Mario Monicelli: «che bei tempi quelli con Totò»
Mario Monicelli, sul set, racconta la sua carriera
Sotto i riflettori, agli stabilimenti De Laurentiis alla Vasca Navale, c’è un calore da fornace del vetro. Con in testa un cappelletto di tela per ripararsi da quel sole da diecimila watt, Mario Monicelli con pazienza da artigiano aggiusta e ritocca la sua delicata materia prima: l’inquadratura. Tra un'inquadratura e un’altra, ma di malavoglia, parla della sua ultima opera. Camera d'albergo: una volta — dice — un pittore faceva il suo quadro e uno scrittore scriveva il suo libro senza che ci fosse bisogno di spiegare prima «i contenuti», cioè quello che vorrebbe metterci dentro ma che, data la misteriosa alchimia che sovrintende alla nascila di un’opera dell'ingegno, non si sa mai se poi ritroverà in fondo al prodotto finito.
Quando poi non accade invece rincontrano: che i critici vedono in un’opera rari e preziosi contenuti e doppie chiavi di lettura che l’autore invece non aveva mai immaginato.
Per esempio? Beh, La grande guerra — dice Monicelli — è stato per me il primo caso clamoroso in :questo senso. Altre volte, i film hanno destini curiosi per altri motivi: l'ultimo uscito di Monicelli, per esempio, Temporale Rosy, ha avuto consensi unanimi dai critici e disinteresse da parte del pubblico. In questi giorni è uscito in Francia e ha avuto gli stessi entusiastici consensi agli addetti ai lavori, ma è ancora troppo presto per sapere se il pubblico è disposto ad amare fa storia di una donna che oltre alla bcllez.za, qualità cinematograficamente necessaria, possiede la forza fisica (Faith Minton è una lottatrice anche nella vita), attributo che potremmo definire eretico in una donna.
Capita, dice Monicelli, che si creda in un film e che il viceversa.
Solitudine non inoperosa, tuttavia: «Ascolto musica: 80% musica sinfonica e lirica, 20% jazz, solo dischi però, non vado mai ai concerti, mi scoraggia la lotta per la conquista di un biglietto. E poi leggo, diversi libri contemporaneamente: in questo momento sto leggendo Bukowski, che mi piace moltissimo, i racconti di Pirandello (li preferisco alle commedie che sento poco italiane) e poi Bertoldo e Cacasenno, una parabola sul potere molto italiana, e il Wilhelm Meister di Goethe, opera così complessa che ci si possono rubare mille idee. Purtroppo però il mio tempo è occupato anche dalla lettura dei soggetti e di solito i soggetti non sono buona letteratura».
Tra i tre diversi momenti da cui nasce il cinema — il soggetto, le riprese, il montaggio — non c'è, secondo Monicelli, primazia dell'uno sugli altri:
«Sono tre momenti equivalenti, anzi al montaggio, o per meglio dire all'edizione nel suo insieme, va aggiunto in Italia il doppiaggio, che costituisce quasi sempre un momento creativo».
In Camera d'albergo c'è un momento nel quale Vittorio Gassmann esce da un armadio e, nell'illustrare la scena, Monicelli fa riferimento alla pochade:
«Ma è solo un esempio illustre — spiega poi — di una tecnica particolare: la pochade è un perfetto congegno di spettacolo, che tuttavia io non amo in modo particolare, che non sento vicino a me. La tradizione italiana discende dalla commedia dell'arte, il nostro umorismo tira sempre al grottesco e nasce dalla descrizione delle miserie altrui».
Tra le sue opere che preferisce Monicelli cita senza esitazione i film con Totò: «Perché la farsa è un genere diffide, una scuola dura che insegna i tempi della risata, insegna a tradurre in azione ogni segno che è sulla carta».
Camera d'albergo è la storia di tre ragazzi, cinofili d'assalto che rubano immagini di «cinéma-vérité» in una stanza d'albergo e cercano di vendere il loro prodotto ad un vecchio cinematografaro che maschera la fatiscenza della sua società dietro immagini di vecchie glorie («c'è anche un po’ il fare il verso alla stampa per la mania del cinema anni Quaranta», ammette Monicelli). Il regista avrebbe desiderato fare un film tutto di volli nuovi, con l'eccezione di Gassmann, le regole del mercato hanno poi voluto («e io ho ben volentieri accettato» precisa Monicelli) che le parti principali fossero affidate a due divi, Monica Vitti ed Enrico Montesano.
Vedremo comunque in Camera d'albergo tre volti nuovi, quelli di Beatrice Bruno, Nando Paone e Franco Ferrini, scelti tra centinaia di candidati attraverso sei mesi di provini.
Monicelli ha fama, nell'ambiente cinematografico, di essere maestro generoso e di avere insegnato il mestiere a parecchi aiuto-registi volontari che gli sono stati vicino. Spiritosamente lui ricorda che non è sempre facile scegliere a prima vista tra i giovani quello destinato a emergere: a lui capitò anni fa di scartare una debuttante, a favore di un'altra, che doveva poi diventare Lea Massari, per il film Proibito.
Alla ragazza bocciata consigliò paternamente di abbandonare le aspirazioni cinematografiche, visto anche che non aveva il fisico adatto. La ragazza si chiamava Brigitte Bardot.
Elena Doni, «Il Messaggero», 14 settembre 1980
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Elena Doni, «Il Messaggero», 14 settembre 1980 |