Risate in stato d’arresto – «Guardie e ladri» e l’umorismo interrogato dalla censura
🎭 “Tengo famiglia!”: ovvero il neorealismo si mette i baffetti e ride (per non piangere) 🎭
Siamo nel glorioso, dolente, caotico, struggente dopoguerra italiano. L’Italia barcolla tra le macerie, il desiderio di rinascita, l’incertezza sociale e il bisogno disperato di ridere per non farsi sommergere dalle lacrime. È in questo brodo primordiale, condito di censura, cinepresa e furbizia partenopea, che nasce “Guardie e ladri”, film-cesura, pellicola-soglia, mattoncino fondamentale di quella casa assurda e geniale che sarà poi la commedia all’italiana.
📸 Un’Italia a due velocità (e nessuna delle due è tranquilla)
Il film mette in scena uno dei dualismi più fecondi della commedia sociale: la guardia e il ladro, cioè Aldo Fabrizi e Totò, cioè il piccolo borghese e il sottoproletario, cioè l’ordine e il disordine. Ma attenzione: qui non si tratta di una barzelletta con la divisa. Questa è roba seria travestita da farsa, come quando ti fanno un'iniezione ma ti distraggono con la caramella.
Il "tengo famiglia" è il leitmotiv della storia e della morale: un disperato mantra di sopravvivenza, un rosario laico recitato da chi non ha santi ma solo conti da pagare. Il brigadiere Bottoni arresta Esposito, sì, ma lo fa con la stessa tristezza con cui si butta via un paio di scarpe rotte: “Chi pensa alla mia famiglia? Eh? Chi?” — una battuta tagliata dalla censura, ché mica si può far vedere un tutore dello Stato che ragiona come il povero cristo che dovrebbe inseguire!
📚 La commedia dell’arte... sociale
Calvino, che notoriamente col cinema ci parlava solo nei giorni pari e con la mano sinistra, apprezza “Guardie e ladri” perché, a differenza di molto neorealismo che si prendeva troppo sul serio, qui si parla di popolo senza retorica, senza lacrime facili, senza mandolini ma anche senza tromboni. Lo stesso Franco Fortini gli fa eco: il film è roba buona, “di produzione media” certo, ma con uno sguardo intelligente su un’Italia che ricomincia a dividersi in caste e sottocaste, in borgate e salotti, in poveri veri e poveri col televisore.
E infatti, che cos’è se non un ritratto sociale spietato e travestito da rincorsa slapstick? Si corre, si scappa, si inciampa, si cade. Dai Fori Imperiali all’Acqua Acetosa, passando per una città che è già periferia esistenziale oltre che geografica. Come in “Ladri di biciclette”, sì, ma con la differenza che qui la bicicletta è la comicità e il furto è solo il pretesto.
🎬 Un cast, un caso e un Totò con l’anima
Totò, che aveva cominciato col varietà e finito per diventare un genere a sé, qui non ride come al solito, ride male. È un ladro sì, ma con le occhiaie. Non è ancora il Totò dei travestimenti improbabili, ma quello coi baffetti, quello che soffre e non solo diverte.
Alla lettura del copione, il principe De Curtis dice: “Questa è roba per Fabrizi, che c’entro io?”. E invece c’entra eccome. Perché qui si ride ma con una cravatta troppo stretta, con la pancia vuota, con lo sguardo storto. Qui Totò non è il giullare immortale, ma uno che può anche morire. In silenzio. Fuori campo.
Il suo ladro Ferdinando Esposito è il fratello gemello del Dante Cruciani de “I soliti ignoti”, solo che invece di insegnare l’arte del furto, ci insegna l’arte della sconfitta. Quella dignitosa, silenziosa, con la sciarpa sdrucita e il cuore in gola.
🔍 Censura: l’altra protagonista
Ah, la censura. Quella zitella isterica che rovina tutti i party. “Guardie e ladri” viene colpito e affondato con tagli chirurgici. Il finale, crudo e onesto, viene amputato. Troppo amaro, troppo vero, troppo poco propagandistico. Niente famiglie perfette, niente morale trionfante. E allora via, taglia, cuci, ricama. Come far indossare un tight a uno che vive sotto i ponti.
Ma nonostante i cerotti e i silenzi imposti, il messaggio passa: chiunque tu sia, se hai una famiglia, la legge la subisci, non la fai.
🎥 Un film che spiana la strada (e la rende dissestata)
“Guardie e ladri” non è un film, è una rampa di lancio. Lancia Totò verso la sua fase più malinconica, lancia Steno e Monicelli verso traiettorie divergenti (ma sempre affilatissime), lancia la commedia italiana in quel territorio accidentato e affascinante che sarà, di lì a poco, la commedia all’italiana vera e propria.
Perché sì, è vero: prima di arrivare a “Divorzio all’italiana”, a “Il sorpasso”, a “La grande guerra”, c’è bisogno di passare per questa terra di mezzo, dove il neorealismo si prende un momentino per ridere, anche se lo fa con la faccia da funerale e le scarpe bucate.
E mentre i melodrammi spopolano (grazie Matarazzo, ci hai fatto piangere anche con le pubblicità delle scarpe), Totò resiste, incassa, trasforma. Totò a colori è campione d’incassi, certo, ma “Guardie e ladri” è campione d’anima.
🏁 Epigrafe finale: “E ognuno pensa alla famiglia sua…”
Insomma, “Guardie e ladri” è la dimostrazione vivente che la commedia può essere tragica, e la tragedia può avere il singhiozzo da risata strozzata. È un film che parla di uomini che non hanno tempo per pensare a grandi ideali perché devono pagare la mensa scolastica e riparare la suola. È una corsa disperata che parte come farsa e finisce come elegia.
E sì, alla fine, ognuno pensa alla famiglia sua. E per questo ride, e per questo piange. E per questo, ancora oggi, il film ci riguarda tutti.
Riferimenti e bibliografie:
- «Guardie e ladri», Alberto Anile, Iacobelli Editore, Roma 2018