I cani di Totò

1960 Franca Faldini 046 Toto 2


ROMA, gennaio

A Forte Boccea, una località prossima a Roma, già da qualche anno una vecchia infermiera aveva organizzato un rudimentale canile, dove aveva raccolto una settantina di cani, tutti randagi, allo scopo di salvarli dalla camera a gas del canile municipale e per soddisfare la propria passione per questi fedeli amici dell'uomo. Ma le spese che il sostentamento anche magro di tutti questi cani comportava erano troppo forti per la generosa Elide Brigada, la soccorrevole infermiera. La sua nobile iniziativa cominciava già a fare acqua e quei poveri animali da un giorno all’altro rischiavano di tornare di nuovo preda e vittime della strada. La notizia arrivò agli orecchi di Totò. L’attore pensò subito di fare qualche cosa per l'infermiera ed i suoi cani. Sborsò più di due milioni e fece rimettere a nuovo ed ampliare il canile.

Siamo andati a vedere nei giorni scorsi il canile: una vera selva di code, di orecchie, di musi, un concerto di sibili e guaiti ci ha accolto. I cani non sono più settanta ma sono diventati addirittura 170 e crescono sempre di numero. Gli ultimi arrivi, i più clamorosi, sono stati quelli di Dox e di Dox jr «sfrattati» dalla caserma della Mobile dì Roma. I randagi che l'infermiera trova per la strada vengono amorevolmente soccorsi e condotti in questa dimora sicura e confortevole. Qui ogni giorno arriva anche un veterinario che visita i cani e e si prende cura specie dei più r vecchi.

Quasi tutti i giorni arriva anche il benefattore, Totò, che ormai ha imparato a conoscerli tutti per nome, i suoi cani. Gli si fanno incontro, gli passano il muso contro il cappotto o l'impermeabile, dimostrano di conoscerlo e di amarlo anche loro. Ma ora Totò non è più solo: ha fondato addirittura una «Società del cani di Totò», che comprende una quarantina dei soci che concorrono alle spese per il mantenimento dell'iniziativa.

Ma il caso della vecchia infermiera non è il solo nella campagna romana. Per esempio, nel luglio dello scorso anno un giornalista riuscì a scoprire un bel giorno sedici cani legati a sedici alberi in un altopiano soprastante la provinciale ardeatina. Guaivano sotto il sole cocente, in cerca di qualcosa da mangiare e soprattutto da bere. I loro guaiti avevano richiamato l’attenzione del passante.

Erano stati legati lì da una caritatevole donna che non aveva saputo trovare altro di meglio per soccorrerli e proteggerli. Lì portava loro da mangiare e da bere giusto quanto bastava per non farli morire. Era tutto il suo canile, tutto quanto con le sue scarse possibilità poteva fare per quei cani.

Il giornalista lo scrisse , sul giornale e della cosa vennero ad essere edotti cinofili e persone generose. Oggi in quel posto è sorto un rifugio più decente, più accogliente ed i cani sono raddoppiati.
Ma chissà mai quanti altri randagi circolano per le nostre città e soprattutto per le nostre campagne, senza alcuna protezione, esposti alla crudeltà degli uomini e all'insensibilità della legge. C’è persino stato chi ha proposto di condurre un’inchiesta del tipo «Doxa» per città, per regioni, sull’intero territorio nazionale.

Ma questa non è che una delle tante conseguenze della totale mancanza di sensibilità del grosso dell'opinione pubblica e della stessa legge nei confronti di un problema del genere, che viene considerato di secondaria importanza, di trascurabile valore. Sono salvi naturalmente i cinofili, i proprietari privati di cani; ma questi credono di aver saldato, per così dire, il proprio debito di riconoscenza e di amore verso il cane possedendone uno o anche due o anche tre e riservando ad essi soltanto tutta la loro attenzione. Naturalmente non è poco ma non è tutto. Quello che rattrista è proprio il sapere che — accanto a pochi cani belli, curati, ammirati e premiati — c’è tutta una sterminata famiglia di senzatetto, anonima, grigia, convulsa, disperata. E’ proprio questa famiglia quella che ha bisogno dell’attenzione e delle cure dell'uomo.

Ed invece ancora — perlomeno In Italia — non è così. Ma, si dirà, esiste l’Ente Protezione Animali. Ebbene, non solo questo Ente dispone di pochi mezzi per esercitare una efficace azione di sorveglianza e di repressione, ma trova anche difficoltà nella stessa legge che ragiona freddamente e non può quindi fare posto a troppe considerazioni sentimentali. Una grave remora è del resto rappresentata dalla tassa sui cani, che costringe tante persone, pur desiderose di averne, a rinunciarci o a disfarsene dopo qualche non troppo felice esperienza.

Dunque, per concludere, i cani - salvo eccezioni — non hanno una vita troppo facile da noi. Purtroppo, questo spesso ci mette in cattiva luce anche agli occhi degli stranieri, specialmente i nordici, che sono notoriamente appassionati amanti degli animali e che non riescono a capire come un popolo così ricco di esperienze spirituali e così dotato da madre natura dimostri tanta insensibilità verso gli animali. Non si capisce, da parte di costoro, il fenomeno dell’ uccellagione che è severamente condannato nei loro paesi e che è invece da noi legalmente ammesso. Qualche anno fa venne fuori addirittura una campagna di stampa, che minacciava di ridurre il turismo nordico nel nostro Paese come ritorsione per la diffusa e inumana uccellagione.

E’ necessario perciò dedicare un po' più di attenzione a questo problema, con le dovute priorità ed entro i dovuti limiti. Perchè anch'esso fa parte di una mentalità, di un costume di vita, di una forma di civiltà. Serve ahch'esso a disegnare, specie agli occhi degli altri, la fisionomia dì un popolo.

Ermes Giusti, «La Gazzetta di Mantova», 20 gennaio 1961


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Ermes Giusti, «La Gazzetta di Mantova», 20 gennaio 1961