Franca Faldini: Totò vent'anni dopo
Vent'anni fa la scomparsa di Antonio de Curtis, in arte Totò, ci lasciava orfani di uno dei più straordinari talenti della storia dei cinema italiano. La sua compagna, Franca Faldini, traccia per «Ciak» un breve, inedito ritratto dell'attore più amato dagli italiani.
Vent’anni fa, il 15 aprile 1967, moriva a Roma per attacco cardiaco il principe Focas Flavio Angelo Ducas Comneno di Bisanzio de Curtis Gagliardi. Si chiamava Antonio ma la gente più che altro lo conosceva con il suo nome d’arte: Totò. Egli chiuse gli occhi per sempre attorno alle tre e mezzo del mattino, l’ora in cui di solito si ritirava nella sua stanza per riposare; lo so per certo poiché ero presente, essendo stata la sua compagna. La nostra storia era iniziata nel febbraio del 1952 e, malgrado tra noi ci fossero 33 anni di differenza, si concluse nell’alba silenziosa del giorno in cui egli lasciò questo mondo. Poco tempo prima Totò aveva scritto:
Ormai per me il trapasso è ’na pazziella;
è ’nu passaggio dal sonoro al muto.
E quanno s’è stutata ’a lampetella
significa ca ll’opera è fernuta
e 'o primm’attore s’è ghiuto a cucca.
Ma il suo rapporto con la morte non era filosofico quanto voleva dare da credere con quei versi. Benché fosse divenuto quasi cieco per una corioretinite emorragica che lo aveva colpito nel 1957 quando si trovava in tournée con la rivista «A prescindere», egli era un uomo che amava profondamente la vita e tutte le terrenissime attrattive di questo mondo. Prima tra tutte le donne. Dei suoi rapporti con queste e della sua gelosia credo si sia esagerato. Certamente era un uomo possessivo ma altrettanto certamente non era mai volgare in questa possessività. Tentava invariabilmente di avere il sopravvento sulla tua personalità, questo sì. Però bastava solo non consentirglielo e provargli che eri leale. Allora avevi da lui il massimo rispetto anche se magari poteva guardarti con sospetto per la tua capacità di tenergli testa.
Totò e il principe de Curtis erano la stessa persona ma credo che raramente siano esistiti due caratteri più dissimili. Totò sintetizzava l’aggressività del piccolissimo borghese, le piccole perfidie, l’arte di arrangiarsi, le cicatrici delle batoste subite, la fame arretrata, la furbizia. Antonio de Curtis, invece, aveva il tratto pacato del signore, l’eleganza sobria, l’animo sensibile, l’inclinazione alla malinconia, l’avversione per tutto ciò che è chiassoso e vistoso. Smessi i panni del personaggio scenico il comico restava in camerino e non se ne trovava traccia nell’uomo che nella vita voleva essere soltanto Antonio De Curtis. Non era, il suo, un atteggiamento snobistico.
Nato a Napoli nel 1898 dalla libera unione tra una ragazza popolana e il rampollo di una illustre casata che lo avrebbe riconosciuto figlio solo una trentina di anni dopo sposando colei che lo aveva procreato, egli aveva vissuto un’amara infanzia illegittima e quindi aveva preso molto seriamente il cognome che tanto tardivamente gli era stato dato e il fatto di essere nobile. Comunque, quando era in vena di scherzare, diceva: «Il principe è il magnaccia di Totò. Se non fosse per quel povero pagliaccio che manda a faticare e tratta con disprezzo non potrebbe permettersi neanche un uovo al tegamino».
Totò, sul lavoro, era ipercritico di se stesso. Lui che amava il teatro ed era conscio di quanto al teatro sapeva dare, guardandosi sullo schermo quasi invariabilmente si giudicava detestabile. Al punto che in più occasioni abbandonò la proiezione di un suo film. Certo che molte delle sue pellicole erano girate in grande economia, alla svelta, con un modesto contorno di attori e un copione sgangherato. Tanto che sul set, per salvare la situazione, egli era costretto a lanciarsi nell’improvvisazione. I produttori tendevano a sfruttarlo come un sottoprodotto di largo consumo. Il loro criterio era: perché investire su di lui delle somme maggiori quando Totò ci fa incassare cifre pazzesche qualsiasi cosa faccia?
Ritengo che l’intramontabilità del suo successo sia dovuta alla forza della sua maschera, al fatto che il Totò marionetta si è venato di quel tanto di umanità necessaria ai suoi personaggi restando però marionetta e sfuggendo quindi agli stili e ai filoni tipici del cinema di quegli anni.
Non mi emoziona guardare Totò sullo schermo perché quello che vi appare non è il compagno che conoscevo ma lo straordinario artista così come si offriva a tutti. Egli mi torna in mente, invece, in qualche momento della vita quotidiana. Spesso con commozione. Come quando» nell’odierna società che così spesso si distingue per arroganza e boria, ripenso alla sua umiltà. A quella umiltà che lo spinse a dire di se stesso nel corso di un'intervista: «Sono ormai nell’età in cui si tirano le somme e non ho fatto niente: sarei potuto diventare un grande attore e invece, di cento e più film che ho girato, ve ne sono degni non più di cinque. Ma anche se fossi diventato un grande attore cosa sarebbe cambiato? Noi attori siamo solo venditori di chiacchiere. Un falegname vale certo più di noi: almeno il tavolino che fabbrica resta nel tempo, dopo di lui».
Franca Faldini, «Ciak», anno III, n.4, aprile 1987
Franca Faldini, «Ciak», anno III, n.4, aprile 1987 |