolva senza clamore, senza scandalo. Purché Carolina sia dichiarata fuori pericolo, tutto andrà bene. Anche in questa occasione Caccavallo è zelante fino all’eccesso. Egli è sempre convinto che Carolina sia una poco di buono, e la sorveglia continuamente. Attende fuori della sala dove stanno facendo la lavanda gastrica alla ragazza, non si fida delle assicurazioni del medico, dorme in un lettino della corsia, per sorvegliare direttamente Carolina e non lasciarsi sfuggire alcun indizio.
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Anche durante il breve soggiorno di Caccavallo all’ospedale hanno luogo episodi che mostrano quale sia la psicologia dell’agente. Ad esempio: egli non perde occasione di tirare fuori il regolamento del corpo delie guardie, e di studiarlo, in vista dell'esame che dovrà sostenere. Mentre sta biascicando gli articoli del regolamento passa una suora e gli batte una mano sulla spalla: «Coraggio, figliolo!» Il mattino dopo Carolina è fuori pericolo. Ma c'è una complicazione: l’episodio è giunto alla stampa, la quale, naturalmente, riferisce in termini assai duri la cantonata di Caccavallo. La cosa è resa più grave dal responso del medico : Carolina ha una mania suicida. Il Commissario incarica Caccavallo di ricondurre Carolina al suo paese e di consegnarla a una persona di fiducia.
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Per Caccavallo si pone un problema assai grave: se veramente Carolina ha una mania suicida bisognerà sorvegliarla attentamente ogni minuto della giornata. E’ una responsabilità, per Caccavallo che vede in pericolo la sua promozione. Se egli non adempie bene a questo compito non sarà mai nominato guardia a cavallo! Prima di partire per il paese di Carolina, Caccavallo conduce la ragazza a casa sua. Egli, infatti, deve avvertire la famiglia, e cambiarsi d’abito. Caccavallo è un vedovo, che vive in una misera casa con il figlio e il vecchio padre. Nei momenti liberi egli scolpisce, in mollica di pane, il busto del commissario: è un’arte che ha appreso da un detenuto, durante gli anni che è stato di guardia alle carceri.
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Comincia il viaggio da Roma al paese di Carolina. Caccavallo ha avuto una jeep, e a bordo di essa si accinge a compiere la sua missione. Carolina fa in modo di sviarlo dalla giusta strada, ma Caccavallo sta all’erta. Il suo « naso » gli permetterà — egli ne è convinto — di avere ragione della malizia e della furberia della ragazza e di condurre a termine il suo arduo compito. Le disavventure, naturalmente, cominciano fin dall’inizio, e sono molte. Carolina, ad esempio, non ha mangiato da due giorni e soffre il mal d’auto. Caccavallo è costretto a fermarsi per farla star meglio. Ma sarà proprio lui, alla fine, dopo una movimentata corsa con la jeep, a sentirsi malissimo, e si trova nella necessità di essere soccorso dalla ragazza che dovrebbe sorvegliare.
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Ad un certo punto del tragitto la macchina di Caccavallo è costretta a fermarsi bruscamente dinanzi ad un passaggio a livello chiuso. Appena l’agente ha frenato, la sua jeep viene tamponata da un camion dal quale provengono grida gioviali. Caccavallo crede che sia un autocarro carico di comunisti, che egli ha superato poco prima, e scende furente dalla jeep. Ma i suoi bollori si freddano quando egli si accorge che si tratta di un gruppo di giovani di Azione Cattolica guidati da un prete. «Scusi tanto, reverendo!», dice Caccavallo. Il gruppo di comunisti, tuttavia, sarà utile a Caccavallo poco dopo, quando la sua jeep andrà a finire in bilico su uno strapiombo, per una falsa indicazione data da Carolina. I comunisti aiutano Caccavallo a uscire dalla tragica situazione. Durante il drammatico salvataggio Caccavallo affida Carolina ad uno del gruppo, ma Carolina riesce a commuovere il vecchietto e a farsi liberare. Caccavallo racconta agli altri che Carolina ha una mania suicida e corre un grave pericolo. I presenti, impensieriti, si danno da fare per raggiungere la ragazza.
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Quando la ragazza è raggiunta si pone per Caccavallo un problema: sono tre giorni che Carolina non mangia, e bisogna far qualcosa per lei. Così egli la conduce in una osteria di campagna, ove le fa mangiare dell’affettato. Ma poi si sparge la voce che quell’affettato era avvelenato, e che unico antidoto è il latte e il povero Caccavallo è costretto allora ad una affannosa ricerca di latte. Quando il latte è trovato, non si può dire che ogni cosa sia stata risolta: rimane il problema di farlo bere a Carolina. La ragazza rifiuta, e inutilmente Caccavallo mette in atto le sue arti di convinzione. Poi ogni cosa si sistema, poiché si scopre che il cibo era tutt'altro che avvelenato. Dopo tante peripezie, Caccavallo e Carolina possono riprendere il loro avventuroso viaggio verso il paese.
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Al paese Caccavallo conduce, come prima cosa. Carolina dal parroco. Il sacerdote si dimostra assai comprensivo della sorte della ragazza, ma quando si tratta di prenderla in consegna, spaventato cerca subito di tirarsi indietro: non vuole simili imbarazzanti responsabilità, e cerca di scaricarsene in ogni modo. Caccavallo insiste, e il sacerdote fa una serie di proposte, assolutamente inaccettabili, quali mandare Carolina in casa di un tale che aveva cercato di sedurla, o affidarla ad un suo brutale zio. Caccavallo si ritrova così in una critica situazione e, non trovando di meglio, decide di ricondurre la ragazza a Roma.
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Durante il viaggio di ritorno l’agente mette le mani su un giovane ladruncolo, e carica anche questo sulla jeep. Conosciuta la sorte di Carolina il ladruncolo inscena una commedia, dicendosi disposto a condurre la ragazza a casa sua, a proteggerla ad aver cura di lei, a sposarla addirittura se fosse necessario. Approfittando di un momento in cui Caccavallo sembra distratto (in realtà egli sta facendo di tutto per favorire la fuga di Carolina) la ragazza gli dà un tremendo colpo sulla testa, che però non riesce a stordire l’agente. Il giovane ladruncolo profitta del momento di confusione che ne segue e fugge veloce.
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Turbata per avere colpito Caccavallo anche Carolina fugge, inseguita dall'agente. Ella va verso un ruscello, ma non sarà lei a precipitare in acqua: sarà proprio Caccavallo, che perde l’equilibrio e fa un bagno involontario. Carolina allora si slancia per salvarlo ma, nel generoso tentativo, cade anche lei in acqua. E’ questa l’ultima disavventura della vicenda. Caccavallo ha compreso qualcosa di molto importante: che Carolina era una brava ragazza e che egli l’aveva giudicata male. Le cose si concludono nel migliore e più patetico dei modi: Carolina entrerà nella casa di Caccavallo.

«Noi Donne», anno X, n. 13, 27 marzo 1955 e n. 14, 3 aprile 1955
 

Noi Donne
«Noi Donne», anno X, n. 13, 27 marzo 1955 e n. 14, 3 aprile 1955