Evi Marandi, la collegiale ribelle
Figlia di un banchiere greco, educata nei migliori collegi, Evi Marandi ha rinunciato alla sua posizione sociale per seguire da sola la propria strada: ed ha scelto il difficile mondo del cinema
Roma, giugno
In greco il suo nome si scrive: Eyh Maranih: in italiano suona Evi Marandi. Quando da Roma Evi ritorna in patria, i giornali riportano la notizia del suo arrivo, i settimanali (che là non sono ancora a rotocalco) le dedicano la copertina e magari uno "strillo”, nel quale, per dire la sua notorietà, può esserci scritto: «Eyh Maranih e madame Nuh sono le due donne celebri arrivate la settimana scorsa ad Atene». E' un po’ come da noi quando la Lollo e la Loren ritornano da un soggiorno all'estero; con la differenza che Evi non viene da Itaca o da Telepeni, suo padre è un alto funzionario all'estero della Banca di Grecia, che ha amicizie tra gli uomini della finanza e del commercio internazionali. Anche per questo motivo, oltreché per le sue numerose paure, la storia di Evi è diversa dalla solita delle ragazze che tentano la strada del cinema.
Ciò che l’ha spinta ad abbandonare la sua famiglia, gli agi, i cocktails, i week-end con i coetanei sulle macchine sport, la prospettiva d’un matrimonio di convenienza, non è tanto l’ambizione di vedere il proprio nome sui cartelloni, il desiderio d’una esistenza cosiddetta facile: è piuttosto il bisogno di farsi una vita propria, di poter dire: «Ecco, questo non me l'hanno regalato i miei genitori... ho raggiunto tanto: non è molto, però è tutto merito mio».
La sua, insomma, è una storia alla rovescia; per qualche aspetto ricorda quella di Catherine Spaak, tenendo conto tuttavia che in Francia l'emancipazione femminile ha ormai bruciato tutte le tappe, mentre in Egitto (dove Evi ha vissuto 13 anni) e in Grecia ancora balbetta. Anche ad Atene sono poche, infatti, le ragazze borghesi che lavorano; mettersi a fare la segretaria o la dattilografa è un atto d’audacia, e il desiderio d’indipendenza è riguardato con molto sospetto. Figurarsi poi una che vuol fare l’attrice.
A Cannes senza soldi
Era inevitabile, date queste premesse, che la carriera di Evi dovesse per lo meno passare attraverso una fuga da casa, come succede ancora nei villaggi dell’Epiro o della Macedonia allorché una ragazza s’innamora d’un giovane che i genitori non vogliono darle per marito; e che la fuga sia avvenuta a bordo d’un modernissimo reattore, è solo un segno dei tempi.
Un produttore le propose un giorno di rappresentare la Grecia al Festival di Cannes. «Sei pazza — le disse sua madre, quando Evi, emozionatissima, glielo raccontò. — Partire da sola, viaggiare sola, restare fuori casa tanti giorni, e tutto per andare in quel luogo di perdizione, figlia mia...». E fattosi il segno della croce, la tirava signora considerò chiuso l’argomento.
Quando sua madre si fa il segno della croce. Evi sa che non c’è più niente da fare; perciò, in queste occasioni, di solito ella si rivolgeva al padre, cercando di prenderlo con la lacrimuccia. Ma questa volta papà si trovava a una ventina di chilometri da Atene, in America, troppo lontano per sperare di commuoverlo; e poi su questo argomento del cinema, egli era quasi più inflessibile di sua moglie. La prima volta che Evi gliene parlò, impallidì: «Nella nostra famiglia...», cominciò.
La sua famiglia viene dalla stessa isola da cui provengono, in Grecia, tutti i grandi armatori, Onassis compreso. Il nonno paterno di Evi non era un armatore, ma aveva a che fare col mare e con gli armatori: era un capitano di lungo corso. Suo figlio ha preferito la terraferma e la partita doppia; tra Egitto. Grecia e America, ha viaggiato il mondo quasi più del padre. La famiglia lo ha seguito in tutti i suoi spostamenti, il più lungo dei quali è stato, fino ad oggi, in Egitto, dove Evi ha passato l’infanzia e tutta l’adolescenza. I suoi ricordi di quel periodo sono quelli d’una jeune fille agiata, molto coccolata perchè figlia unica, e poi inviata in collegio per temperare gli effetti negativi dell’eccessiva benevolenza dei genitori.
Il collegio era quello della "Sacre-Mère-de-Dieu”, il miglior collegio di Alessandria: frequentato non solo dai figli dei notabili egiziani, ma dalla prole di tutti i diplomatici e uomini d’affari europei dislocati nella capitale del Medio Oriente. Tra le amiche di Evi c’erano la figlia dell’ambasciatore d’Egitto in Russia e la figlia di Faruk, che allora era ancora sul trono. Come in tutti collegi tenuti da religiose, anche al ”Sacre-Mère” le suore facevano le spese dell’irrequietezza delle collegiali, e uno degli scherzi più in voga consisteva nell’avvicinarsi di soppiatto a una di loro, e legarle il velo alla sedia: impresa nella quale Evi eccelleva, tanto che i genitori decisero di passarla da "esterna” ad "interna”.
Dal punto di vista della libertà. si stava meglio al "British College”; ma anche qui e fuori di qui, nell’ambiente jeunessr dorée dello Sporting Club, Evi sentiva che qualcosa non la soddisfaceva. Niente di preciso, ma tutto era troppo facile e alla fine diventava noioso. A tredici anni, eccettuata la parentesi dell’internato, non c'era desiderio che i suoi genitori non avessero accontentato.
Inconsciamente, andava cercando qualcosa che provocasse il loro veto. L’occasione si presentò quando, tornati ad Atene. un produttore le propose di fare una parte in un film. In casa scoppiò un temporale; ma di fronte alle lacrime di Evi e al fatto che il produttore era un amico di papà, in capo a tre giorni era tornato il sereno. D’altronde si trattava d’un film "fatto in casa", con pochi soldi: una volta provato, Evi si sarebbe certamente stufata.
Il ragionamento non era del tutto sbagliato: il cinema greco non è tale da aprire a qualcuno vertiginose prospettive di successo. La sua produzione si regge sul fatto che i film stranieri non sono doppiati, e sull’assenza della TV; per la maggior parte, i film greci raccontano storie di amori contrastati. Tanto più Evi si senti solleticata dalla proposta di partecipare al festival di Cannes. Là, in un giorno, poteva accadere tutto ciò che ad Atene non sarebbe mai accaduto. Ma queste cose sua madre non poteva capirle; e perciò Evi decise che le restava una sola possibilità: la fuga.
A questo punto, la storia poteva avere due soluzioni: a Cannes la ragazza passa inosservata (soluzione verosimile), oppure incontra il celebre regista che la scopre (soluzione da fumetto). Niente di tutto questo: la realtà fu ancora più cruda. Una mattina, la ragazza telefona al produttore che la aveva invitata, e viene a sapere che questi, insalutato ospite, è partito. C'è di più; il signor produttore è partito senza pagare il conto. Evi si sente gelare. A Cannes non conosceva nessuno. Soldi con sè non ne aveva portati, perchè era scappata. Anche telegrafando, prima di tre-quattro giorni non sarebbero arrivati. Ma gli albergatori francesi sanno distinguere cliente da furfante. La signorina non si preoccupasse, avrebbero atteso. Così Evi si mise a girellare sulla Croisette, e sulla Croisette incontrò l’occasione che ormai non aspettava più: due cineasti italiani, un regista e un produttore, i quali li per li le offrirono una parte in un film con Anthony Steel.
Poliglotta (conosce alla perfezione cinque lingue), l'attrice ha recentemente affrontato con successo anche la prova del palco-scenico recitando, accanto a Giorgio Albertazzi, nella commedia "Antigone Lo Cascio”. La giovane attrice greca lavora da due anni a Cinecittà: il suo primo film è stato "Il deserto dei Tartari” con Anthony Steel. Attualmente è una delle attrici più richieste per i film "western” che ora si girano anche in Italia.
Il film cominciava fra tre giorni: bastava che si fermasse a Roma. Evi non disse nè si nè no; dopo la recente scottatura, cominciava a pensare che sua madre forse aveva ragione, sul cinema e il resto... Ma durante la sosta a Ciampino la tentazione la riafferrò e fu più forte della paura.
Quando l’aereo riparti per Atene aveva una persona in meno a bordo, e oggi il cinema italiano ha un’attrice in più. Gentile d’aspetto, slanciata di figura, con la bocca tumida, gli occhi nocciola, che sa cinque lingue meno il greco d’Omero. Da quel giorno dell’aeroporto, sono passati ormai più di due anni, e non sono stati anni buttati via. Tanto per cominciare. Evi girò veramente il film con Anthony Steel. Si chiamava (il titolo non lo dimenticherà facilmente) Il deserto dei Tartari. Non solo fu il suo primo film italiano, ma durante la lavorazione pagò il suo papiro di matricola del cinema con un altro grosso spavento. La scena prevedeva che Evi attraversasse il set di corsa, davanti a cinque cavalli al galoppo: essendo i cavalli partiti fuori tempo. Evi fu urtata, gettata a terra e scavalcata da una ventina di zoccoli. Per fortuna nessuno la colpì, e così potè tranquillamente spogliarsi in tutta una serie di film: da Leoni al sole a Siamo tutti pomicioni, ecc., dove spogliarsi per un’attrice è d’obbligo.
Il collaudo del palcoscenico
Come succede a tutte le debuttanti che non siano state scoperte da Fellini o Lattuada, la tunica o il bikini sono i loro costumi di scena; ora, a questi, con la fortuna del genere western, se n’è aggiunto un altro. La gonna lunga, ottocentesca, delle donne dei cow-boy. Evi l'indosserà in due film di cui sarà la protagonista accanto a John Beyr. Nel frattempo, però, ha fatto anche qualcos’altro: una parte nel dramma Antigone Lo Cascio, rappresentato da Albertazzi dopo l’Amleto che forse le aprirà altre strade, più adatte a quella che probabilmente è la sua corda più originale: una certa sensibilità e una volontà di ferro che si mettono in moto di fronte agli ostacoli, tramite la paura.
Anche con Albertazzi passò una grossa paura. Quando, dopo che egli l’aveva scritturata. Evi cominciò a pensare, «Oh, Dio. ma io in teatro non ho mai recitato, l’italiano lo so così e così: che succederà? saprò cavarmela?..». Per vincere questa paura si mise sotto, giorno e notte, a studiare la parte; non dormiva più, non mangiava più. Però la sera delle prove, Albertazzi disse: «Avete visto, ragazzi: la piccola greca vi ha messo sotto tutti.»
Stelio Martini, «Tempo», anno XXVI, n.28, 11 luglio 1964 - Fotografie di Chiara Samugheo
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Stelio Martini, «Tempo», anno XXVI, n.28, 11 luglio 1964 - Fotografie di Chiara Samugheo |