Totò, più si rivede più fa ridere
«Supertotò» un'antologia cinematografica tratta da film dal '40 al '62. Selezione a cura di Brando Giordani e Emilio Ravel, dai film con Totò. Italia, bianco e nero e a colori (Cinema Augustus).
Dalla novantina di film interpretati da Totò nel periodo dal 1936 al 1967 ne sono stati scelti venti per selezionarvi le sequenze più esilaranti o i frammenti più significativi. Il risultato è un collage suddiviso in vari capitoli dei quali ecco i titoletti: La maschera, Le donne, L'arte di arrangiarsi, La fame, I ricchi, I prepotenti, Il varietà. Gli anni di produzione dei film vanno dal 1940 (San Giovanni Decollato, di Amleto Palermi) al 1962 (Lo smemorato di Collegno di Sergio Corbucci).
Supertotò mostra con evidenza i suoi limiti, non al di là d'una scelta operata soltanto per far ridere. Non è poco, tanto più che lo scopo è pienamente raggiunto, sebbene nel «materiale» riproposto dal collage abbondino i pezzi di pellicole abitualmente date e ridate dalla tv di Stato e da quelle private. Ma Totò è un attore che si vede e rivede senza noia; se un rammarico esiste è per ritrovare qui monchi certi sketches famosi: quello del «Vagone letto», per esempio, interrotto sulla scena di Totò che butta dal finestrino del treno le valigie dell'onorevole Trombetta ed è privo di tutta la parte love agisce Isa Barzizza.
Tuttavia, pur così spezzettata e per talune «citazioni» addirittura telegrafica, l'antologia riporta sullo schermo molti brani tipici scelti da Brando Giordani e Emilio Ravel con occhio acuto e con particolare riferimento alla produzione degli Anni 50.
I film che hanno fornito gli estratti sono infatti, oltre ai due già citati, Totò cerca moglie, Totò sceicco, Tototarzan e 47 morto che parla del 1950; Guardie e ladri del 1951; Totò e le donne e Totò a colori del 1952; Il più comico spettacolo del mondo del 1953; l'episodio «Il pazzariello» da L'oro di Napoli e Miseria e nobiltà del 1954; La banda degli onesti e Totò, Peppino e la... malafemmina del 1956; Totò nella Luna e II mostro della domenica del 1958. Fuori dal decennio che segnò il culmine dell'intensa attività cinematografica di Totò restano: L'allegro fantasma del 1941; Fifa e arena del 1948; Totò-le-Mokò e Napoli milionaria del 1949, che però non sono i film che hanno offerto i brani più eloquenti.
E' possibile, se SuperTotò avrà un seguito, vedere in questo seguito molto di ciò che nel collage odierno è stato omesso, magari per la mancata concessione dei diritti di riproduzione. Sé ci sarà un bis ci auguriamo di trovarvi il «pezzo» del professore di scasso dai Soliti ignoti, le splendide pagine pasoliniane di Uccellacci e uccellini, e magari qualcos'altro dei film della serie Totò, Peppino e... nei quali l'apporto faceto dell'indimenticabile Titina De Filippo era importante.
Tra le pagine più ricordabili della selezione odierna, sono quelle con Totò «pazzariello», ammirevole non solo come tale ma anche qual personaggio marottiano filtrato dalla regia di De Sica (nella figura della moglie è esemplare Inanella Carrel, che fu la mamma del piccolo Bruno in Ladri di biciclette); le altre di Guardie e ladri, in cui sotto la guida di Monicelli e Steno l'accoppiata Totò-Fabrizi funziona a meraviglia; e ancora l'irresistibile sequenza del pranzo in Miseria e nobiltà (di Mattòli, da Scarpetta) dove anche si ammira una Sophia Loren ventenne per la quale Totò, finto nobile, si esibisce con effervescenza strepitosa.
Non meno stupendo è il burattinesco inserto di Totò snodato, che fa una specie di Pinocchio adulto; e così nota da non aver bisogno di illustrazione la macchietta celeberrima di Totò direttore d'orchestra, amenissimo nel trasferire sullo schermo, ampliandolo, quello che era il finale dei suoi spettacoli di rivista, con il pubblico elettrizzato dal grande comico che attraversava più volte il palcoscenico, ripeteva passerelle e passerelle al ritmo dei bersaglieri e tutta la compagnia era lanciata in corsa dietro di lui, in una sfilata entusiasmante.
a. vald.
Il successo del film di montaggio su Totò coincide con l'uscita di altri due tra i non pochi libri dedicati alla sua arte d'interprete. Con accenti diversi e con intenti nuovi si percorrono itinerari ormai noti ai cosiddetti totologhi (ma non siamo tutti un po' totologhi, noi che abbiamo riso per l'uomo di mondo che aveva fatto il militare a Cuneo e che di conseguenza divideva l'umanità in uomini o caporali?).
Si dibatte sulle possibilità che il cinema ha dato o altresì negato al grande attore, si esamina la sua impopolare popolarità, si rimpiange che un regista di genio non gli abbia affidato un film davvero personale. Ma, con la sua vocina sottile che non stona mai, ecco intervenire Fellini: «Si perde di vista che Totò è un fatto naturale, un gatto, un pipistrello, qualcosa di compiuto in se stesso, che è come è, che non puoi cambiare, tutt'al più, puoi fotografarlo. E' uno di quei prodotti secretivi che vanno tramandati come sono, stando bene attenti a non alterarli. Nel Viaggio di G. Mastrona avevo pensato a Totò, ma così come era. C'era uri ricordo di Totò e Totò appariva. Non mi sono mai venute in mente storie che richiedessero la presenza di Totò, perché Totò non aveva bisogno di storie.. Che valore poteva avere una storia per'un personaggio così, che le storie ce le aveva già tutte scritte sulla faccia?».
E ancora, incalza Mario Soldati, confondendo il tifo per il cinema con il tifo per il football: «Totò è migliorato perché alla smaccata e dilatata mimica che richiedeva la dilatata partecipazione acrobatica di tutto il suo corpo, che forse era soltanto l'effetto della giovinezza, della sua intima esuberanza e vitalità, oggi è stato costretto a sostituire una recitazione più paziente e più precisa, più musicale e più raffinata: un gioco da fermo; un po' come i grandi "footballers" sul finire della loro carriera, Cevenini III, Cesarini o Gren, quando facevano miracoli nello spazio d'un metro quadrato».
La prospettiva comune alle ultime riflessioni su Totò sembra fissarsi nel libro di Orio Caldiron su alcuni punti: superiore al livello dei film girati, attento a non gelare la propria spontaneità alla fiamma d'un grande regista, generoso e paziente con i colleghi, fissato nella mania esclusiva per l'araldica (il tribunale gli aveva riconosciuto il diritto a chiamarsi Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, altezza imperiale e conte palatino, discendente dall'imperatore Costantino).
Si direbbe attenuata la voga degli Anni Settanta che vedeva nel Totò più facilone, quello che girava una pellicola in tre settimane e ripeteva con suprema indifferenza gli sketch da un titolo all'altro, il protagonista d'una plebea rivolta del gusto. Rispondere al complice che gli sussurrava «Io ho un piano», «Io ho due violini e una zampogna» non significa certo rompere con la tradizione accademica. Significa praticare a livello eccelso quell'umanissima arte d'arrangiarsi che nel rione Sanità, dove il futuro principe aveva visto la luce, costituiva una quotidiana lezione di vita.
Piuttosto che in cinema, a giudicare anche dagl'irresistibili sketch d'avanspettacolo e di rivista raccolti da Goffredo Fofi, Totò fu malignamente originale in teatro. Non amava né il carattere né il personaggio, perfezionava costantemente la propria maschera dove tutto — dalle mani ai piedi, dagli occhi di rondone al libertario pomo d'Adamo — concorreva a creare una prodigiosa marionetta capace delle più impensate bizzarrie. Il tight stretto, i calzoni a tubo e i calzini colorati ne fissavano vistosamente la prima immagine; poi la genialità nell'improvvsare e la crudeltà nel parodiare trasportavano lo spettatore in un'altra dimensione. L'unica — testimoniata in cinema dalla mimica di Pinocchio e dalla direzione della banda in Totò a colori — che gli consentiva di collegarsi non tanto con i principi di Costantinopoli o gli esarchi di Ravenna quanto con il povero Pulcinella.
Piero Perona
a. vald. e Piero Perona, «La Stampa», 25 marzo 1980 |