La drammatica morte di Eugenio Castellotti, fidanzato di Delia Scala
Finchè Delia Scala non gli ha dtto addio. L'ultima notte di Castellotti fu la più bella
Firenze, marzo
«Eugenio Castellotti è caduto silenziosamente, quasi in punta di piedi... È caduto vittima 'della velocità, ultima dea come la definì D’Annunzio. Ultima e più ribelle delle altre, perché ogni giorno sposta più in là il limite del traguardo e l'uomo la rincorre con la speranza d’afferrarla, e mai vi riuscirà. Perché questo è il suo destino: cadere vicino alla meta, senza mai raggiungerla. Ancora una chiazza di sangue, e la corsa continua, nelle piste d'asfalto, nei gabinetti sperimentali, nel misterioso lavorìo della mente. Una corsa affannosa verso una meta misteriosa. Tanto misteriosa che non sappiamo ancora quale. Lo saprai, ormai, Castellotti?». Così ha concluso l’articolo di fondo un giornale di Buenos Aires.
Milano. Una delle più recenti fotografie di Eugenio Castellotti accanto a Delia Scala. Il popolare campione del volante è perito giovedì 14 marzo nel tentativo di stabilire un nuovo record sulla pista di Modena. La sua fidanzata non ha voluto interrompere le recite della rivista di cui è protagonista accanto a Walter Chiari, a Firenze e poi a Genova.
Delia Scala non legge i giornali. Non gliene fanno vedere nemmeno uno, e non le hanno fatto vedere nessuno dei cinquecento telegrammi arrivati. Tutto il mondo del teatro e del cinema telegrafò le sue condoglianze a Firenze, mentre tutto il mondo dello sport e dell'industria automobilistica telegrafava a Modena o a Lodi.
Delia Scala è rimasta a letto per molti giorni, alzandosi soltanto la sera per andare al teatro Verdi a recitare, cantare, ballare in Buonanotte. Bettina, e tornare subito dopo lo spettacolo in albergo, a rimettersi a letto; senza dormire, senza mangiare un boccone per più di quarantott’ore, senza piangere quasi. Sola, con tutte le fotografie di Castellotti sparpagliate sul lenzuolo e sul cuscino.
Lodi. Eugenio Castellotti con la mamma Angela nella loro casa di Lodi. Castellotti, figlio unico e orfano di padre, era uno dei ricchi proprietari terrieri del Lodigiano. A destra, la mamma di Eugenio Castellotti piange sulla bara del figlio.
Finora Delia Scala non ha letto nemmeno una riga di tutte le belle parole che i giornali hanno pubblicato commemorando il suo Eugenio. Non ha letto, perciò, nemmeno le frasi che abbiamo citato sopra, dall’articolo di Risorgimento, quotidiano in lingua italiana che si pubblica in Argentina. È forse un bene che non le abbia lette. Quei riferimenti d’obbligo a D'Annunzio, quegli accenni eroici al costo del progresso tecnico civile, non l’avrebbero aiutata a sopportare meglio il suo dolore. Eugenio Castellotti, quando è uscito di pista a Modena nel pomeriggio del 14 marzo, è morto in due modi diversi; è morto ufficialmente, clamorosamente, con la commemorazione in Parlamento e i funerali a spese del Comune di Lodi, con tutto l’inevitabile epicedio giornalistico, con le lacrime del popolo di ogni ceto sociale, motivate per alcuni semplicemente dal fatto che era italiano. per alcuni dal fatto che era un campione, per altri dal fatto che aveva ventisei anni e mezzo. Ma per Delia Scala la morte di Castellotti è stata una cosa completamente diversa; una cosa di cui, in fondo, non siamo abituati a scrivere sui giornali.
Modena. A sin. Eugenio Castellotti dopo l'incidente mortale del 14 marzo. A destra il punto dove si schiantò la macchina pilotata da Eugenio Castellotti. Pochi minuti prima dell'incidente, sulla stessa tribunetta si trovavano due fidanzati che stavano osservando le prove.
Per Delia Scala, Castellotti non era un campione, non era un idolo, non era un eroe. Era l’uomo che lei amava. Tutto qui. Una volta tanto, è proprio vero: i «fidanzati» Eugenio Castellotti e Delia Scala erano felici insieme. Era una cosa semplice e pulita, un amore senza storie e senza drammi. Per questo, non c’è stato posto per Delia nelle manifestazioni di addio a Castellotti che hanno fatto piangere tutt’Italia.
I fotografi l’aspettavano a Modena e a Lodi; ogni volta che compariva tra la folla intorno al feretro una ragazza bella e ben vestita, scattavano i lampi. Ma non era mai Delia Scala, anche se ci sono almeno cento persone (non giornalisti) disposte a giurare di averla vista arrivare di notte, sia a Modena che a Lodi, chinarsi sulla bara, deporre un bacio e fuggire. Delia Scala era a Firenze, nella sua stanza al «Savoia», e mentre le spoglie mortali di Eugenio Castellotti viaggiavano col mesto corteo da Modena a Lodi, al botteghino del teatro Verdi a Firenze l’impiegata copriva di crocette a matita blu le piantine della platea, perché la gente veniva a prenotare i posti per la sera e per i giorni seguenti. «Ma Delia Scala ci sarà?» chiedevano. Le poltrone per i due spettacoli di San Giuseppe, ultimo giorno di recite a Firenze, si esaurirono tra venerdì e sabato.
Delia Scala non ha mai avuto applausi di sortita come in questi giorni a Firenze. Quando entrava in scena in braccio a Walter Chiari, il pubblico cominciava a battere le mani e sembrava non volerla smettere più. Per Delia Scala quell’applauso era il momento più terribile della giornata; Walter Chiari, appena era arrivata la notizia, le aveva offerto subito di sospendere le recite per qualche sera; ma lei non aveva voluto. In qualche modo faremo, Delia, non ti preoccupare», aveva detto Chiari. Invece lei recitò, la sera stessa e tutte le sere seguenti. Il pubblico in platea la guardava con gli occhi umidi; e quando lei usciva di scena, dopo gli «sketches» più divertenti della rivista, si sentiva gente che si soffiava il naso come al cinema dopo le scene patetiche. Mai. probabilmente, il pubblico si era tanto commosso a uno spettacolo di rivista; era una commozione di strano genere, perché poi Walter Chiari riusciva ugualmente a far ridere tutti, nella parte del giovane marito che scopre le insospettate attività letterarie della moglie. Per tutti gli attori, erano recite più faticose delie altre; in scena, dovevano prodigarsi per far ridere e. tornati dietro le quinte, dovevano far di tutto per non dare a Delia Scala l'impressione di essere emozionati; dovevano cercare, nel camerino della «soubrette», di parlarle del più e del meno, come se quelle fossero state repliche non diverse da tante altre.
Firenze. Delia Scala (con gli occhiali neri) esce dall’albergo con la madre, per recarsi al «Verdi», dove recitava.
Firenze. Delia Scala in passerella durante una rappresentazione della commedia musicale Buonanotte Bettina. Il pubblico ha applaudito commosso Delia Scala che non ha interrotto le recite nonostante il dolore causato dalla tragica fine del corridore Eugenio Castellotti. Delia Scala ha avuto un breve collasso alla fine del primo tempo.
Per lei, la cosa tremenda era l’applauso di sortita: nel momento in cui si lasciava prendere in braccio da Walter Chiari ed entrava così in scena, le luci della ribalta la distraevano, le cancellavano dalla memoria il suo dramma, la facevano diventare soltanto la «soubrette» attenta al pubblico, al «partner», alla parte coscienziosamente imparata e ripetuta per tante sere. Ma quell'illusione di poter dimenticare il suo dolore durava solo un attimo: immediatamente, il lunghissimo, interminabile, involontariamente crudele battimani del pubblico le ricordava il motivo per cui quella gente applaudiva più del solito. Allora, lei faceva quello che non avrebbe voluto fare, chinava la testa sulla spalla di Walter Chiari e sentiva le lacrime scioglierle il rimmel. Walter Chiari, con le braccia impegnate a sorreggere lei, cercava con uno sguardo di far finire l'applauso troppo lungo; poi. attaccava quasi con violenza la sua parte, per dissolvere l’atmosfera patetica.
Le prime sere, Walter Chiari tagliò qualche battuta, improvvisando i tagli in palcoscenico, prendendo su di sé tutto l’effetto comico e "addirittura inventando battute nuove per far riposare Delia Scala nei momenti in cui gli sembrava stanca. Delle coreografie fu tagliato soltanto il quadro dei camionisti: è. nel copione, un «incubo» del marito che immagina la moglie dedita a una vita di facili costumi. Per la «soubrette», è una danza acrobatica e molto faticosa; il quadro fu tagliato perché Delia Scala era troppo debole, non mangiava e non dormiva dal momento della notizia, sarebbe svenuta in palcoscenico se avesse tentato di volteggiare sulle sbarre tenute dai «boys»: come effettivamente svenne, domenica pomeriggio. in uno degli ultimi quadri del secondo tempo.
Delia Scala in una scena di Buonanotte Bettina, la rivista di Garinei e Giovannini in cui la giovane «soubrette» interpreta il personaggio di una sposina che si scopre improvvisamente scrittrice, con disperazione del marito.
La notizia era partita sui canali delle telescriventi giovedì pomeriggio. Il primo «flash» dell’ANSA intitolato «incidente a Castellotti» fu nel giro di pochissimi secondi annullato da un secondo «flash» intitolato «morte di Castellotti». In quei pochi secondi ogni speranza era caduta; la notizia completa potè così fare il giro del mondo, prima ancora che Giorgio, il fratello minore di Delia, riuscisse da Modena ad avere la comunicazione con Firenze. Da quel momento, le notizie furono due: una per tutto il mondo e una per Delia Scala.
Il Castellotti che l’Italia ha pianto non era il Castellotti che Delia Scala amava. Sappiamo (e se non ci fosse stata la tragedia, sarebbe rimasto ancora per parecchio tempo un segreto) che tutti e due. Delia Scala e Eugenio Castellotti, avevano deciso di smettere, rispettivamente, lei di fare la «soubrette», lui di fare il corridore. Un anno e mezzo era il termine che avevano stabilito.
Prima di firmare il contratto per una commedia musicale di Garinei e Giovannini, che si farà nella prossima stagione teatrale. Delia Scala volle assolutamente sentire il parere di Castellotti. Il contratto già pronto rimase ad aspettare che Castellotti tornasse da Cuba. Delia firmò soltanto dopo che Eugenio fu arrivato in Italia. Castellotti pensava di tentare nel prossimo anno il titolo mondiale. Poi, si sarebbero ritirati tutti e due, e certo si sarebbero sposati. Non avevano bisogno né di correre, né di recitare, né di lavorare, perché Castellotti era ricco. Figlio unico, le terre che gli lasciò suo padre a Lodi si valutano i più di mezzo miliardo.
Castellotti. negli ultimi tempi, era un po’ cambiato e forse sarebbe cambiato ancora di più in futuro. Forse la stagione scatenata della sua vita stava per finire. Aveva compiuto ventisei anni il 30 ottobre. Non era più un bambino, non era più il ragazzo di Lodi che andava a teatro per mandare i mazzi di fiori alle ballerine. Da tre settimane. Castellotti non abitava più a Lodi; seguiva la compaimia della quale Delia era «soubrette», di piazza in piazza, e si allontanava solo per gli allenamenti.
Era un giovanotto di gusti molto semplici, che non si era mai preoccupato di finire gli studi. Vicino a lui, Delia Scala era un’intellettuale. Con lei, Castellotti era calmo e contento. Pensavano al futuro. Lui cominciava a capire che non vale la pena di fare il rompicollo per tutta la vita. Il suo sogno di ragazzo ricco, che sera potuto cavare la soddisfazione di scassare diciassette automobili per imparare a guidare come voleva e stupire gli amici portandoli in dodici minuti da Lodi a Milano, s'era ormai realizzato. Campione italiano, con cinquantun trofei internazionali e una medaglia d’oro del Comune di Lodi, Castellotti voleva fare ancora un piccolo sforzo: tentare il titolo mondiale. Tanto per chiudere in bellezza. Ma, poi, si sarebbe fermato, si sarebbe accontentato del suo passato di campione. L’amore per Delia Scala gli era servito a capire che al mondo non ci sono soltanto le automobili.
Castellotti si staya già staccando, quasi senza accorgersene. da quello che era stato il suo personaggio negli anni scorsi. Era stato, per anni, un «bullo». Tutto era leggendario, intorno a lui: le sue imprese di un'audacia pazzesca, come la Mille Miglia che vinse senza casco e senza occhiali sotto una pioggia che gli tagliava le palpebre; i suoi cinquanta vestiti, in maggioranza completi principe di Galles, e le sue cento paia di scarpe; il suo modo di entrare dinoccolandosi nei bar di Lodi, ordinare un caffè e lasciare cinquecento lire di mancia; la sua annoiata compiacenza nel permettere alle ragazze di Lodi, quand’era tutto ingessato per una caduta, di fargli il loro autografo sul gesso; i racconti ai concittadini dei suoi viaggi all’estero ( «Bene, arriviamo a Miami, e ci portano in un posto: una specie di foresta. Bene, ci sono otto televisori: in ogni televisore, una ragazza, col nome sotto. Roba da matti»).
Lontano già da tutto questo, Castellotti era ormai un corridore professionista e un campione. L’amore per Delia Scala l’avrebbe portato, fra pochissimo tempo, a scegliere: restare un corridore per tutta la vita oppure diventare una persona normale.
«Chi aveva mai visto Delia innamorata?» si chiedevano gli amici di lei. Come succede quando due si vogliono molto bene, si creava intorno a loro una corrente di simpatia. I colleghi di Delia trattavano ormai Castellotti come un amico, erano portati a proteggere i due ragazzi. «Ma guarda: questi due non litigano», era l’osservazione che spontaneamente nasceva dal confronto frequente con l’altra più tempe stosa coppia di innamorati, quella formata da Walter Chiari e Ava Gardner.
Tutti sapevano che Delia Scala aveva avuto delle crisi di pianto soltanto in alcune occasioni, quando aveva pregato Eugenio Castellotti di rinunciare a una gara per non farla soffrire. Queste cose, nel mondo deH’automobilismo, non sono gradite. Le donne dei campioni devono soffrire in silenzio, non devono interferire. I corridori, o sono bravi padri di famiglia, metodici e seri, che rischiano la pelle a trecento all'ora perché questo è il loro lavoro; o sono scapoli per principio, che a farsi guardare mentre sfidano la morte si portano ai boxes donne meravigliose, anonime e leggendarie. Queste non parlano, lo sport non è geloso di loro. Quanto alle mogli, la loro sofferenza è, come quella delle madri, ammessa: si concede che tremino al pensiero del giorno in cui potrebbe capitare loro di doversi vestire di nero, ma con rassegnazione, come vedove di guerra. Perciò, quando Castellotti s’è sfracellato sulla tribunetta della pista di Modena, come un soldato uscito al momento sbagliato dalla trincea, Delia Scala non è comparsa. E stato meglio così.
Uno dei quadri della rivista che è stato tagliato nelle prime recite dopo la tragica fine di Castellotti. Delia Scala eseguiva una danza acrobatica che nelle sue condizioni fìsiche le sarebbe stata troppo gravosa. Delia Scala aveva ottenuto nell'autunno scorso l'annullamento del suo precedente matrimonio e si pensava che fra un anno e mezzo avrebbe sposato Eugenio Castellotti.
Certo, Castellotti non aveva ancora potuto presentare la sua Delia alla madre, che adorava. Voleva far le cose per bene, voleva fare una cosa alla volta. Ma non è stato per questa ragione (sarebbe stata una brutta ragione) che i fotografi hanno atteso invano la «soubrette» al funerale. Non è vero, come dicevano gli sportivi troppo gelosi, che ci fossero divieti; non possono esserci divieti simili quando è morto in modo così terribile un bravo ragazzo di ventisei anni, al quale, in fondo, volevano tutti bene. La vera ragione è stata che Castellotti è proprio morto in due modi, uno per tutti e uno soltanto per Delia.
Lo sport che aveva visto in lui un grande campione, e non voleva perderlo nemmeno in morte, gli ha detto addio con quello che è il suo linguaggio: con le bandiere e con le camere ardenti, col pellegrinaggio di folla commossa e curiosa, con gli articoli dei giornali. Lo sport voleva il suo idolo e l’ha avuto, fino al momento in cui l’ha sepolto nella tomba di famiglia.
Per Delia Scala, invece, che aveva visto in lui soltanto un uomo, cioè qualcosa di più di un' campione, la morte di Castellotti è stata una tragedia privata. Per questo la povera ragazza ha recitato la sera stessa e le sere seguenti, e ha fatto due spettacoli la domenica e il giorno di San Giuseppe: per potere, cioè, dire nel modo più coraggioso e più discreto, a tutti: «Voi non c’entrate. Io per voi sono Delia Scala, e per voi faccio la soubrette, ballo e canto, vi faccio ridere. Il mio dolore è mio».
Lo spettacolo finiva con lo stesso sketch dei telefoni, con la stessa musica ogni sera, come quando lui era ad aspettarla. Ma adesso, ad aspettarla, c’erano solo le sue fotografie in quella stanza d’albergo dove non le riusciva più di dormire. L’ultima notte, la notte del 13, c’era la luna quasi piena. Erano anaati a cena, fuori, come ogni sera da tre settimane; stavano ormai insieme solo di notte, perché di sera lavorava lei, di giorno si allenava lui; per Eugenio le ore di sonno erano poche. Forse troppo poche.
Si era davvero rovesciato la notte del 13 l’olio sulla tovaglia? Firenze era meravigliosa, la più bella città del mondo, l’ultimo disco dei «Platters» cantava «Only you». Che possono volere di più, due che si amano, di una notte di primavera, a Firenze, con la luna? La mattina dopo, alle otto, quando Eugenio abbracciò Delia sulla porta dell’albergo per partire, vide che il tassì aveva il numero 13, che di solito porta bene.
Giuseppe Trevisani
L'altro giorno a Ginevra, ad una colazione di giornalisti sportivi in occasione dell'apertura del Salone dell’Automobile, il discorso cadde, o meglio ritornò, sulla tragica fine di Alberto Ascari. E qualcuno avanzò una ipotesi, che fino allora non avevamo sentito, dotata. come diverse altre, di buoni fondamenti di attendibilità. Sembra che quella mattina a Monza, mentre Alberto girava in prova per sgranchirsi i muscoli e lo spirito dopo il pauroso incidente di Montecarlo, un operaio addetto ai lavori, nella imminenza della ripresa del suo turno, abbia attraversato la pista proprio nell’attimo in cui la macchina arrivava. La frenata improvvisa e imprevista avrebbe provocato lo sbandamento e in conseguenza di questo ci sarebbe stata l’uscita di strada che doveva costare la vita al povero «Ciccio». Aggiungeva ancora, chi raccontava questo episodio non confermato, che l'operaio per il dolore ed il rimorso sarebbe addirittura impazzito e si troverebbe oggi rinchiuso in un manicomio, irrimediabilmente ossessionato dal tremendo incubo.
L'EREDE DI ASCARI
NON abbiamo elementi per confermare o meno questa ipotesi, pur essendo stati fra i primissimi ad accorrere sul posto dove era caduto Ascari, pur avendo messo una mano sul suo cuore che stava dando gli ultimi battiti. Sinceramente in quel momento non pensammo ad un operaio che avesse attraversato la strada. In seguito non tornammo più a rivedere quei luoghi. Abbiamo riferito tutto questo per dimostrare come, a tanto tempo di distanza dall’incidente, ancora permanga misteriosa e incerta la ragione vera che lo provocò. Si va a tentoni nel campo delle ipotesi: non si può dire con certezza una parola precisa. È vero che allora Ascari era uscito da un pauroso salto in mare: ma è anche vero che egli non aveva nessuna intenzione di forzare o di dimostrare a se stesso e agli altri di essere in grado di andare fortissimo, più forte di quanto fosse mai andato.
Ora che un altro amico carissimo è morto, i dubbi purtroppo non sussistono. Nella tragica fine di Eugenio Castellotti tutto è di una chiarezza e di una consequenzialità che non lasciano dubbi. Dal quadro generale del momento, nel quale entrano taluni elementi non strettamente automobilistici, esce spiegabile l’attimo fatale. Rifacciamoci all'uomo. Castellotti era il simbolo della salute, della giovialità, della sincerità. Era una macchina umana semplice: di qui una delle ragioni della sua potenza. Non aveva grossi problemi interiori o per lo meno non li aveva avuti per moltissimi anni. Gli si era presentata una sola difficoltà da superare: farsi accordare il permesso di correre. Ma aveva una madre che lo adorava e che, pur di vederlo felice, avrebbe detto di sì a qualunque richiesta. Finché era rimasto in vita Alberto Ascari, ritrovare Castelletti era facile: bastava sapere dov’era il suo maestro. Non lo mollava mai. E anche Ascari gli voleva bene, convinto di avere nel giovane lodigiano non un avversario potenziale ma un amico devoto che mai gli avrebbe attraversato la strada. Morto Alberto, Castellotti ne assunse l’eredità automobilistica. Non fu arrivismo il suo,
o lotta a coltello con qualcun altro: di Ascari ve n'era uno solo; e di uomini in grado di seguirlo e imitarlo non ve n'era che uno: Castellotti. Oggi che essi sono scomparsi, c’è praticamente il vuoto, come classe, come stile, come coraggio. Chi resta potrà armarsi di speranze e di buona volontà: e costruirsi l'avvenire pezzo per pezzo. Più di recente, insieme con le maggiori responsabilità sportive, Castellotti aveva conosciuto l’amore. Non una delle solite facili avventure, alle quali lui, bel ragazzo, noto e ricchissimo, doveva sfuggire per liberarsi; ma l’amore vero, quello che dà la felicità, quello che induce al matrimonio, alla famiglia, alla definitiva sistemazione per la vita.
LA NOTTE PRIMA DORMÌ SOLO TRE ORE
SI trattò qui di conciliare, proprio sul piano pratico del vivere insieme, due organizzazioni individuali sfasate di almeno sei ore. Castellotti era abituato a vivere a Lodi, ad andare a letto la sera presto come gli aveva insegnato Alberto che mai, per nessun motivo al mondo, sarebbe rimasto in piedi fino all’una. E al mattino si alzava per tempo, usciva in macchina. andava a Modena o ai suoi impegni abituali. Gli piaceva guidare il trattore nei campi di sua proprietà, aiutando i contadini.
Ora la compagna della sua vita aveva impegni precisi e molto diversi: finiva tardi la sera, mangiava ancora più tardi, andava a riposare tardissimo. Lei non poteva mutare nulla: fu giocoforza che cambiasse lui. Hanno raccontato le cronache che Castellotti era nervoso negli ultimi tempi, che l’ultima notte a Firenze riposò poco e male. Era andato a letto verso le quattro, era già pronto a partire alle otto e un quarto. Dormì, quindi, non più di tre ore. L’organismo non era in condizioni ideali di forma, di riflessi, di equilibrio nervoso: appunto per supplire alla stanchezza, dovevano intervenire i nervi e quindi la volontà, in automobile non sarebbe stato quello di sempre, che agiva per impulsi abituali diventati ormai istinto. Sarebbe stato un uomo che, con un atto d’imperio, voleva imporre a se stesso, alla macchina, agli altri, qualche cosa di più di quanto fino a quel giorno aveva ottenuto.
VOLLE SORPASSARE IL «LIMITE»
IL record della pista di Modena era stato suo. Lo aveva portato recentemente di due decimi di secondo sotto il minuto: 59”8/10. Pare che martedì, cioè due giorni prima della sciagura, un avversario serio, preciso, metodico, studioso delle macchine e delie piste, fosse riuscito a rosicchiare altri due decimi di secondo: 59” e 6/10. Castellotti non rifletté a lungo sul modo migliore per battere a sua volta il primato; non si domandò se era opportuno rimandare a momenti migliori la riconquista di un tempo che, in definitiva, non aggiungeva nulla né alla sua personalità né ai pregi della macchina che pilotava. Dovette dirsi: entro un po' più forte e lo batto. E con questa decisione annullò, appunto con un atto di volontà e di imperio, quel famoso limite che aveva creato a poco a poco, a forza di prove, di tentativi, di ragionamenti.
I corridori, Ascari in testa, hanno sempre parlato di un limite che occorre trovare e al quale ci si deve strettamente attenere: le prove sono fatte appunto per la ricerca esatta di quel limite. In gara non si tratta che di eseguire per cento o duecento volte, a seconda del numero dei giri, le stesse, identiche, minuziose operazioni. Sbagliarne una può significare la fine. I corridori da pista sono legati al culto della infallibilità. Si tratta di manovre in apparenza semplici, che tutti noi eseguiamo abitualmente a velocità estremamente più basse: però, per noi. a sbagliarne una non succede nulla; per i corridori può essere la catastrofe.
C’è ancora un particolare contingente, legato a Castellotti, a Jean Behra con il quale si svolgeva praticamente il duello a distanza, alla «variante Stanguellini» della pista di Modena. Behra aveva deciso, dopo molti studi e cronometraggi, parziali ma accurati, di affrontare la «esse» nel modo seguente: entrava ad andatura ragionevole, senza aver quindi bisogno di agire con la massima energia sui freni; si trovava a metà della seconda gobba della «esse» con la macchina in buon assetto e perciò poteva uscirne abbastanza veloce e in grado di riprendere bene. Castellotti invece seguiva il metodo opposto: arrivava in fondo al rettilineo fortissimo, entrava nella prima curva a grande velocità, si aiutava con rapidità estrema a ridurre l’andatura grazie ai cambi, usciva di curva un po’ sbandato e di conseguenza meno veloce di Behra. Si trattava di stabilire quale (iei due metodi fosse il migliore: per puntiglio e orgoglio di corridore, ognuno credeva nel proprio. Il «testa e coda», cioè il girare su se stessi della macchina, che Castellotti accusò prima dell’incidente fatale non sta a dimostrare la fondatezza di questo ragionamento? Allora, funzionandogli tutti i cambi regolarmente, si era girato in fondo alla curva per la troppa velocità residua che la macchina ancora aveva, a seguito dell’alta velocità d’ingresso. Pochi minuti dopo, il lodigiano in fondo alla variante non arrivò più: il dramma era avvenuto prima, all’imbocco.
TRE CAMBI PER LA CURVA AD ESSE
SI sono lette versioni discordi ed errate sulle operazioni da eseguire nell’atto di entrare nella famosa curva. Sul rettilineo prospiciente le tribune, Castellotti marciava probabilmente sui 200 all’ora. All’entrata della curva, come disse il più autorevole dei testimoni, cioè lo stesso costruttore Enzo Ferrari, la macchina viaggiava sui 180-190. Le macchine da corsa hanno cinque velocità, cioè una quinta super rapportata che consente di sfruttare al massimo la potenza del motore, quando l’inerzia è già stata vinta e l’accelerazione ha toccato il suo vertice. Castellotti per entrare e uscire dalla «esse» doveva eseguire tre cambi di velocità accompagnati da opportune frenate: il passaggio dalla quinta in quarta in fondo al rettilineo, prima di entrare in curva, come preparazione ad una successiva riduzione di velocità. Il passaggio dalla quarta in terza poco avanti l’imbocco della prima semicurva; e la terza operazione di cambio, dalla terza in seconda, per uscire di curva con la macchina già sbandata e con la massima azione frenante per aiutarla a riprendere la nuova direzione. In aggiunta a ciò vanno inclusi i sei colpi di frizione necessari per i tre cambi, non essendo quelli da corsa cambi sincronizzati ed essendo perciò obbligatoria l’accelerazione dopo lo stacco, per consentire l’innesto della marcia più bassa. Nello stesso tempo, dopo l’accelerazione era necessaria la frenata, per abbinare l’azione del motore a quella del freno. Tutto questo susseguirsi di operazioni doveva avvenire nelio spazio di pochissimi secondi, ad una velocità elevatissima, con gli occhi e l’attenzione rivolti alla guida.
L’UNICO MISTERO DELLA SUA FINE
NON si dimentichi che nel dare il deciso colpo di sterzo della curva, occorreva avere tutte e due le mani sul volante e perciò l’operazione di cambio doveva già essere stata completata. È qui che probabilmente il povero Eugenio ha trovato la morte. Per migliorare il tempo e battere l'avversario e se stesso, Eugenio deve essersi deciso ad eseguire il primo cambio, dalla quinta in quarta, cinque o dieci o quindici metri più avanti del solito. È bastato quell’attimo per provocare un irreparabile scompenso in tutto il prosieguo della delicata e difficilissima manovra in curva. Castellotti deve essere giunto nel punto in cui solitamente metteva la terza senza essere ancora pronto al cambio. O meglio: fu pronto ad eseguire il primo colpo di frizione e a togliere la leva dalla quarta. Nel momento in cui doveva accelerare per far entrare la terza capì che era troppo tardi e, abbandonando l’acceleratore, agì sul freno. Impossibile controllare un bolide di quella potenza con i soli freni, senza l’aiuto del motore. La massa lanciata saltò il gradino della pista, entrò nel prato, cominciò la sua folle corsa. Tutto il resto non ha più importanza. Castellotti per uno o due quinti di secondo, non di più, deve essersi reso conto che era finita. Che cosa passò in quell’attimo davanti ai suoi occhi? Non lo sapremo mai. Questo è l’unico mistero che resterà della sua fine. Il resto, purtroppo. è chiaro.
Nino Nutrizio
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Giuseppe Trevisani e Nino Nutrizio, «L'Europeo», anno XIII, n.12, 24 marzo 1957 |