Lea Padovani, la gatta sul tetto che scotta

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Per la prima volta rappresentata in Italia la moderna tragedia di Tennessee Williams. Sconfitta di un resistente.

Chi sa garantisce che, la sera del diciotto gennaio, erano convenuti al teatro Manzoni di Milano, tutti i maggiori cordonblu nazionali del terzo sesso per giudicare il messaggio de «La gatta sul tetto che scotta». Considerato l’atteggiamento evasivo, amletico e possibilista, che l’autore, per tutto il resto, al solito, brutalmente esplicito, fa assumere al protagonista diciamo pure — crepi l’avarizia! — maschile del copione, gli intransigenti di stretta osservanza devono essere rimasti se non delusi certo perplessi. Affila fine, dopo tre ore di strenui rifiuti, il protagonista si arrende e si lascia trascinare dal sofà a letto dalla sua fin allora trascuratissima consorte.

«La vita è un bene prezioso che dobbiamo difendere», dice Maggy la gatta

1958 02 01 aVI n247 Le Ore Lea Padovani f6Lea Padovani nella parte di Maggy ha affrontato il personaggio più difficile del dramma. La sua versione della complessa psicologia della «gatta» ha rifiutato ogni aspetto esteriore per una rigorosa aderenza alle ragioni più profonde del personaggio e per rivelarne la coerenza ed il logico sviluppo.

D’opera in opera, mano a mano che procede negli anni, l’ossessione e la speculazione del sesso sono diventate per Tennessee Williams, una vera e propria monomania. E, di pari passo, lo è diventato il suo misognismo. Oltrepassando la tragica e ragionata concezione strindberghiana della donna come unica irreducibile e diabolica corruttrice dell’eterno razionale mascolino, esso ci viene ormai restituito unicamente come immotivata e gratuita avversione fisica. Ne possono essere esempio rivelatore i personaggi femminili, nessuno escluso, di questo copione che diventa plausibile e persuasivo soltanto quando esclude la protagonista, il libello contro la quale fu intitolato e scritto. A giudicare dalla insistenza di certi motivi del teatro e della narrativa d’oltre oceano, viene naturale concludere che la patria ideale di Sigmund Freud sono gli Stati Uniti d’America.

Si può dire che la commedia sia finita al momento in cui comincia. Tutto quanto poteva essere drammatico ed interessante è già avvenuto. Le incertezze e i tormenti di una più o meno inconsapevole amicizia ambigua fra due uomini, l’inafferrabile angoscia e l’arcano sgomento celato sotto la tersa superficie di un limpido sodalizio, il mistero buio di un sentimento luminoso; quella che poteva diventare, in altre parole, la poesia inquietante di ima commedia insolita, da approfondire con sottigliezza di spirito e da sfiorare con levità di mano, sono già stati calpestati e smascherati dalla leggerezza d’elefante e dalla perfidia di serpente di Margaret, la moglie di uno di loro: Brick. L’altro non ha retto all’accusa di anormalità e, a forza di droghe e di whisky, ha risolto il problema andandosene all'altro mondo.

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Di rimbalzo, crisi di coscienza del sopravissuto più che mai incerto sulla «sua» verità, ferito dalla cattiveria altrui, disgustato dalla generale ipocrisia, incattivito contro la moglie che con la sua gelosia, con la sua ninfomane frenesia non gli desta che disgusto, ri-sentimento e odio. E contro la propria angoscia non ha trovato altro rimedio che il risoluto rifiuto dei suoi cosiddetti doveri coniugali e il soccorso> dell’alcool.

Ma lei, la gatta, non disarma, perso ormai ogni freno, esasperati i sensi. Miagola e graffia, supplica e impreca, lambisce e minaccia, senza riuscire a persuadere l’umiliato ed offeso a trasferirsi dal sofà, dove passa le sue notti, ai letto matrimoniale, dove essa celebra le sue furie viscerali inappagate.

Né basta, c’è l’interesse: l’eredità del suocero, ima sorta di re del cotone, condannato, e non lo sa, da un cancro; e, sul quale, fanno pressione un cognato e una cognata con l’argomento di cinque nipotini; e loro, i malmaritati, nessuno. Alla fine, inventando una falsa gravidanza, essa l’avrà vinta sugli avversari e riuscirà, sfinito moralmente e materialmente, a trascinare il renitente all’amplesso, nella speranza che la menzogna diventi realtà. Ma c’è poco da contarci.

Di degno la commedia non ha che il secondo atto coperto da una unica, umana e potente scena fra padre e figlio. La ragione di tutto, dice il primo, è la tua viltà di non aver saputo superare la ipocrisia e guardare in faccia, fino in forìdo, la verità, te e il tuo amico. Solo così vi sareste salvati. La stessa viltà e ipocrisia, ribatte il secondo, per cui nessuno ha detto a te che hai i giorni contati.


«L'ipocrisia guasta il mondo» grida Brick

Qui, se non l’autore deformai remoto «Zoo di vetro», si ritrova almeno il timbro del vigoroso autore di teatro. Il resto è melodramma, compromesso truccato da ardimento mercè una tecnica e una disinvoltura che, sia pure su altro piano, nulla hanno da invidiare a Sardou e a Bemstein.

Forse un po’ esteriore, ma lo spettacolo che Raymond Rouleau ha ambientato nella stupenda scenografia di Piero Tosi, è di alto stile e concilia una calda teatralità con un vigilato buon gusto. E la mirabile verità di Gino Cervi, la sofferta pena di Gabriele Ferzetti, l’impegno, benché scarsamente graffante, di Lea Padovani, la diligenza di tutti, riscattano la sostanziale volgarità della commedia.

Carlo Terron, «Le Ore», anno VI, n.247, 1 febbraio 1958 - Fotografie di Carlo Cisventi


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Carlo Terron, «Le Ore», anno VI, n.247, 1 febbraio 1958 - Fotografie di Carlo Cisventi