Franca Faldini: «sapevo sempre in anticipo quando stava per avere un'avventura»

1977 Franca Faldini Antonio de Curtis g

Del famoso attore napoletano, riscoperto dal pubblico di ogni età e rivalutato dalla critica, era rimasta finora nascosta l'immagine più autentica: quella dell'uomo che per 15 anni ha vissuto con una ragazza tanto giovane da sembrare sua figlia, in un momento in cui era uno scandalo non sposarsi. Ora quella «ragazza», Franca Faldini, rivela cosa fu veramente il suo rapporto di coppia con Totò-Antonio De Curtis principe di Bisanzio: nei momenti felici, negli scontri, nell'intimità di un amore difficile ma bellissimo.

«Gli sono grata per quell’arco di anni assieme che fu a volte un paradiso, spesso un inferno, mai comunque un limbo». Così il finale dell’appassionato ritratto biografico "Quindici anni con Antonio De Curtis" tracciato da Franca Faldini, prima parte del libro "Totò: l'uomo e la maschera" edito da Feltrinelli e firmato anche dal critico Goffredo Fofi. Franca Faldini era una bella ragazza di vent’anni quando, al ritorno da un suo soggiorno a Hollywood dove era stata coinvolta nel cinema con scarso entusiasmo da parte sua, aveva conosciuto Totò, cinquantatré anni, all’apice del successo.

Il loro incontro fu piuttosto uno scontro. Lui aveva visto una sua fotografia sulla copertina di un rotocalco. «Con tanta ammirazione e con la speranza di conoscerla», le scrisse in un biglietto che accompagnava un fascio di orchidee. Franca gli rispose ringraziandolo, ma aggiunse che era sua abitudine conoscere la gente solo attraverso una regolare presentazione.

Franca Faldini 1001 CC

Il giorno dopo si vide arrivare un altro fascio di fiori, e il biglietto diceva: «Dal momento che i miei fiori non sono graditi rinuncerò alla gioia di poter continuare a mandargliene altri», ma intanto cercò un amico comune che lo presentò, e da allora non si lasciarono più «convivendo in allegria e scandalizzando l’Italia benpensante», per dirla con la stessa Faldini, fino alla morte di Totò, nel ’67.

Subito dopo Franca cominciò a lavorare come traduttrice dall’inglese e in questi dieci anni ha raggiunto un’ottima qualificazione specializzandosi nella narrativa americana moderna soprattutto quella «slang» e «nigger»; ha tradotto una cinquantina di libri, ha collaborato anche a giornali e periodici come pubblicista e continua a portare avanti questa attività anche se nel ’75 si è sposata.

Finora non aveva mai voluto raccontare niente della sua vita con Totò, «ma poi», spiega, «ho letto libri e articoli usciti specialmente in occasione del decennale della sua morte, pieni di inesattezze e di ciarpame che mi hanno amareggiata e poiché proprio in quei giorni ho conosciuto Goffredo Fofi autore del bellissimo saggio Il teatro di Totò che ho trovato giusto e coerente, ho cambiato idea. Ho pensato che con lui avrei potuto tentare di spiegare una personalità complessa come quella di Antonio».

— E' stato difficile vivere un rapporto di coppia con un uomo eccezionale come lui?

«E’ sempre difficile vivere accanto a chiunque, più difficile vivere accanto a un artista che è dotato di ipersensibilità. E allora bisogna cercare di capirlo e muoversi più delicatamente che non accanto a un altro essere. Tutto sommato, però, Antonio aveva una concezione della vita a due piuttosto moderna, una concezione di vita fuori del matrimonio, perché noi non eravamo sposati, e allora si dà più importanza al dialogo con il partner e si fa di tutto perché rimanga vivo, reale. C’era poi tra noi la civiltà del cercare la comprensione per i reciproci interessi, e poiché avevamo delle affinità non è stato così difficile conciliarli».

All'inizio del loro amore, lei appena ventenne lui di 33 anni più anziano. Ora la Faldini, che s'è sposata, fa la traduttrice di libri dall'inglese.

— Quali erano queste affinità?

«L’inventiva, ossia il gusto di elucubrare magari su argomenti senza importanza andando avanti per ore, l’amore per la natura, una certa fragilità di carattere verso gli esseri meno protetti vuoi a quattro zampe o a due, la maniera di vivere il nostro rapporto sulla provvisorietà senza dare per scontato il fatto che saremmo rimasti insieme per sempre.

«Antonio non doveva mai avere la sensazione di aver messo la zampa su qualcuno: sarebbe stata la fine di tutto. A prima vista poteva sembrare il classico rappresentante di una società patriarcale e, anche se in fondo lo era, sotto sotto nella donna cercava un carattere e con la donna doveva poter discutere, battagliare, allora la rispettava e lei gli diventava importante. In quanto poi alla parte sessuale non avrebbe potuto avere un rapporto con una donna che avesse visto il sesso con le sovrastrutture dei tabù vari». 

— Pesava su di voi la differenza di età?

«Spesse volte sono stata dipinta come ”fedele compagna” calcando su questa definizione come se io avessi dovuto fare uno sforzo a vivere con lui, sia per l’età sia per la cecità. In realtà non ho fatto mai sforzi drammatici e non li avrei mai fatti con il mio carattere. Certo qualche rinuncia c’è stata, come in tutte le unioni d’altronde, quella per esempio di non vivere la mia gioventù con il passo con cui probabilmente l’avrei vissuta con un coetaneo. Ma un coetaneo non avrebbe avuto l’intelligenza e l’arguzia che aveva lui. «Il nostro non è stato il rapporto tra l’uomo che vigila sulla bambina e la bambina che si adagia in questa protezione o fa i capricci. Lo abbiamo evitato, come abbiamo evitato il patetico dell’uomo che prende la sbandata per la ragazza più giovane. Niente Pigmalione, anzi tra noi c’erano dei grossi scontri, né abbiamo mai voluto trasformarci in un'altra persona; lui ha avuto l'intelligenza di non voler apparire più giovane, e io ho evitato di fare la bamboletta».

- Aveva delle vere e proprie manie?

«No, tranne quella di astenersi, per almeno quattro ore dopo i pasti, dal radersi, bagnarsi o dall’avere un rapporto sessuale perché, sosteneva, ”il sangue viene richiamato da altre bande e si rischia brutto. Mica voglio rimetterci le penne, nemmeno se incontrassi la femmina più femmina del mondo!”. Così era anche facile intuire quando covava dentro la prospettiva di un’avventura perché allora, con un pretesto, saltava o anticipava il ! pasto e poi, prima di uscire, se ne stava immobile e tranquillo quanto un coccodrillo sazio al sole».

- In casa era un uomo «scomodo»?

«No. Non dava alcun fastidio. Quando finiva un film, dopo i primi giorni di riposo in cui si diceva felicissimo di poter fare quello che gli piaceva, si annoiava e allora scriveva o componeva ; canzoni per ore. Si sedeva in un angolo del salone con accanto un registratore, blocco per gli appunti, libri. Non ha mai voluto uno studio, preferiva aver tutto volante. E anche questa era una abitudine che si portava dal teatro, come avesse trasferito in casa la provvisorietà di una stanza d’albergo. Aveva una grande nostalgia per il teatro; il teatro era la sua passione: faceva il cinema solo per ragioni finanziarie».

1977 11 10 Amica a16 n45 Franca Faldini f4Il grande comico napoletano agli inizi della carriera nella parte dell’azzimato dongiovanni e durante la lavorazione di uno dei suoi ultimi film: era quasi completamente cieco ma continuava a recitare.

- Dicono che in teatro fosse il più sicuro degli attori, mentre invece, dopo aver assistito alla proiezione di un suo film, aveva sempre delle perplessità e voleva sapere il parere dell’autista, del cugino, degli amici che lo avevano accompagnato. Come mai? 

«In teatro era cosciente della sua forza tanto è vero che dietro le quinte gli capitava spesso di fare ! delle scommesse dicendo che quella sera avrebbe fatto ridere il pubblico o con il tono alto o con il tono basso, scommesse che puntualmente vinceva. Il cinema non gli piaceva, avrebbe ambito farlo migliore, si sentiva imbrigliato, ma soprattutto non aveva il calore del pubblico che gli confermava la giustezza della sua lunghezza d’onda, e che gli dava la possibilità di cambiarla se avvertiva qualche resistenza.

«Di qui derivava la sua insicurezza. Infatti le sue reazioni al ritorno a casa erano diversissime. Quando veniva dal teatro era sempre su di giri, con l’occhio vivo, e ricordava e commentava. Spesso anche dopo due spettacoli festivi invitava la compagnia a cena per proseguire il dialogo. Dal set, invece, arrivava spompato, come un capufficio che ha avuto una giornata monotona, ma al contrario di molti uomini che si rifanno sulla moglie non riversava su di me la sua scontentezza».

- Era geloso?

«Sospettoso, più che geloso». 

- Come lo dimostrava? 

«Stando a osservare come vivevi, come giravi e rigiravi, senza dartelo a vedere, dopo di che, se comprovavi che i sospetti erano fondati, c’era la reazione, altrimenti tutto finiva lì. Da principio credo mi facesse controllare, così più di una volta tornando a casa, quando io raccontavo: ”Ho incontrato tizio”, lui proseguiva: ”Sì, e poi magari caio in via Condotti”. Ed era vero, ma caio era così poco importante per me che me ne ero dimenticata, e lui già lo sapeva. Dopo, aveva di tanto in tanto quei piccoli pizzichi di gelosia che dimostrano l’interesse per qualcuno che ti è caro, e che in definitiva anche a una donna che fa di tutto per avere il massimo rispetto fanno piacere».

- Cambiò molto nel carattere quando fu colpito dalla cecità?

«Sì. Aveva momenti di grande sconforto, ma non me lo faceva pesare. Il suo carattere si incupì ma non si abbandonò mai a scene di disperazione. Era come se a quel punto gli fosse scattata una molla e io credo che sia stato il cervello ad averlo distratto con la sua enorme immaginazione. Costretto al buio, intercettava con la radio le chiamate della polizia, e allora faceva delle vere e proprie sceneggiature e mi diceva: io farei così e così; oppure captava la telefonata di un uomo da una nave a una donna a terra. Si intuiva che stavano vivendo un dramma, e poiché la telefonata si chiudeva con un ”ti chiamo domani sera”, lui la sera dopo era lì ad aspettare e commentava: "dovrebbe dirgli così” ecc. Nella sua infermità era molto orgoglioso e si asteneva dal girare e dall’accompagnarmi a teatro.

«Ricorderò sempre un giorno a Lugano, e ne ho parlato anche nel mio libro. Scendeva di macchina per andare a acquistare qualcosa in farmacia, e gli dissi che un gruppo di italiani lo aveva riconosciuto e gli si avvicinava. Rispose che non voleva aiuti e che sarebbe andato da solo a acquistare quanto gli occorreva. Si avviò disinvolto come se ci vedesse. Ma non ci vedeva e inciampando nello scalino del marciapiede, cadde. Si alzò subito, tornò in macchina e ordinò di mettere in moto. ”Che vergogna!”, mormorò. ”Adesso avranno ragione di dire che sono un povero cieco". Notai che i suoi occhi erano colmi di lacrime.

«Quella fu una delle rare volte in cui lo vidi piangere».

Mimmina Quirico, «Amica», anno XVI, n.45, 10 novembre 1977


Mimmina Quirico, «Amica», anno XVI, n.45, 10 novembre 1977