SEQUENZE - QUADERNI DI CINEMA
Prospettive del film cattolico
Prospettive del film cattolico
Quali sono i rapporti fra il cinema e la religione cattolica? Esiste una cinematografia ispirata ai principi del Cattolicesimo? Se non si può pretendere di dare una risposta definitiva a queste due domande con gli scritti raccolti nel presente fascicolo, fissare tuttavia alcuni punti essenziali, sulla base dei quali avviare la discussione sull’argomento, ci sembra tanto più utile oggi che i rapporti fra cinema e Cattolicesimo sembrano farsi sempre più stretti.
Che in questi anni si sia avuta una notevole fioritura nella produzione di ispirazione cattolica e che la Chiesa si mostri sempre più attenta e interessata nei confronti del cinema è un fatto che non crediamo possa attribuirsi a semplici ragioni di reciproco tornaconto materiale e che non ci pare possibile studiare solo da questo punto di vista. Dal Cristianesimo infatti hanno tratto ispirazione sommi artisti in ogni tempo; perché non dovrebbero trovarvi materia per le loro opere gli uomini migliori del cinematografo? Non potrebbe essere questa una ottima occasione perché il cinema si impegni finalmente in argomenti di elevatezza spirituale pari alle sue possibilità? Se i risultati finora raggiunti sono ancora molto modesti, non è però difficile avvertire nell’ultima produzione i segni che lasciano intravedere un possibile miglioramento. Film come Monsieur Vincent, La Croce di fuoco, e soprattutto Cielo sulla palude, hanno il merito di contribuire, al di fuori degli schemi ufficiali e dichiarati, alla creazione di un «personaggio cristiano» nel quale i principi religiosi acquistano valore ed evidenza umani.
Allo scopo di chiarire e illustrare i rapporti fra il cinema e la religione cattolica abbiamo offerto al lettore una documentazione diretta, la più importante, pubblicando il testo della enciclica papale «Vigilanti cura», pronunciata nel 1936 da Pio XI, e inoltre scritti più recenti di eminenti prelati e il contributo attuale di studiosi cattolici. Sulla base anzitutto della propria esperienza e con la guida degli scritti contenuti in questo fascicolo, al quale a questo scopo si è data in parte una impostazione di carattere panoramico, riservandoci di presentare in un secondo fascicolo sullo stesso argomento un più ampio contributo di critica, non sarà difficile giudicare l’entità dei risultati finora raggiunti.
Il nostro augurio è intanto che la Chiesa, più che considerare il cinema come elemento negativo e fattore di corruzione da combattere attraverso censure e prescrizioni, voglia piuttosto considerarlo, come è suggerito nell’enciclica «Vigilanti cura», uno a strumento di educazione e di elevazione» da usare attivamente, e tener conto che a operare la diffusione del bene rimangono le opere d’arte mentre tutto il resto, esaurito il compito immediato, non lascia traccia.
Tra i generi stilistici del cinematografo non esiste ancora quello religioso. Tutte le opere di contenuto spirituale costituiscono, di fatto, una serie di esperienze fallite e spesso negative. Quelle che hanno avuto un grande successo di pubblico e di critica, lo devono in realtà all’abile evasione dal tema fondamentale e ai diversivi spettacolari che i realizzatori hanno adoperato per sofisti, carne la sostanza.
Song of Bernadette, Going my way, The Belh of St. Mary’s — per non parlare che dei recenti successi — sono la riprova fin troppo scoperta di tale dolorosa verità. Jennifer Jones, Irtgrid Bergman, Loretta Young e Bing Crosby hanno confermato le grandi possibilità della loro arte, ottenendo insigni vittorie personali, senza però fermentare la materia dell’assunto essenziale. Song of Bernadette doveva dimostrare la storicità di una vicenda mistica straordinaria: ha invece mostrato che un episodio reale può essere rappresentato come usta favola. Perfino i produttori hanno cerca, to di scontare la delusione: degli spettatori, confessando la sconfitta in uno slogan iniziale bivalente. La Bergman e la Young nelle vesti di monache cattoliche e Crosby in quella di sacerdote, hanno fatto il gioco dell’agnosticismo religioso. Una bella suora e un simpatico prete sono graditi a tutti, anche perché talvolta il soggolo e la veste sono un elemento di suggestione, se non altro per il contrasto coti le persone che li portano. Ma nessuno spettatore ha creduto nella verità dei loro atti e delle loro parole o meglio, nella correlazione intima tra la Reli. gione e le visioni dello schermo. Assai prudentemente, i soggettisti e gli sceneggiatori avevano preparato temi di vago umanitarismo, di gradimento universale e d’impegno comune; ma non sono stati capaci di dimostrare perentoriamente il loro legame radicale con il fatto religioso. La controprova è offerta dall’ultima interpretazione della Bergmanf in Stromboli,
Siccome l’argomento affrontato da Rossellini non ammetteva possibilità di evasioni, la grande attrice svedese ha invano messo in opera tutte le risorse della sua arte: la conclusione è assolutamente gratuita perché lo sviluppo degli stati d’animo rimane solo intenzionale. Del resto, in Joan of Lorraine c’erano già le premesse dell’attuale insuccesso.
Un’eccezione può apparire il film Keys of the Kingdom, in quanto l’assunto e il successo dell’opera non sembrano condizionate dalla pur magistrale interpretazione di Gregory Peck. Ma la tara fondamentale del film è proprio nel suo tema, che non è affatto religioso nè missionario come vogliono far credere il protagonista e l’ambiente in cui agisce. E’ invece soltanto un tema umano e morale, in cui la polemica tra la sincerità e il fariseismo, e il contrasto tra l’oro e l’orpello hanno sopravalenza su tutta la struttura del racconto. Era facile prevedere il trionfo di un povero prete che paga sempre di persona, di fronte a un prelato influente, che viene prospettato come il simbolo della burocrazia vanitosa ed insipiente. Peck poteva impersonare un modesto e laborioso travet in lotta con funzionari altosonanti e vuoti, e il successo sarebbe staio uguale. In The Fugitive un altro sacerdote, mosso da istanze drammatiche Leu diverse, è stato devitalizzato dal regista Ford e ridotto a un personaggio oleografico. Il confronto con l’originale di Green è la più palese denuncia dell’insufficienza spettacolare dell’opera cinematografica.
Si deve dunque concludere per una radicale impotenza del cinematografo ad esprimere il fatto religioso nei suoi aspetti e nelle sue istanze più profonde? O non è invece lecito supporre che il genere religioso non sia ancora nato perché sono finora mancati i «genitori» autentici, gli artisti, cioè, che vivano la religione prima di vederla, che dell’opera facciano insomma una manifestazione autobiografica?
Bisogna intanto rilevare subito che lo schermo ignora in maniera sfacciata perfino le forme più elementari del culto. Tutte le volte che un rito religioso s’inserisce nella trama di un film, si avverte immediatamente lo stacco dal resto del racconto. Tutto è approssimativo, artificioso, irreale. Basti ricordare la grottesca figura del sacerdote cattolico in Sciuscià, dove De Sica si è evidentemente ispirato al repertorio protestante americano. Ancora più ridicola è in Song of Bernadette l’apparizione della Vergine, eseguita, anche tecnicamente, in modo primitivo e inaccettabile. Per questo, tutte le cerimonie culturali sullo schermo vengono «tirate via», e ridotte a qualche primo piano di attori noti e alla nube d’incenso risonante di campane tubolari. Che se le riprese sono fatte dal vero, allora sono il montaggio e il commento che si incaricano di denunciare l’incredibile ignoranza dei realizzatori. Vien fatto di pensare che la gente del cinema sia pagana per natura, refrattaria senza eccezioni al battesimo.
Ora, non si deve dimenticare che tutte le religioni, e particolarmente il Cattolicesimo, hanno un aspetto spettacolare di alta suggestione, che è definito dalla liturgia. Proprio perché la sostanza è spirituale, la Religione ha dovuto creare dei riti che simboleggiassero e rappresentassero allusivamente il contenuto invisibile. Nel Cristianesimo, i Sacramenti sono «segni» esterni che indicano l’operazione interiore della Grazia. Nel Battesimo si lava, nella Cresima si unge, nella Penitenza si assolve.... La Santa Messa è un’imponente costruzione di cerimonie di significato trasparente ed immediato. Non si può certo pretendere che in un’opera cinematografica, non didattica, i riti siano svolti completamente; ma è lecito attendersi un’onesta riproduzione delle par. ti essenziali e maggiormente significative.
Ma non è il rispetto della liturgia che risolve il problema cinematografico della Religione, e neppure la moltiplicazione sullo schermo dei preti disinvolti e delle suore seducenti: è l’impostazione stessa dello spettacolo che necessita di una revisione radicale. Parlando in particolare del Cattolicesimo, bisogna dissolvere l’equivoco che equipara il «buono» al «cristiano» e pretende di eliminare il male dallo schermo quando non è possibile eliminarlo dalla vita.
The Lost Week-End, opera a tesi morale, è rovinata proprio dal lieto fine che ne svuota il contenuto reale e, per la mancanza di ogni accenno a intervento superiore, diviene moralista e neutra, per non dire pagana. I bambini ci guardano ed anche In nome della legge, che pure si pongono esplicitamente sul piano etico, risultano negativi ai fini della Religione, perché il suo influsso è assolutamente ignorato nel decorso e nella risoluzione della vicenda. Perfino Joan of Lorraine e Monsieur Vincent, per l’inconsistenza del personaggio della protagonista nel primo film, e per la validità soltanto verbale del secondo, non si possono catalogare tra le opere veramente positive dal punto di vista religioso.
Del resto, è necessario chiarire subito che il film cattolico non è sinonimo di film agiografico, nel senso che i limiti di un’opera a carattere cristiano non collimano necessariamente con quelli della vita di un santo. Ai fini apologetici può essere preferibile un film agiografico, ma come spettacolo didascalico è indubbiamente più efficiente un lavoro di costume cristiano ordinario.
Ed è a questo punto che si pone, perentorio, un dilemma. O la Religione ha un peso e un influsso nella vita degli uomini e dei popoli, ed allora è possibile e doveroso documentarne la presenza nella sua rappresentazione cinematografica; oppure non lo ha, ed è perfettamente inutile produrre film «religiosi», che risulterebbero falsi e tendenziosi. La risposta non riguarda evidentemente la storia, ma la coscienza dei realizzatori ; non si basa cioè su di un fatto obiettivo — del resto indubitabile — ma sulle convinzioni personali dei produttori. La potenza interiore di un’opera scaturisce dall’idea che l’ha generata e che la permea, quasi in contrasto con i mezzi anche minimi di espressione. Chi ha visto Suora Nera, un film girato nel Natal con interpreti zulù, ha sentito che la tecnica rudimentale delle riprese era sopraffatta e sublimata dalla sincerità degli attori, che riproducevano un brano di vita vissuta. Lo stesso fenomeno si verifica in un film cinese sulla resistenza all’invasione del Giappone. Gli ideatori hanno accentrato l’azione del racconto attorno alla figura di un missionario cattolico, truccando forse per la prima volta nella storia del cinema, un attore indigeno da europeo. Non ci sono conversioni, nè propaganda di alcun genere, perché i produttori sono tutti pagani e l’opera è stata fatta all’insaputa dei missionari; ma, per il fatto che il protagonista viene prospettato come un amico sicuro e fedele del popolo che evangelizza, il film costituisce un apporto cospicuo alla causa missionaria.
Se, pertanto, il nucleo essenziale di una opera cinematografica non porta il segno indelebile del credo e del costume cristiano, non è pensabile un genere stilistico religioso. Cerimonie e riti, visioni e miracoli diventano noiosi perché gratuiti e quindi superstiziosi.
Si dirà che il problema riguarda tutta l’arte e tutte le manifestazioni umane. E’ un fatto, però che il cinematografo, quale massima espressione di un’arte composita e corale, tanto nella sua realizzazione come nel modulo spettacolare, esige una verità assoluta nella trasposizione dei concetti in immagini concrete. La coerenza diviene un’istanza funzionale dell’opera d’arte, proprio perché interferisce! direttamente sulla sua accettabilità da parte del pubblico cui è destinata.
Ber questo, il genere religioso o, meglio, cristiano, non può ammettere il lieto fine di marca hollywoodiana, imposto da considerazioni ricreative; per questo, non può e-liminare la rappresentazione del male come elemento drammatico. Nei soggetti altamente spettacolari che il Vangelo delinea nelle Parabole, la dialettica del bene e del male è sempre presente, ed è la ragione del loro interesse e della loro efficienza perenne.
Il genere cinematografico religioso nascerà, dunque, quando all’obiettivo della macchina da presa si avvicinerà un artista che abbia una visione del mondo inquadrata nei postulati della verità cristiana e ne senta così potentemente l’impulso da non potersi sottrarre alle sue conclusioni vitali. Ci sono, senza dubbio, molti cineasti che credono e vivono individualmente il Cristianesimo, che ritengono la Religione un fattore indispensabile della convivenza umana; ma bisogna pensare che nessuno abbia raggiunto la maturazione artistica attraverso quella religiosa. Esiste una frattura nel loro spirito e nella loro sensibilità, che si riflette inconsciamente nelle opere. Quando si apprestano a realizzare un film di carattere religioso o morale; hanno il pudore di non attingere alle convinzioni del loro animo e si lasciano trascinare nello schema comune dell’indifferenza compiaciuta, per paura di rivelare la presenza di un sedimento interiore che potrebbe diminuirli. D’altronde, nelle risoluzioni dei drammi che costruiscono, non sono capaci di inserire l’elemento religioso perché non conoscono, se non approssimativamente, la sua problematica.
Sanno alla perfezione la ginnastica della seduzione, dell’amore, del delitto; ignorano i mezzi d’estrinsecazione dei sentimenti religiosi. E li ignorano perché di fatto nessuno studio, nessuna ricerca appassionata è stata compiuta in merito. Non ci si è posti neppure il quesito se i gesti e gli atteggiamenti della preghiera e della devozione siano quelli oleografici delle immagini dozzinali, ovvero quelli reali della semplice vita cristiana. Il richiamo alla Croce; che ricorre inderogabilmente quando si voglia manifestare la presenza del fattore religioso, avrebbe ben altra efficacia se fosse rappresentato da un traguardo, da un limite insormontabile. Il soggolo della monaca e la sottana del prete non sarebbero una semplice divisa se inquadrassero persone segnate da un impegno superiore e divino ....
Senza simili premesse, il genere religioso e cristiano non avrà mai la sua espressione cinematografica.
F. C. Vanzin, «Sequenze - Quaderni di cinema», anno II, n.7, marzo 1950