Diana: «Mio marito mi teneva chiusa a chiave»
Seconda parte
La vedova del grande attore ha scritto di suo pugno per "Gente" la storia della sua vita - Parte 2 - Diana Rogliani, che fu la moglie dell'indimenticabile comico e che da lui ebbe una figlia, ha deciso per la prima volta di ricordare i momenti più belli e più tristi della sua storia d’amore - «Quando era in scena mi baciava in camerino, ma poi chiudeva la serratura perché temeva che qualcuno mi importunasse» - «Quando rimasi incinta, in un primo momento, lui sospettò di non essere il padre»
Roma, gennaio 1990
Totò lavorava in quegli anni praticamente senza interruzione, ma il rapporto che aveva con il teatro era così armonioso, così gioioso, da non impedirci di vivere una lunga e piacevolissima "luna di miele”. Restammo dapprima un po' di giorni a Roma, poi la tournée della compagnia ci portò in varie città. In quella prima settimana Totò volle acquistare per me in un famoso negozio di biancheria intima una serie di raffinatissime parure da notte, tutte di seta. Vivere con lui in quel primo periodo fu come un sogno. Al mattino ci svegliavamo tardi, poi ci arrivava in camera la colazione: un vassoio con pane, burro, marmellata e latte per me, un solo caffè nero per lui. Poi uscivamo per lunghissime passeggiate, perché Totò era un instancabile camminatore. In quel primo soggiorno romano volle mostrarmi gli angoli più suggestivi della città. Per il pranzo sceglieva ristorantini graziosi e appartati.
Lui mangiava pochissimo: due o tre forchettate di pasta al pomodoro e una cotoletta alla milanese molto cotta. Voleva però che io facessi dei pasti completi, mi esortava a finire ogni pietanza, sempre sostenendo che dovevo ben nutrirmi per crescere sana.
Nel tardo pomeriggio rientravamo in albergo e ci preparavamo per andare in teatro. Totò aveva l'abitudine di arrivare un’ora prima di ogni spettacolo. Faceva il giro della platea, si sedeva nelle poltrone e da varie angolazioni guardava il palco, poi andava in camerino a prepararsi. Io dovevo seguirlo passo passo senza mai farmi perdere di vista. Il suo trucco era composto da un velo di cerone e un rigo nero che gli ingrandiva gli occhi. Per prendere la pasta colorata da stendere sul viso attingeva da una vecchia scatola di latta rossa. Siccome era molto malandata, un giorno la sostituii con una nuova. Successe un pandemonio. Dovettero frugare nella spazzatura per ritrovarla e riportargliela. «Diana, tu devi sapere che questa scatola è per me preziosissima», mi disse. «La uso da quando ho iniziato a lavorare. Gli strati di cerone che vedi sovrapposti rappresentano altrettanti ricordi artistici».
Prima di entrare in scena Totò leggeva il giornale e beveva un buon caffè. Appariva di solito disteso e non dava alcun segno di nervosismo. Più tardi avrei imparato che si agitava soltanto in occasione dell'esordio con un nuovo spettacolo.
Fin da quei primi giorni mi resi conto che quel mio adorabile compagno non aveva che un difetto: era geloso in un modo ossessivo. Un giorno mi disse: «Diana, non ti devi offendere, ma io per lavorare in tranquillità devo saperti al sicuro. Vorrei chiuderti in camerino mentre recito. Ecco, mi sono fatto dare una doppia chiave, una la terrai tu per aprire in caso di necessità, un'altra la porto con me in palcoscenico».
«DISSE: "HA IL MIO NASO"» Roma. Diana Rogliani ha 74 anni, e la figlia Liliana De Curtis, 57; è nata dal suo matrimonio con Antonio De Curtis, il celebre Totò, l'attore scomparso nel 1967. «Quando rimasi incinta di Liliana», racconta Diana Rogliani nel suo memoriale «corsi da Totò per annunciargli la bella notizia ma, con mio grandissimo stupore, invece di rallegrarsi lui si rabbuiò. Mi disse che lui non poteva avere figli e che il bambino che attendevo non poteva essere suo. Mi portò da un vecchio ginecologo e assistette alla visita, poi il medico gli spiegò che la sua sterilità era frutto della sua immaginazione. Quando Liliana nacque, Totò fu immensamente felice nel constatare che la bambina aveva il naso storto come il suo. Soltanto allora capii che i dubbi lo avevano perseguitato per tutta la mia gravidanza».
CINQUANTA ABITI
Mi resi conto dopo qualche giorno che uscendo metteva un pezzettino di carta tra lo stipite e la porta per controllare se io fossi uscita. Mi pareva un comportamento esagerato, ma non mi ribellai. Quando partimmo in treno mi accorsi che Totò aveva prenotato tre posti anziché due. «Viaggia qualcuno con noi?», gli chiesi. «No, cara, è per farti stare comoda», mi disse. Non tardai molto a capire che usava quello stratagemma per evitare che qualcuno si sedesse di fronte a me. Me lo confermò dicendomi che gli dava fastidio l’idea che qualche villano potesse mettersi di fronte per sbirciarmi le gambe. Totò scriveva i testi del suo repertorio soprattutto di notte. A volte mi svegliava, impaziente di farmeli leggere. «Il tuo giudizio è importante», mi diceva «tu per me rappresenti il pubblico». Con il suo pubblico aveva un rapporto privilegiato: «Quando entro in scena», mi diceva «è come se io fossi munito di un filo, è il pubblico a inserire la spina elettrica, sono loro a darmi la carica. Lì, davanti a tante persone, tutto mi riesce facile, far ridere mi viene naturale». Quando eravamo in strada tra la gente, lui si interessava di tutti, spiava con curiosità i gesti e i dialoghi delle persone. Una volta, per preparare uno sketch sugli impiegati delle Poste, mi fece girare decine e decine di uffici postali: «Vedi», mi sussurrava divertito «quel tale con quale importanza fa cadere il timbro sul francobollo: "ponf”, ”ponf”, ”ponf”, si sente un Padreterno». Quando poi riportò in scena la caricatura di quell’impiegato il teatro sembrava dover crollare per gli applausi. Man mano che passavano i mesi dimostrava per me un amore crescente. Esaudiva ogni mio desiderio prima ancora che io lo esprimessi. Però ero sua in esclusiva, non potevo avere amiche né uscire da sola, vivevo con lui in ogni istante del giorno e della notte.
Già in quel periodo Totò aveva acquistato una grande fama. Lo pagavano mille lire al giorno, una cifra davvero ragguardevole per quegli anni. Ma Totò non amava il denaro. Diceva: «E’ per questi pezzi di carta che la gente si ammazza, in tutto il mondo, a me non piace avere i soldi, mi piace liberarmene». E, coerente con quel che diceva, spendeva a piene mani tutto quello che guadagnava. Sceglieva sempre il meglio: alberghi e ristoranti di prima categoria, e quanto di migliore si potesse avere per il suo e il mio guardaroba. Viaggiava allora con circa cinquanta abiti e un’infinità di camicie. Non usciva mai senza gemelli ai polsi e spilla alla cravatta. Imparai a conoscere presto anche la sua generosità. Aveva un’inesauribile capacità di partecipazione ai dolori della gente, aiutava con cospicue somme tutti quelli che si rivolgevano a lui. Io stessa ho spedito dietro suo incarico decine e decine di buste con denaro.
Dopo qualche mese di convivenza, aumentata la nostra intimità, smise di indossare le eleganti giacche da camera che possedeva: «Diana, se non ti dispiace, io starei più comodo così», mi diceva avvolgendosi ai fianchi un grande asciugamano e restando a torso nudo.
Quando sì radeva al mattino voleva me seduta sul bordo della vasca e una tazzulella ’e café appoggiata sul lavandino. Era quello il momento dei progetti: parlavamo del nostro futuro, dei viaggi che avremmo fatto, delle vacanze.
Rividi mia madre a Firenze dopo tre mesi dalla mia "fuga”. Ero felice e mi si leggeva in volto: dovette ammettere anche lei che la mia scelta si era rivelata giusta.
La prima volta che ci fermammo a Napoli, Totò volle portarmi a conoscere i suoi genitori: Anna e Peppino Immaginavo sua madre come una signora sottile ed eterea, magari vestita di nero. Ci venne invece ad aprii c una matrona: bionda, alla, imponente e simpaticissima, «Ne' mammà, avete visto vi ho portato a conoscere Diana». La donna mi squadrò da capo a piedi, poi rivolta al figlio, disse: «E dove l’hai trovata questa, all’asilo infantile?».
Continuando a borbottare ci fece entrare e accomodare in un salottino dove sopraggiunse anche il marito, un omino piccolo che lei sovrastava per stazza.
GIOVANE E BELLA
«Scusami bella», disse la donna finalmente rivolta a me «non credere che io ce l’abbia con te. Vieni qua, ti voglio chiedere una cosa. Ma tu lo conosci bene mio figlio? Guarda, ’o figlio mio è buono, ma proprio buono come un pezzo di pane, è solo nu poco capa all’erta, come dire, un po’ ossessivo, un po' scocciante». Poi continuò: «Figlia mia, tu sei troppo giovane e troppo bella, con mio figlio devi stare attenta, perché è un po' troppo possessivo. Non gli dire sempre sì, non ti far mettere i piedi in testa».
Quella sera Totò mi parlò della sua nascita e della sua infanzia: la madre aveva 16 anni quando rimase incinta in seguito a una relazione con il giovane rampollo dei marchesi De Curtis, famiglia nobile ma squattrinata. Il bambino era stato allevato dalla famiglia della ragazza e nei primi anni della sua vita aveva visto il padre sporadicamente.
Totò mi confessò di aver sofferto molto per quella situazione, soprattutto perché la madre, giovane e bella, usciva a divertirsi senza di lui. Solo più tardi, quando lui aveva già cominciato a fare l'attore, i suoi genitori si erano uniti e poi sposati, tanto che lui fu riconosciuto legalmente dal padre quando aveva quasi vent'anni.
Dopo un anno e mezzo di convivenza mi accorsi di essere in attesa di un bambino. Totò, quando glielo dissi, reagì in modo davvero singolare. Lo vidi rabbuiarsi, poi mi disse: «Non è possibile, a meno che tu non mi abbia tradito. Non puoi aspettare un figlio mio perché io non posso avere figli».
Dopo molte insistenze si convinse a consultare un medico: scelse un vecchio ginecologo e volle assistere alla visita, girandosi di spalle, appoggiato alla finestra.
«La signora è gravida di tre mesi», fu il responso. «Ma come, dottore», disse Totò «io non posso procreare, ne sono certo!». «Allora venga di là nel mio ufficio e si spieghi meglio», disse il medico con durezza.
Uscendo dallo studio Totò mi abbracciò commosso: «Scusami, cara. Il medico mi ha chiarito ogni dubbio, io ero convinto di non poter far figli per una malattia infantile, la parotite, che ho contratto in ritardo. Questo mio sospetto era stato avallato dal fatto che nessuna donna delle tante che ho amato è mai rimasta incinta». «Ma Totò», gli dissi amareggiata «anche volendo, come avrei potuto tradirti? Sono con te in ogni istante». «Hai ragione, perdonami», mi rispose «sono stato un pazzo a sospettare di te».
TRINE PREZIOSE
Superato quell’inizio un po’ burrascoso trascorsi una gravidanza molto felice. Totò mi coccolava come una bambina delicatissima.
Nell'ultimo periodo della mia gravidanza, a Roma, abitavamo ancora nella camera d’albergo dei primi tempi. Io pensavo di partorire all’ospedale, ma su questo punto lui fu irremovibile: «Non se ne parla nemmeno, Diana non deve andare in una specie di Torre di Babele per partorire. Faremo allestire in questa camera una sala parto».
E così fece. Le pareti vennero foderate da teli bianchi, furono contattati un medico, un’ostetrica e un'infermiera che mi seguirono giorno e notte nel lungo travaglio.
Erano le 21 quando nacque una bambina. Totò, che stava recitando al Teatro Eliseo, fu avvisato telefonicamente. Interruppe lo spettacolo, dicendo al pubblico: «Amici miei, mi è appena nata una figlia, voi permettete che io vada a conoscerla? Sarò di nuovo qui da voi tra dieci minuti esatti». In quei dieci minuti corse trafelato dal teatro all’albergo, salì le scale come un forsennato, ebbe appena il tempo di baciare me e la bambina ed era di nuovo in strada.
Al suo ritorno, tenendo tra le braccia la piccola disse: «E’ proprio mia, adesso ne sono proprio sicuro, perché ha il mio stesso naso storto!».
Mi chiese di battezzarla con il nome di Liliana, in ricordo di Liliana Castagnola, la soubrette che per amor suo si era tolta la vita qualche anno prima.
Nei giorni che seguirono la nascita della bambina, Totò girò personalmente i migliori negozi di Roma per scegliere il corredino. Comprò quanto sarebbe servito per dieci bambini: abitini di trine preziose, centinaia di scarpine, serie di copertine e lenzuolini, sembrava non voler smettere più di fare acquisti.
Si dimostrò subito un padre tenerissimo, premuroso, ma esageratamente apprensivo. Volle assumere immediatamente una bambinaia per farmi aiutare. Quindici giorni dopo il parto eravamo già in viaggio in quattro: noi due, Liliana e la bambinaia.
Ripresi presto la mia vita di prima. Seguivo Totò ovunque, mentre la piccola riposava in albergo accudita dalla nurse. Il problema nasceva quando di sera dovevo allattare la bambina, Totò non volle mai che fossi io a raggiungerla. Assunse un autista che a orari stabiliti prelevava nostra figlia con la "tata" portandocela in teatro. Dopo la poppata Liliana veniva riportata in albergo.
Appena rientrammo a Roma, Totò volle acquistare una casa. Girammo giorni e giorni per trovarne una di suo gusto. Era esigentissimo. Dopo averla trovata scelse lui pezzo per pezzo i mobili. Si interessò del colore dei tendaggi, acquistò bellissimi tappeti e soprammobili. Aveva un gusto raffinato. Assunse subito una cuoca e una cameriera: «Non crederai che io voglia far sciupare le tue mani con i lavori domestici», mi disse. «Non ne avresti nemmeno il tempo perché tu devi continuare a occuparti di me, a starmi vicina». Curiosamente invece era lui che al mattino, se aveva tempo, sbrigava qualche faccenda domestica: dopo aver bevuto il caffè prendeva in mano uno straccio e spolverava con bravura mobili, quadri, cristalleria. Per cinque, sei anni, continuammo a portare la bambina con noi. Ci spostavamo con un numero incredibile di bagagli: bauli, lettini, cappelliere, giocattoli; grazie alla capacità organizzativa di Totò, riuscivamo a vivere comodamente anche se restavamo fuori di casa per gran parte dell'anno.
Ci sposammo il 6 aprile del 1935, quando Liliana aveva quasi due anni. Fu una cerimonia semplice, alla sola presenza dei testimoni, nella chiesa di San Lorenzo in Lucina.
Nella nostra vita privata non erano ammesse persone del mondo dello spettacolo. Finito il suo lavoro, Totò non amava la compagnia di attori o altri "addetti ai lavori”. In realtà non avevamo nemmeno amicizie di altro genere; a volte mi lamentavo di non avere un’amica, di non poter scambiare quattro chiacchiere con una conoscente, ma mio marito mi rispondeva: «A che cosa ti servirebbe un'amica? Non stai forse bene con me?».
In estate prendevamo in affitto a Viareggio una villa sul mare. Portavamo con noi anche il personale di servizio: cuoca, cameriera e bambinaia. Mio marito acquistava per me costumi da bagno bellissimi, ma non potevo indossarli liberamente in spiaggia. «Così scoperta», diceva «posso vederti soltanto io». Così ero costretta a indossare una vestaglietta e se facevo il bagno lui mi aspettava a riva con l'accappatoio. Per prendere il sole mi portava al largo con il pattino.
Il pomeriggio facevamo lunghissime passeggiate in bicicletta, io, lui e la bambina, e la sera dopo cena andavamo in un bar a gustare una coppa di gelato.
Una volta facemmo una gita in battello a Torre del Lago. Di fronte a me si sedette un signore di mezza età. Vidi subito Totò innervosirsi. Infatti a un certo punto sbottò: «Senta, signore, ma lei che cos’ha da guardare?». «Le dispiace che io guardi?», gli rispose quell'uomo. «No, lei non guarda: fissa», fu la sua risposta.
DIALETTO SICILIANO
Ma l’altro continuò con molto spirito: «Gli occhi sono fatti per guardare, soprattutto le cose belle. Se io guardo la signora che le sta vicino», disse «non faccio niente di male». «Questa non è una signora», lo interruppe Totò «è mia moglie». «Fortunato lei», continuò quell'uomo. «Ma se io guardo la sua signora, lei non se ne deve dispiacere. E' come se guardassi un bel quadro». «Ma a me dà comunque fastidio il fatto che lei fissa», continuò Totò paonazzo.
Queste scene con lui erano all'ordine del giorno. Non si rendeva conto di esagerare, di rendersi ridicolo. Un’altra volta eravamo a Palermo, e all'ora di pranzo mi portò in un bel ristorante con un giardino all'aperto. Alle sue spalle si sedettero quattro uomini, proprio di fronte a me. A un certo punto, parlando in dialetto stretto, cominciarono a fare degli apprezzamenti sul mio conto; avevano capito che non eravamo siciliani e pensavano di non essere capiti. Totò invece comprendeva perfettamente tutti i dialetti. Così all'improvviso afferrò il tavolo per le gambe e lo sollevò in aria, facendolo poi ricadere con uno scroscio fortissimo sui commensali alle sue spalle. I piatti colmi, i bicchieri, le bottiglie si rovesciarono addosso ai malcapitati, si scatenò un vero putiferio.
Totò, calmissimo, li apostrofò nel loro medesimo dialetto: «Siete degli incivili, dei maleducati. Chi credevate che io fossi? Il nonno della signora, un rimbambito che vi avrebbe lasciato fare? Imparate a non molestare le donne, soprattutto se sono in compagnia». I quattro avventori, pur avendo riconosciuto Totò, protestarono vivacemente. Si radunò una piccola folla di curiosi, tanto che dovette intervenire il gestore del locale.
Dopo quelle sfuriate Totò mi chiedeva scusa: «Perdonami», mi diceva «ma è più forte di me, in certi casi mi sale il sangue alla testa, non so più quello che faccio. Vedrai che con il tempo passerà, cambierò», mi prometteva, salvo poi ricominciare alla prima occasione.
La sua era una vera manìa, che si accentuò con il passare degli anni. E lui, di fronte alle mie proteste, diceva: «Diana, non è vero che una donna a 25 o 30 piaccia meno di una ventenne. Per il vero intenditore è come una rosa rigogliosamente sbocciata, che attira di più con il suo profumo più marcato e il colore più vivo». Io non potevo nemmeno stringere la mano a estranei senza il suo consenso. Aveva studiato uno stratagemma. «Se un uomo ci viene incontro, chiunque sia, tu devi attenerti a questa regola: se io non ti faccio alcun cenno puoi porgere la mano, se ti stringo il braccio vuol dire che si tratta di un tipo che non mi piace e ti limiterai a dire buongiorno».
Una volta ci si avvicinò un giornalista che lui salutò affabilmente. Non avendo ricevuto alcun segnale, stavo per porgere la mia mano verso la sua, all’improvviso invece mi sentii dare una brusca stretta e di colpo, per abitudine, ritirai la mano.
Anche per nostra figlia Totò nutriva lo stesso sentimento di gelosia; quando ebbe sei anni si rifiutò di mandarla a scuola. «Assumeremo un'insegnante che la prepari privatamente. Mia figlia in una scuola non andrà mai, non posso saperla esposta a mille pericoli, non vivrei tranquillo». «Ma la bambina ha bisogno della compagnia dei coetanei», ribadivo io. «E va bene, il pomeriggio faremo venire su a giocare le due figlie del portiere, ma solo le due femminucce, intendiamoci!».
Far vivere Liliana solo con adulti non mi sembrava giusto. Cercai di dissuaderlo, ma non ne ricavai nulla: «Se io potessi», mi diceva candidamente «metterei te e lei qui nel mio taschino, nascoste agli occhi di tutti».
Totò era in generale un marito fedele. Mi aveva tradito in realtà solo un paio di volte all’inizio del nostro rapporto, quando io ero ancora piena di disarmanti pudori e ingenuità e quindi poco adatta a essere la compagna di un uomo sorprendentemente passionale. Negli anni seguenti non ebbi mai motivo di sospettare di lui, del resto non sapeva fingere, non avrebbe saputo nascondermi nulla. «Vedi», mi diceva sempre «io pretendo lealtà assoluta, sono molto esigente, ma ti ricambio con la stessa moneta. Per me contate soltanto tu, mia figlia e il mio lavoro, non ho assolutamente bisogno d’altro per essere felice».
«VIVEVO IN UNA GABBIA DORATA» «Pur essendo possessivo e geloso fino a un punto maniacale», racconta Diana Rogliani nel suo memoriale «Totò non apparve mai ansioso di sposarmi in fretta e non lo fece neppure dopo la nascita di Liliana. Per celebrare le nostre nozze dovemmo superare anche difficoltà pratiche perché, essendo io nata a Bengasi, in Libia, non riuscivo ad avere i miei documenti di nascila. Riuscimmo a regolarizzare la nostra unione soltanto quando Liliana aveva due anni. Nel frattempo, Totò aveva comprato una bellissima casa a Roma dove faceva vivere me e Liliana come due principesse in una gabbia dorata».
GATTO D’ANGORA
Con i suoi genitori, specialmente con la madre, Totò aveva un rapporto spassosissimo. Vederli in casa era come assistere a una sceneggiata napoletana. La signora Anna, mia suocera, bussava in camera da letto appena sentiva che ci eravamo svegliati: in una mano reggeva la tazzulella ’e café per il figlio, nell’altra un bastone che usava per vezzo, perché era agilissima malgrado la sua stazza di 120 chili. La madre di Totò aveva un gatto d'angora bellissimo, di nome Bianco. Lo considerava un secondo figlio, di mattina a buon’ora cominciava a dire al marito: «Peppì, scendi che la pescheria è già aperta, vammi a prendere il pesciolino per Bianco».
A Bianco piaceva arrotarsi le unghie sulle poltrone di damasco del salotto. Totò non lo sopportava. «Mammà», gridava «prendetevi quel fetente del gatto, mi sta rovinando tutto!». La madre rispondeva con flemma napoletana: «Eh che sarà mai, per due graffietti, Bianco vieni bello di mammà, tuo fratello non ti vuole bene!». Bianco morì nel giorno di Pasqua mentre noi eravamo in tournée. Ci arrivò un telegramma di mia suocera su cui c’era scritto: ”Vi devo dare una notizia ferale: è morto Bianco. Vi faccio 'anche' gli auguri per Pasqua”.
Diana Rogliani, «Gente», anno XXXV, n.2, 17 gennaio 1991
Diana Rogliani, (Testo raccolto da Marilù Simoneschi - Seconda parte) «Gente», anno XXXV, n.2, 17 gennaio 1991 |