Per il figlio di Anna Magnani compleanno col chirurgo
Luca ha compiuto i tredici anni sul iettino d’una clinica di Losanna, dove sono stati sottoposti a sei dolorosi interventi chirurgici i suoi piedi colpiti dalla poliomielite dieci anni or sono. L’inviata di “Tempo” ha seguito ora per ora Anna Magnani e suo figlio in questa tormentosa svolta della loro vita.
Losanna, ottobre
Eravamo sulla terrazza accesa di gerani, posta al limite di un corridoio della clinica Bois Cerf, a Losanna, dove si affacciano le vetrate della sala operatoria. Anna Magnani soltanto lì si sentiva più vicina al figlio che il dott. Louis Nicod, titolare della cattedra di ortopedia all’Università di Losanna, stava operando ai piedi in quel momento.
Ci avevano portato fino a quella clinica giornate d’incertezza e notti piene di angoscia durante le quali era stato impossibile forzare la solitudine e la pena che Anna aveva voluto dividere solamente col figlio. Luca, a tredici anni, dopo aver addomesticato il dolore, parla con sua madre quasi consolandola. La poliomielite che lo colpì in maniera durissima dieci anni or sono, trafiggendo la sua infanzia, ha dato acutezza sorprendente alla sua sensibilità, ed è sempre con senso di protezione che Luca si rivolge alla madre angosciata.
LUCA, IL FIGLIO UNICO di Anna Magnani, è stato operato pochi giorni or sono nella clinica ”Bois Cerf” di Losanna, dal professor Louis Nicod. Subito dopo l’intervento è caduto il tredicesimo compleanno del ragazzo e l’inviata di "Tempo” è stata ammessa a fotografare 1 intima, patetica cerimonia. Erano presenti soltanto il ragazzo, sua madre, Nina Garavatti (da dieci anni governante-infermiera di Luca), il chirurgo e la nostra Egle Monti. Nella sequenza fotografica che pubblichiamo qui sopra è espresso tutto il tormentoso amore di Anna Magnani per il suo bimbo infelice e martoriato. Luca fu paralizzato agli arti inferiori dieci anni fa da un attacco gravissimo di poliomielite: l’intervento di questi giorni, consistito in sei distinte operazioni, è destinato a ridare agli arti del ragazzo un poco di funzionalità. La decisione di affrontare i ferri del chirurgo è stata presa da Luca e da sua madre insieme, dopo una lunga conversazione.
«Vuoi che ti cerchi una carrozzina senza pedali?».
«No, mamma, fa troppo malato».
Lunghe sedute con il professore Nicod, il valentissimo clinico che da molti anni ha in cura il bambino, dovevano servire a mettere Anna al corrente dei vantaggi che Luca avrebbe tratto dalle quattro operazioni che doveva subire ai piedi, ma il bilancio della sofferenza e dei sacrifici del figlio riempiva Anna di ansia e di perplessità. L’intervento necessario, ma non indispensabile, oltre a un dolore fisico terribile avrebbe portato a Luca due mesi d’ingessatura e uno supplementare d’immobilità assoluta. I vantaggi? Al ragazzo sarebbero tornati diritti i piedi che la paralisi aveva costretto all’infuori, e avrebbe avuto più forza negli arti. Nicod, per operare, aveva atteso tutto il ricupero possibile e tardivo dei muscoli del bambino, e che fosse definitivo il bilancio della paralisi.
Luca, consultato, stabilì con sua madre che si sarebbe sottoposto alla delicatissima operazione. «Mi consiglio con te, Cellino, perchè siamo tu e io soli, sempre, a decidere della nostra vita» gli aveva detto Anna la quale, anche se con struggente tenerezza, lo tratta da pari. «Vuoi che tentiamo? Ho il dovere di fare tutto il possibile per sollevarti dal male, ma tu devi decidere insieme a me. Mi capisci?».
«Andiamo, mamma» aveva risposto Luca il quale, con sua madre, parla sempre al plurale della sua malattia.
E così, un giorno, lo accompagnammo alla clinica Bois Cerf a farsi operare dal professore Nicod. Fotografie, radio, libri, fiori e giochi di pazienza lo accompagnavano nel suo viaggio attraverso il dolore, insieme con Lillina, la sua bassottina a pelo lungo che Anna aveva portato da Roma, dietro richiesta di Luca. Il coraggio del ragazzo che stupiva e riempiva di ammirazione noi e di orgoglio sua madre, cadde, a un tratto, quando l’attesa troppo lunga della camera ancora occupata da un paziente, ci relegò in un salottino del pianterreno. Passavano suore, infermiere e dottori in camice bianco, una teoria di persone addette al dolore umano, che minarono la forza del bambino. «Portami via, mamma, quasi quasi ci rinunzio» disse appoggiando la testa su di un tavolo, quasi a nascondere la angoscia degli occhi, in una posa disperata di uomo che non ne può più.
Fu duro calmare Anna. Le parole del figlio avevano aperto in lei terrori non confessati ancora e che ci erano apparsi soltanto attraverso il suo volto bianco per gelo interiore. La valigia colma di pigiamini nuovi e di giocattoli fu sollevata’ come una piuma da Anna che sollecitava le suore a lasciarli andar via. Cercammo di creare una zona neutra, tacendo, mentre Luca già si riprendeva e sorrideva a sua madre. «Ma via, mamma, ora ci siamo...». Io dovetti recarmi ancora più volte nel gabinetto del prof. Nicod a farmi spiegare i vantaggi che Luca avrebbe ottenuto dall’operazione. Anna sperava sempre che portassi l’annuncio di un miracolo, ma non potevo che ripetere le parole chiare e precise che lei stessa aveva udito tante altre volte.
Ora eravamo su quella terrazza dalla quale Anna guardava i vetri della sala operatoria con l’ombra di una sofferenza tanto acuta da somigliare al terrore. Il freddo già intenso induriva il cielo e la ’’bise”, il freddo vento del lago Lemano, scendeva su di noi. scompigliandoci i capelli. Anna mormorava qualche parola. a tratti. «E lì» mi diceva, mostrandomi la sala operatoria con gesti che somigliavano non so più se a esorcismi o a implorazioni.
Dopo che il prof. Nico,. nemico di emozioni che turbino il paziente prima dell’atto operatorio, l’aveva pregata di astenersi dal vedere il figlio, il mattino seguente Anna, che aveva sperato addirittura di poter assistere all’intervento, si era alzata alle cinque per aspettare nei corridoi della clinica il passaggio di Luca che fu portato in sala operatoria soltanto alle otto. Da dietro una porta a vetri opachi la madre vide passare' alcune ombre e si segnò, mentre con l’altra si comprimeva il petto. «Il Cellino mi deve aver cercata. Che crudeltà, che crudeltà. Gli avranno detto che io sono qui dietro?». Il pensiero della narcosi l’agitava più di ogni altro. Il prof. Gobey. che doveva praticarla, il giorno prima le aveva spiegato minutamente il suo sistema e l’aveva rassicurata, ma l’immagine del "Cellino” privo di conoscenza, abbandonato in mano ai dottori senza che lei fosse presente, le dava, a tratti, sentimenti di reazione che sono sempre acutissimi, in lei. «E’ mio figlio» diceva impotente, scuotendo la testa. E sembrava che volesse stabilire un possesso che altri le negavano, mentre passavano le ore e il tempo previsto per l’intervento si allungava smisuratamente. Un’infermiera scendeva a intervalli regolari a portare notizie: «Tutto molto bene, ma non è ancora finito».
ANNA MAGNANI sale le scale della clinica svizzera nella quale è ricoverato il figlio. Nell'articolo di Egle Monti sono descritte le ore di angoscia e di dubbio attraverso le quali è maturata la decisione di operare Luca, e l'incredibile forza d'animo del ragazzo.
Il pianto di Anna
Ancora due ore, ancora una ora, ancora mezz’ora. Camminavo dietro ad Anna, che adesso si agitava davanti all’ascensore che riporta giù gli operati. I falsi allarmi le sbiancavano il volto e io avrei voluto abbracciarla, benché tutto in lei chiedesse solitudine e qualche cosa di duro respingesse chi le era vicino in regioni dove soltanto il rispetto e la solidarietà muta erano ammessi.
Il passaggio del bambino, ancora sotto la narcosi, le strappò un grido che si sciolse in lacrime. Si toccava il corpo, quasi sentisse suo figlio soffrire dentro di lei e poi un pianto silenzioso e accorato la liberò del rancore che nelle ultime ore era nato in lei contro la vita. «Vorrei non avere niente, vorrei non aver fatto niente, vorrei ricominciare tutto daccapo, purché mio figlio avesse le gambe sane».
Il prof. Nicod scese subito dopo, sorridente e soddisfatto del suo intervento. «E’ stato lungo», disse, «perchè ho trovato altre cose da fare. Ho lavorato per tre ore, ma sono pienamente soddisfatto del risultato. Le operazioni sono state sei, non quattro, come prevedevo». Io guardavo Anna afflosciarsi come un cencio all’idea di due interventi supplementari che lei non aveva immaginato nè seguito. E quando Nicod cominciò a spiegarle l’operazione che aveva fatto, immediatamente lucida e presente a se stessa mi fece cenno di seguire con lei il difficile discorso del professore, che potemmo tradurre, da profani, così: «L’operazione al piede sinistro è destinata a dare più solidità al piede stesso il quale si metteva all'infuori a causa della predominanza dei muscoli del peroneo. Abbiamo fatto l’artrodesi dell’articolazione di Chopard e della articolazione astragalo-calcaneo-scafoidea. Inoltre abbiamo operato il trapianto del muscolo peroneo lungo attraverso il calcagno allo scopo di rinforzare il muscolo del tricipite. Nel piede destro l’operazione è destinata a correggere un pied griffe paralitico. Abbiamo trapiantato l’estensore lungo dell’alluce attraverso la testa del primo osso metartasale e, per evitare la deformazione en griffe dell’alluce, abbiamo fatto la artrodesi interfalangica dell’alluce. Il piede aveva tendenza a mettersi all’infuori, di modo che abbiamo spostato il muscolo tibiale anteriore dietro al navicolare».
IL PROF. LOUIS NICOD con Luca, dopo l’operazione. Nicod è succeduto al padre nella cattedra di ortopedia dell’Università di Losanna: entrambi hanno curato il figlio di Anna Magnani fin da quando fu colpito. Luca ha fatto d’altronde tutte le scuole in un collegio svizzero.
Gli amici di Luca
Mentre io prendevo rapidamente queste note, Anna tempestava di domande il professore Nicod che rispondeva sorridendo, in fretta, accennando con la mano alla sala operatoria dove il suo lavoro non era compiuto. «Certamente, oltre alla questione estetica, il ragazzo avrebbe trovato un beneficio sensibile nel camminare; sì, per qualche giorno avrebbe sofferto molto, ma il dolore si sarebbe composto in un tempo molto breve; sicuro, oggi lo avrebbero fatto dormire per tutta la giornata; che fosse certa, la narcosi non lasciava strascichi; che non si agitasse, sarebbe venuto a vedere il bambino due o tre volte al giorno».
Nel suo lettino Luca dormiva, bello come ”Child Harold”. Gli occhi chiusi si allontanavano verso le tempie fra l’ombra profonda delle lunghissime ciglia. Anna si è chinata allora quel lettino e ha baciato il figlio con dell’unico bacio che è concesso soltanto alle madri, quando nasce un bimbo. Da quella camera si è mossa una sola volta, nel pomeriggio in cui il figlio non avrebbe potuto vederla, per andare a comperare un televisore che rallegrasse con qualche immagine le dure ore dell’immobilità di Luca e per ordinare un fascio di fiori quotidiano da portare in clinica.
Più tardi, quando Luca riprese coscienza e rientrò nel dolore con una forza d’animo che gonfiava il cuore di sua madre e stupiva dottori e infermiere, in clinica fu ammesso qualche piccolo amico del ragazzo. Le storie di Lillina che ordini severissimi escludevano e che entrava acquattata dentro una sporta, fanno parte di una biografìa conosciuta di Anna Magnani.
E sono incominciati i lunghi giorni della pazienza, i pianti silenziosi di Luca, l’assistenza umile e devota di sua madre. Ma quello che era accaduto di più spaventoso sembrava già lontano, come le cose che avvengono in sogno e che lo spirito ritrova trasformate all’alba. Così che quando Luca ha compiuto in clinica i suoi tredici anni e una piccola festa piena di fiori e di doni ha salutato il suo nuovo anno di vita, insieme con sua madre il bambino ha potuto guardare sorridendo le candeline accese sulla torta le quali, come nei racconti delle fate i lumicini lontani lontani, erano belle come la speranza.
Egle Monti, «Tempo», anno XVII, n.45, 10 novembre 1955
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Egle Monti, «Tempo», anno XVII, n.45, 10 novembre 1955 |