Federico Fellini: Giulietta, l'oscar e io
«La danza è il mio hobby», dice Giulietta Masina, «ma Federico in fondo non sta a guardare»
Questa è la seconda volta di seguito, che Giulietta ed io vinciamo l’Oscar. Non a caso scrivo «vinciamo». Se sono riuscito a tradurre in immagini una parte della mia fantasia e ad esprimerla in modo comprensibile al pubblico così vasto delle platee cinematografiche di tanti diversi paesi, questa possibilità io la debbo in gran parte a Giulietta. Molto spesso un uomo ed una donna, un marito ed una moglie, si fanno pubbliche dichiarazioni di reciproca stima ed il sospetto che si tratti di una generica «affinità elettiva » è legittimo, nei lettori più scaltri, anche perché la consuetudine vuole, soprattutto nel rotocalco, il rispetto di una regola ottimistica per quanto riguarda gli affari sentimentali. Tuttavia gli spettatori dei miei film sanno che sarebbe difficile separare le mie storie cinematografiche dal volto e dai «modi » di Giulietta ed avranno capito che ella è qualcosa di più dell’interprete ideale.
Perché non è soltanto la sua capacità di inventare la caratteristica mimica di Gelsomina o Cabiria ciò che mi interessa e mi «serve » in Giulietta ma è il fatto che Giulietta è mia moglie. Perdendo e riconquistando insieme, in molti anni, le fette di felicità che la vita ci offriva abbiamo imparato ad osservare la società dallo stesso angolo. Così ognuno di noi — ed in modo autonomo — ha potuto portare liberamente il suo contributo. Dai piccoli fatti quotidiani, dagli stati d’animo segreti, dal reciproco fantasticare, per vie diverse fabbricammo quelle minute caratteristiche umane e psicologiche che, nella loro sintesi, hanno dato ai nostri personaggi un respiro forse poetico, di certo non meschino. Eppure Giulietta ed io non ci assomigliamo che in questo: nel desiderio di proporre un attimo di riflessione affettuosa sulla vita, un invito a non disprezzarla. Ai margini della società civile, «umiliati ed offesi », Zampano e Gelsomina come Cabiria non rinunciano a piangere ed a sorridere. Essi non sono mai disperati pur avendo diritto alla disperazione. E’ forse l’unica cosa importante da ricordare pur nella sua semplicità in questo frastuono di ideologie mentre precipitano vecchi miti e senza tregua si ricomincia a fabbricarne nuovi con insana costanza.
Vorrei dirlo, una volta tanto: i miei film non hanno che questa «idea » così semplice, alla base. Forse per questo dall’estero ci giungono riconoscimenti più leali e non ci si richiede, per l’applauso, di «svelare » il vero obbiettivo ideologico dei nostri film. Da ottimi sofisti si ragiona così, nel nostro paese: se non possiamo evitare la commozione od un certo rispetto di fronte alle storie di Fellini evidentemente queste storie hanno un meccanismo segreto, ad arte celato dietro belle e poetiche immagini. Egli si nasconde nel ventre di un cavallo di Troia per entrare nella cittadella del nostro cuore ed impadronirsene.
Sono stato infatti, per i critici ed anche per gli amici, «neorealista bianco », «comunista protocristiano », «neo cattolico » e via di seguito.
Giulietta Masina nella sua casa romana prova "figure" di una danza di sua invenzione. Fellini assiste. Anche quella del « marito » è una regia.
Eppure non ho altri «messaggi » se non quello appunto di demolire con sempre più convincenti esempi «poetici » le sovrastrutture mentali, le guarnizioni psicologiche, i freni inibitori che le classi alte hanno messo tra il loro orto e quello dei sottoposti e far si che, dall’esempio degli ultimi, i primi si accorgano quanta ingiusta prosopopea vi sia nelle loro inquietudini e quanta bassa letteratura si nasconda dietro gli ozi intellettuali e il «cafard » esistenzialista.
Anch’io, di regola, sarei un intellettuale ma cerco di ricordarmi che «un intellettuale non è soltanto colui al quale i libri sono necessari ma tutti gli uomini per i quali un’idea, per quanto elementare sia, impegna la vita ». Come dicevo, Giulietta ed io non ci assomigliamo che in questo modo di capire la vita ed in questo desiderio ininterrotto di riferirne gli aspetti più tipici.
Per quel che siamo, invece, in privato quasi quasi ci sembra di essere come i personaggi di un nostro film, che, per la verità non sempre sono del tutto «normali ». Di certo io preferisco andare sempre alla ventura, salendo e scendendo da un treno, ed ascoltare la gente, travestirmi e fare il perditempo nelle osterie di periferia e caricarmi la testa di suoni e rumori e gli occhi di volti e immagini mentre Giulietta, con la precisione di une tedesca, riorganizza tutto ciò che io disorganizzo e «poeticamente » vado disperdendo in mille rivoli di spagnolismo. Ma quando finalmente, dopo i rimandi, le ansie, i dubbi e i contrattempi di interi mesi, giunge in porto la realizzazione di un film, vuoto il sacco di tutti i grilli e siamo lì, insieme, sul «set », emozionati come la prima volta che lei recitò ed io la guardavo dall’occhio della macchina; come la prima volta che «emigrante in patria » da Rimini scesi a Roma e conoscendo per caso Giulietta, che era già in piccolo una diva alla radio, io, che avevo soltanto la buona volontà di farmi strada, le dissi a bruciapelo: «non sarò il suo principe azzurro, signorina, ma si fidi di me se vuole recitare sul serio: la farò andare ad Hollywood ».
Quanti anni sono passati. Ora, ad Hollywood, Giulietta ci è andata sul serio ed io non posso chiamarla «Pallina » che tra le quattro mura di casa invece che sui giornali come facevo in quelle rubriche settimanali che raccontavano, in chiave patetica, le avventure di due fidanzatini ingenui che si stringevano le mani per difendersi dagli sconosciuti della città, disattenti e crudeli per gli anonimi innamorati.
Era giusto che questo secondo «Oscar » lo ricevesse lei, direttamente nelle sue mani e fosse lei, di fronte alla più famosa platea di tutto il mondo, a ricevere tutti gli applausi che io ho ricevuto anche per merito suo.
Federico Fellini, «Le Ore», anno VI, n.258, 5 aprile 1958 - Fotografie di Chiara Samugheo
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Federico Fellini, «Le Ore», anno VI, n.258, 5 aprile 1958 - Fotografie di Chiara Samugheo |