Mario Monicelli è polemico ma parla bene di tutti
Prima di partire per Belgrado dove sta per iniziare “I compagni” il regista ha rivelato le sue opinioni sui suoi colleghi di lavoro. Litiga con Germi ma gli vuol bene, comprende Antonioni, ammira Fellini e stima Visconti. In compenso non crede che l’artista debba essere libero: solo lottando l’ispirazione si risveglia
Roma, dicembre
Era minutina, col viso da pechinese, le mosse da gatta soriana. La guardai bene e poi glielo dissi chiaro e tondo. ”Lasci perdere”, le dissi, "rinunci al cinema. Non è per lei”. Credo che non le feci neppure il provino, per non sprecare la pellicola. Era il *53 e stavo cercando una ragazza per il primo film di cui feci la regia da solo, Proibito. Sa chi era, la soriana? Brigitte Bardot».
Mario Monicelli allarga le braccia con aria desolata, alza gli occhi al cielo, sospira. Poi ha un improvviso ghigno di soddisfazione, «Pensi — dice. — Pensi se la scoprivo e poi facevo la fine di Vadim, anzi, quella di Charrier, che ogni tre o quattro settimane era costretto a filare in una clinica per annegare i dispiaceri nei sonni artificiali. M’è andata bene. Comunque mi piacerebbe sapere che cosa ne pensa Brigitte Bardot. Come minimo, quando sente il mio nome, dirà: "Monisellì? L’italien? Si vous savez. C'est...". No, no, nessun pentimento. E poi le ragazze mi dicono poco. Ora. per esempio, che ho quarantasette anni, mi interessano le donne dai trentacinque ai quarantacinque. Quando ne avrò dieci di più, mi interesseranno quelle dai quarantacinque ai cinquantacinque. Verso i settanta mi andranno benissimo quelle di sessanta. E sarò tranquillissimo: chi mi potrebbe togliere, le sessantenni? Che pace, mi creda».
Sfuggito per miracolo a Brigitte Bardot, Mario Monicelli diventò uno dei migliori registi italiani. Fece dei film come Guardie e ladri, Le infedeli, Padri e figli, I soliti ignoti, La grande guerra. Boccaccio ’70. Aveva cominciato a diciotto anni, girando con Alberto Mondadori un film a sedici millimetri. I ragazzi della via Paal, che vinse il primo premio a Venezia nel ’35. Subito dopo gli offrirono di/ fare il ”ciacchista" per Machaty, un regista che era arrivato alla fama perchè aveva fatto denudare Hedy Lamarr in un film intitolato Estasi: lei correva in un bosco, un tizio le andava dietro e le si avventava addosso, e la macchina da presa andava dietro a lei e al tizio facendo dei primi piani e piuttosto audaci per quegli anni.
«Ero molto orgoglioso di la vorare per Machaty — racconta Monicelli. — Machaty si comportava come uno squilibrato, faceva le cose più assurde e a me sembrava un grand'uomo. Otteneva perfino tutto quello che gli pareva dal Ministero, con le sue stramberie. Ogni tanto però qualcuno si stancava e diceva: "Ma quello dev’essere matto” e io allora mi arrabbiavo e mi sentivo il paladino del genio incompreso. Dopo il film con Machaty, che si chiamava Ballerine, andai a lavorare con Genina che girava Squadrone bianco. Genina, cosi bonario, dimesso, tranquillo, mi sembrava, al confronto col mio idolo Machaty, un miserabile, un cane. Poi uscirono i film. Non le dico lo choc quando mi accorsi che Squadrone bianco era molto bello, mentre Ballerine era un fallimento. Da allora m’è cresciuta dentro una gran diffidenza verso tutti quei tipi di artisti stravaganti che pretendono d’essere liberi e fuori da ogni legge e poi non combinano un accidente. Del resto lo dico sempre: la. libertà è la tomba dell’arte».
«Come?».
Si adagia nella poltrona, si strofina le mani: sta per cominciare un discorso che deve piacergli molto. Sono contenta di averlo interrotto: è evidente che non aspettava altro. Se avesse il viziò del fumo a questo punto accenderebbe uria sigaretta, tirerebbe una boccata. soffierebbe un anello azzurro verso il soffitto e attaccherebbe a parlare. Ma siccome non fuma si contenta pi crogiolarsi un po’ tra i cuscini, di passarsi le dita sulle tempie dove i capelli cortissimi e neri gli stanno spuntando tutti d’argento, di schiarirsi la voce e di partire all'assalto con l’aria di voler demolire a morsi la statua di Garibaldi.
«Un luogo comune da distruggere — incomincia — è quello per cui l'artista dev essere libero. L’artista non deve essere libero per niente. Sennò è finito. Diventa un pazzo sbrindellato che non sa più quello che fa e quello che vuole. Se il cinema oggi ha questa sua esplosione cosi viva e aderente alla nostra realtà e al nostro mondo, e se davvero è riuscito a diventare quasi una forma d’arte, o a spacciarsi per una forma d’arte...».
«A spacciarsi per una forma d’arte?».
«Si, perchè il cinema, secondo me, non è una forma d’arte. L’arte dovrebbe essere immortale. I film invece sono di celluloide che dopo qualche decina d’anni si logora, sbiadisce, va al macero. No. mi dia retta, il cinema non è una cosa molto seria. Comunque, dicevo, se è riuscito quasi a fingere di esserlo, lo deve al fatto che non è libero. Al fatto che l’autore, cioè il regista, è condizionato da chi paga il film, e poi dal pubblico, e poi dai mezzi tecnici, dai collaboratori. dagli attori coi quali si deve combattere, e dalla censura».
«Ma la censura non c'è più».
«Un po’ c’è ancora, se non altro per il buon costume. E ci vuole. Pensi ai tempi del Rinascimento. Gli artisti erano liberi? Macché. Avevano un mecenate che pagava e pretendeva tutto quello che gli pareva. Il mecenate era capace non solo di stabilire la grandezza di un quadro, ma anche i personaggi che ci si dovevano trovare dentro, i colori, eccetera: ”Qui ci dovrò essere io” diceva ”col mio vestito color porpora. E lì mia cugina col suo vestito di broccato blu e il filo di perle sulla testa. E il fondo dev’essere verde. E non devi spendere più di tanto. E bisogna che sia pronto per il mio genetliaco”. Alla fine l'artista, se era un vero artista, aguzzava l’ingegno e faceva il capolavoro. Guardi invece cosa succede quando uno può fare tutto quello che gli pare, senza nessuna limitazione: alla fine è paralizzato e non combina più un accidente. In una società bene organizzata, mettiamo una società socialista, l'artista diventerebbe una persona come si deve, non un anarchico che può fare le cose più ridicole».
«Allora durante le dittature dovrebbero uscir fuori chissà quanti capolavori. Invece mi pare che nè la Russia — almeno nell'èra staliniana — nè dall’altra parte, la Spagna, abbiano tirato fuori un gran che in fatto d’arte».
«Io parlo di limitazioni, di binari, di impostazioni. Non parlo di pressioni ideologiche. Quelle, certo, danno altri risultati. Ma guardi l’Italia. Per anni, anche dopo la guerra abbiamo avuto la censura più come dire? — tradizionale che si possa immaginare, eppure il nostro cinema, proprio il nostro, è riuscito a tirare fuori più cose di quante non ne abbia tirate fuori il cinema di tutto il resto del mondo. Per polemica, per ribellione. Senza polemica e senza ribellione mi sembra che ci sia poca vitalità».
Si alza, comincia a camminare in su e in giù per, la stanza, con le braccia conserte e una cert’aria rabbiosa, e dice che lui non può vivere senza polemica. Gli ci vuole anche una certa dose di crudeltà. Non nella sua vita personale, che diamine. Gli ci vuole intorno. nelle cose cui si interessa. Dice che quando si arriva alla bontà il mondo puzza di morti. «Ho ragione?» chiede.
Ha sempre le braccia conserte e nonostante la costituzione piuttosto minuta del suo corpo, visto così dal basso in alto, ha l’aria di un dittatore. Dev’essere colpa di quel maglione nero con il collo alto che fa tanto gerarca-sport, gerarca-sabato-inglese. «Già — dice, — il nero dona. Dà un aspetto virile, forte. Suppongo che una certa parte del proprio successo, il fascismo lo deve al fatto che le camicie nere donavano molto al viso. No. io sono iscritto al partito socialista. Sono stato anche due volte candidato alle elezioni e tutte e due le volte, non so perchè, ho fatto cilecca».
Gli chiedo se per caso avrebbe avuto voglia di cambiare mestiere, come Germi, che voleva smettere di fare il regista per diventare Capo del Governo o suonatore di chitarra. Dice che Germi è matto. Dice che Germi, poi. non fa neppure il regista per fare il regista, ma per avere un'occasione di fare l’attore. Anche Germi, come Fellini. è un cantautore. E poi ha il difetto dei geni o genialoidi: è poco intelligente.
«Poi io scrivo tutto e voi finite per litigare. Mi dispiace».
«Ma Germi e io litighiamo sempre. Ci diciamo cose terribili, ci rinfacciamo i film, io gli dico che i miei sono più belli dei suoi, che lui è il peggiore di tutti i registi eccetera. Facciamo certe chiassate, con la gente che passa per la strada e si ferma a sentire, e noi che urliamo sempre di più come due bottegai e alla fine facciamo le scommesse perfino sugli incassi. Eh, devo dire che questa volta, con Divòrzio all'Italiana. Germi mi ha messo in un guaio». Non sapevo che si odiassero. Mi dispiace, perchè Germi è così carino e simpatico, e anche lui è carino e simpatico. Ho perfino l’impressione, da quando mi tocca frequentare i registi, d’avere fatto una grande scoperta: questi cinematografari sono di un livello superiore a quello degli scrittori italiani. Va bene che almeno in certi casi non ci vuole molta fatica, ma per me è stata una sorpresa.
«Davvero? Sono contento. Perchè non lo scrive?». Poi mi tranquillizza riguardo a Germi. Non si odiano affatto. anzi. si vogliono bene. Perchè, la gente che si vuole bene non litiga?
«Ma Germi e Antonioni, per esempio, che litigano sempre, non si vogliono bene affatto, almeno credo. Germi ha detto che lui, Antonioni lo ammazzerebbe. Eh?».
«Germi e Antonioni non litigano. E’ Germi che ce l’ha con Antonioni. Credo perfino che Michelangelo sia un po’ stupefatto di quest’odio. Del resto lui si stupisce di tutto, perchè pensa d’essere un genio e si meraviglia quando la gente non lo tratta da genio. Lei conta di intervistarlo?».
«Conto di intervistarlo, ma ho l’impressione che faccia un po’ la starlette capricciosa. So che dà appuntamenti alla gente e poi non la riceve, che Monica Vitti è costretta a mettere fuori di casa la gente invitata perchè lui, all'improvviso, decide che non la vuole più vedere. E questo non è serio».
«No — dice Monicelli — questo non è serio. Però lui è importante. Forse è vero che è un genio. Lei ha visto qualcuno dei suoi film?».
Sicuro, ho visto L'eclisse. E la penso un po’ come Germi, che diceva: certi film di Antonioni rappresentano le canzoni di trent’anni fa. L’eclisse per esempio, è questa: Ceravamo tanto amati. per un anno e forse più, c'eravamo poi lasciati, non ricordo come fu. Si capisce bene, ha ragione Germi, che lui non si ricorda più com’è stato che si sono lasciati. Cerca di ricordarselo, ma non gli viene in mente nulla di preciso. Ricorda solo che buttò i fiammiferi in qualche posto, che passò una carrozza. che si videro il giorno tale al solito angolo, però forse non era proprio quel giorno, e forse non passò neppure la carrozza, ma no che non c’era, ma sì che c’era; poi si dettero un appuntamento, ma lui non ci andò, o fu lei che non ci andò, o nessuno dei due, chi lo sa. E poi tutti si attaccano alle tende, fanno dei lunghi silenzi trascicano sguardi come ai tempi di Lyda Borelli.
«Antonioni è un genio. Io li capisco sempre, i suoi film. Cosa c’è che non si capisce? Le dirò di più: li farei volentieri anch’io, i film che fa Antonioni. Ma non è il mio genere e non mi ci metto neppure. Per conto mio preferisco che i film che faccio siano chiari. Però lui è un genio. Ha continuato per anni a fare queste cose, attaccato da tutti. Ora che ha un gran successo vuol dire che la gente lo capisce. Non ci crede? Va bene, diciamo allora che sono film di transizione: serviranno ad arrivare a qualche altra cosa, ma sono indispensabili. E’ indispensabile un Antonioni. nella storia del cinema».
L’intelligenza: ecco il guaio
Attacca Germi, ma con affetto. Difende Antonioni con passione. Gli piace Fellini e stima Visconti. Non l’ho ancora sentito parlare male di nessuno. eppure sostiene d’essere polemico, aggressivo. Non è neppure nervoso, lo dicono tutti, o meglio è nervoso ma si controlla benissimo. Non alza neppure la voce. Però è un regista vero, di quelli che sanno reggere baracche immense come quella della Grande guerra e far rigare diritto uomini e macchine. Gli ridomando se gli piacerebbe cambiare mestiere. Glielo avevo già chiesto prima, s’era dimenticato di rispondermi.
«Cambiare mestiere io? Ma se questo è il lavoro più divertente che ci sia. E’ come fare il capitano d’una nave: ogni film è un nuovo viaggio, cambiano i passeggeri, la rotta, il tempo, i marinai, la merce che si imbarca. Nulla di più divertente. Ci vogliono, però. certe doti di carattere, più che di cervello. Bisogna essere capaci di prendere decisioni alla svelta, di imporre la propria volontà, di trattare le persone con diplomazia, di afferrare il timone quando le cose si mettono male, di farsi vedere poco e di stare molto nel "quadrato” lasciando che se la sbrighi il nostromo. L’intelligenza conta meno. Anzi, a volte è nociva. E’ meglio essere un genialoide come Germi che capisce solo le cose che vuole capire. Uno che è intelligente. invece, vede tutti gli aspetti della verità e finisce per farsi rovinare dall’autocritica o dal possibilismo».
«Lei com’è, genialoide o intelligente?».
«Purtroppo io sono intelligente. Così faccio una gran fatica. Difatti non mi riesce mai di mettere su più di un film ogni due anni, o tutt’al più ogni anno e mezzo».
Vorrei ricordargli che questo succede anche a Germi, ma è meglio non interromperlo perchè ha cominciato a parlare di un argomento che m’interessa: il suo prossimo film.
I compagni.
«E’ la storia di uno sciopero che risale al 1895, o 1898. Uno dei primi scioperi italiani».
Il produttore non lo voleva fare. diceva che gli scioperi sono cose tristi, che bisognava trovare un argomento più divertente. ”Ma come” rispondevo io, ”non ho fatto La grande guerra?". Più triste di cosi, migliaia di morti, di feriti, e alla fine crepano pure i due protagonisti. Eppure è venuto fuori un film divertente. Anche I compagni dovrà avere lo stesso tono. Insomma, ci ho messo due anni per poterlo fare. Comincio in gennaio. Come attori per ora ho solo Mastroianni e la Girardot».
Chi insiste ha ragione
Aveva anche un’ altra idea, ma gli è rimasta nel cassetto perchè non riesce a metterla in piedi in maniera cinematografica. E’ una storia di uomini e dei, ma gli dei in realtà sono uomini politici, grandi capitani di industria, eccetera. E’ un’Iliade moderna, e il concetto è un po’ lo stesso. Come gli dei dell’Olimpo, così i potenti di oggi determinano, con le loro lotte, le loro incomprensioni e le loro questioni personali, la vita degli esseri umani, i quali credono che tutto dipenda dai propri sforzi o dalle proprie incapacità, mentre le loro fortune e le loro disgrazie nascono da altri giochi, dai quali sono completamente tagliati fuori.
«E’ un film che non farò, credo. No, non ho altro nel cassetto. Appena mi viene un’ idea cerco di realizzarla, e più o meno le ho realizzate tutte. A volte. appunto, anche contro la volontà dei produttori. De Laurentiis. per esempio, è contento quando urto si incaponisce su una cosa. ”Se una persona insiste — dice sempre — vuol dire che ha ragione. Se abbozza è chiaro che ha torto”. Mi sono incaponito su I compagni e credo di avere ragione. Domani parto per la Jugoslavia, vado a fare un sopralluogo, perchè gireremo molte scene in Jugoslavia dove i costi sono ancora piuttosto bassi, mentre qui la situazione si sta facendo un po’ difficile e molti film non incassano abbastanza».
«Perchè non li mandiamo all'estero?».
«Perchè sono brutti. Sono fatti da avventizi che sperano di guadagnare, imbroccando un film per miracolo. Ma i miracoli non succedono mai».
Parla con voce calma, scegliendo bene le parole e ha le idee molto chiare. Risponde sempre a tono, ride, scherza e non ha cambiato atteggiamento neppure quando ho attaccato il registratore. E’ evidente che i suoi nervi sono a posto. Difatti, me l’ha raccontato lui, è capace di lasciar suonare il telefono all’infinito, quando è a casa, senza sentire il bisogno di alzare il ricevitore, nè di staccarlo. Dice che gli fa compagnia: si sente cercato, ma non ha la seccatura di dover parlare. Non so come sia l’appartamento dove abita, non ha voluto che andassimo a fotografarlo. So che vive solo, e che appena va a casa si mette a letto. La casa gli serve solo per questo, per mettersi a letto. Alle pareti, mi ha spiegato, non ha attaccato neppure un quadro: la pittura non gli dice nulla. E queste, dopo tante ore di intervista, sono le sole cose personali che ho appreso sul suo conto: ma le sue risposte sono state sempre così esaurienti che li per lì non me ne sono acconta, e oramai è troppo tardi, dev’essere già a Belgrado.
Mirella Delfini, «Tempo», anno XXIV, n.52, 29 dicembre 1962
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Mirella Delfini, «Tempo», anno XXIV, n.52, 29 dicembre 1962 |