Alberto Sordi: mamma mia che impressione, me stavano quasi per magnà

1968 Alberto Sordi intro

Così dice Alberto Sordi, che ha passato più di due mesi nel cuore dell’Africa nera, nella divertente intervista concessa in esclusiva a «Oggi». L’attore spiega come mai si era sparsa la voce che i selvaggi lo avessero catturato e cotto a lesso, e racconta in anteprima la trama del suo nuovo film

Roma, agosto

Alberto Sordi è arrivato Improvvisamente all'aeroporto di Fiumicino poco prima di Ferragosto: sano e salvo, con un sorriso sfolgorante. Ha così fugato, definitivamente, tutte le voci che lo davano per disperso in Angola (Africa meridionale) dove è stato per girare il film comico-avventuroso dal chilometrico titolo Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l'amico misteriosamente scomparso in Africa? L'Alberto nazionale, però, è stato tutt'altro che loquace con i cronisti che lo assediavano. L’unica intervista sulle sue peripezie africane l’ha concessa a Oggi, parlandone diffusamente nel tono scanzonato e paradossale che gli è tipico.

Cosa le è successo in Africa? Perché dalla fine di luglio non ha dato più notizie? Lo sa che si é sparsa addirittura la voce che lei fosse stato preso dai cannibali?

«Veramente sono stato molto fortunato, e sa perché? Perché sono un matusa e ci ho la carne dura, mamma mia com'è dura! Li cuochi della tribù selvaggia che m’aveva catturato m'hanno punzecchiato un bel po’ coi loro forchettoni, ma alla fine mi hanno schifato. "Puah!", borbottavano tra loro, mentre io stavo con l'orecchio dritto, legato come un salame nel padellone. "ma questo chi se lo magna? Lassamolo perde. senza sprecarci il condimento". Appena m'han buttato fuori della padella, me la son data a gambe ed eccomi qua. Le piace 'sta storia? In confidenza; Il cannibali non li ho mai Incontrati ma 'sta favola che hanno messo in giro per sfottermi me fa gioco. È una trovata pubblicitaria coi fiocchi e mica sono così fesso da bruciarla con la solenne smentita. Non me la smentisca lei, siamo intesi?

«La verità è molto più banale, come spesso succede; vuol proprio che gliela racconti? Nella seconda metà di luglio il regista Ettore Scola, io, i miei partner Nino Manfredi e Bernard Blier abbiamo dovuto trasferirci con tutta la troupe nel cuore dell'Angola. una zona desertica del sud; sistemandoci alla meno peggio nello sperduto villaggio di Virei, sorto per gli appassionati del safari e costituito da alcune casette prefabbricate. Come può immaginare, le comunicazioni col mondo civile erano problematiche. Avevamo una piccola radio trasmittente capricciosa, che funzionava solo quando ne aveva voglia, e con questo mezzo ci collegavamo con Luanda (la capitale angolana, che assomiglia tanto a Terracina). I nostri messaggi venivano poi trasmessi telefonicamente da Luanda a Roma, spesso con ritardi enormi e inevitabili. Così è accaduto che le nostre famiglie son rimaste d’un tratto senza notizie. I parenti più impressionabili hanno tempestato i rappresentanti diplomatici perché facessero ricerche del nostro gruppo "disperso e forse massacrato dai selvaggi". Tutto da ridere».

1968 Alberto Sordi

Ma i selvaggi, li avete almeno visti?

«Come no! 'Sti selvaggi, a prima vista, la fifa te la mettono addosso, dato che sono grandi e grossi come Polifemo, neri come il carbone^ con occhi iniettati di sangue, armati di lance, spadoni e archi così pesanti che, mamma mia, a me non mi riusciva nemmeno di alzarli da terra. Ma poi, che delusione! Nel giro di mezz'ora ci siamo accorti che i selvaggi sono boni come il pane. Queste tribù nomadi dei Mukumbài e dei Muiller, discendenti dai colossali e famosi Vatussi, non avevano mai visto una cinepresa e appena gli abbiamo proposto di lavorare nel film hanno fatto la "danza della gioia" e si sono messi a nostra disposizione. I "dritti" della troupe avevano portato un sacco pieno di vetri colorati, conchiglie e graziosi sassolini levigati dal mare, ma i selvaggi ci hanno spiegato subito, col gesti, che preferivano i dollari. A questo punto m’hanno fatto rabbia. Ma come, pensavo, uno arriva da Roma fin nel cuore dell’Africa tenebrosa, per scoprire i primitivi che vivono come bestie feroci, e si sente chiedere i dollari! M’è venuta una voglia matta di fargli uscire di corpo l'antica ferocia e quatto quatto ho cominciato a distribuire pizzicotti fra i notabili, a tirargli gli anelli appesi al naso e agli orecchi. Macché, ridevano come matti gongolando per il solletico, e gridavano entusiasti nella loro lingua gutturale: "Questi romani, però, che mattacchioni!".

Mocamedes (Angola). Insieme ad Alberto Sordi, hanno preso parte al film, diretto da Ettore Scola e girato nelle zone più selvagge dell’Africa, Nino Manfredi e l'attore francese Bernard Blier. Nella foto, Blier e Sordi ballano con due ragazze Mukumbài che hanno avuto una parte nel film. Gli indigeni non avevano mai visto macchina da presa ed erano entusiasti di fare le comparse.

«Mukumbài e Muiller, comunque, si sono trasformati in ottimi attori, puntualissimi sul set e pieni di zelo professionale: attori presi non dalla strada (come usava al tempi del neorealismo) ma addirittura dal deserto e dalia savana. Abbiamo potuto "immortalare" nella nostra pellicola a colori le pittoresche cacce tribali al leone, al leopardo, agli struzzi, alle gazzelle e alle zebre. Siamo entrati per la prima volta con la macchina da presa nelle capanne di fango e paglia, dopo aver penosamente strisciato per terra, col fiatone, nelle gallerie d'ingresso basse come l’imbocco di un canile. In uno di questi tucùl abbiamo addirittura scoperto una star mukumbài: Lucy, una splendida venere nera, e le abbiamo immediatamente affidato un ruolo di rilievo.

«Lucy avrà al massimo diciotto anni, ma non lo sa. È inutile farle domande sulla sua data di nascita, perché lei e tutti gli altri componenti della tribù si sono sempre infischiati dell’anagrafe. Pensi un po', in quel beato paese l'età non esiste, nessuno è giovane, nessuno è matusa, non fa alcuna differenza avere quindici e magari duemila anni. Lucy ha recitato nuda davanti alle cineprese, come tutti i Mukumbài e i Muiller maschi e femmine, senza il minimo imbarazzo. Anzi, quando abbiamo tentato di metterle qualcosa addosso, ha reagito come se le avessimo fatto una proposta sconveniente. Forse la verità è che queste stupende donne d’ebano si sentono perfettamente vestite dallo strato di grasso che si spalmano dalla testa al piedi per difendersi dalla fortissima umidità».

I latin lover della troupe hanno avuto successo con le veneri d’ebano? Quanto a lei, eterno scapolo, immagino che non avrà perso l’occasione per una romantica esperienza africana.

«I nostri giovani galli, in gran parte romani espertissimi nelle avventure sentimentali, hanno concentrato in un primo tempo le loro attenzione sulla straordinaria Lucy: ma lei li aspettava a pie' fermo, con un sorriso ambiguo degno della Gioconda, come se fosse convinta di non correre rischi. Dovetti constatare che i latin lo ver venivano paralizzati proprio nel clou dell'offensiva. Perché mai? Poveracci, non resistevano al l'odore tremendo del lardo spalmato sul corpo di Lucy. Falliti i tentativi con le Mukumbài, gli inesauribili vitelloni si sono rivolti alle donne Muiller, altrettanto belle e rese anche più seducenti dalle raffinate pettinature cariche di boccoli.

«Le ragazze Muiller, viste da ragionevole distanza, fanno pensare a damine del '700. sfarzosamente imparruccate ma libere da ogni impaccio di abbigliamento. Però anche le Muiller dispongono, come le Mukumbài. di una micidiale arma segreta: secondo un'antichissima tradizione tribale. I loro meravigliosi boccoli sono impregnati di sterco (bovino, mi pare), che li plasma durevolmente ma emana un puzzo atroce. Spero di averle Illustrato con sufficiente forbitezza verbale il perché degli insuccessi del nostri galletti romani in Angola, costretti a battere in ritirata anche di fronte alle bellezze Muiller. Quanto a me. lei capirà che le esperienze dei miei colleghi della troupe mi hanno reso cauto. Mi sono limitato a dare un bado sulla guancia a Lucy, nel momento del congedo, eoo gratitudine per la sua appassionata partecipazione al flint. Lucy mi ha guardato sbigottita: non era mai stata baciata prima d'allora, perché le tribù selvagge dell'Angela ignorano completamente II bacio».

Mocamedes (Angola). «Le angolesi sono molto belle», dice Alberto Sordi, «ma hanno il vizio di spalmarsi il corpo di grasso rancido». Due settimane fa Sordi era stato dato per disperso con tutta la troupe; in realtà era accaduto che, trovandosi in un posto isolato, non era più riuscito a dare sue notizie.

Come mai vi siete avventurati in regioni cosi inospitali? Vuol rompere il riserbo sulla trama del film, di cui finora non si sa quasi nulla?

«Il film racconta la storia paradossale di un italiano quarantenne, l’editore Fausto DI Saldo, perfettamente integrato nella civiltà del consumi, che tutt’a un tratto schizza fuori dalla routine con un gesto di "contestazione globale", forse suggeritogli dalle ribellioni del giovanissimi. Pianta in asso la moglie, la fiorente industria e la cerchia di amici influenti, per andare a “scoprire" la sua Africa, cioè il "continente vergine" tante volte sognato sul libri di Verne e Salgari. Il mio personaggio si è però creato un pretesto che giustifichi "agli occhi del mondo" il suo viaggio spericolato. Ha detto a tutti: "Voglio rintracciare Titino, mio cognato, che anni fa se ne andò In Africa e da allora è scomparso senza darci più sue notizie". In Angola Fausto viene coinvolto in una serie di umilianti peripezie. Durante un safari, cade In una trappola per le belve e rischia di essere massacrato a colpi di lancia. Poi un manipolo di mercenari. Impegnati nella guerriglia contro il governo coloniale portoghese, lo scambia per una spia, lo deruba e lo bastona. Quando II mio personaggio è ormai distrutto fisicamente e moralmente e non vede l’ora di tornarsene a Roma, il caso vuole che rintracci il cognato Titino, cioè Nino Manfredi, nella zona più remota e barbara del paese. Titino è diventato uno stregone, una specie di "dio della pioggia" idolatrato dalle tribù selvagge oppresse dalla siccità. A suo modo è felice, in quell’angolo sperduto del mondo, e molto a malincuore si lascia trascinare da Fausto su una nave in partenza per l’Italia. A bordo però Titino ci ripensa e ad un tratto si butta in acqua con un tuffo da campione olimpionico, per riunirsi definitivamente al suoi amici selvaggi. I soli che abbiano saputo dargli l’illusione di essere qualcuno. Fausto Invece illusioni non ne ha più: non gli resta che tornare in patria, per riprendere a recitare fiaccamente la sua parte di editore importante. Per raccontare questo "fallimento morale all’italiana", il regista Scola ha tenuto il film, dal principio alia fine, sui filo di una pungente satira moderna».

Per concludere, quali sono state le sue piò sconcertanti esperienze in Angola, oltre le avventure tra i selvaggi?

«Il primo choc l’ho avuto appena sono arrivato a Luanda, la capitale. Io che adoro l'estate e il sole come le lucertole, ero convinto di essere accolto laggiù dalla classica canicola equatoriale. Macché, ho trovato un freddo terribile, umidissimo, dato che luglio e agosto sono gli unici mesi invernali nell'Angola, che per il resto dell’anno gode di un clima meraviglioso. Ho dovuto farmi mandare da Roma In tutta fretta maglie di lana con le maniche lunghe. I golf e pullover e qualche coperta da aggiungere a quelle che mi passava l'albergo.

«M'avevano assicurato che la cucina angolana era eccellente, coi suoi piatti a base di carne di gazzella, tenera come vitellina e saporita come il manzo. Verissimo, io constatai nel primi giorni, ma tutt'a un tratto la gazzella scomparve dal menù. Alle proteste mie e della troupe fu data una risposta sconfortante: "La caccia alla gazzella è chiusa fino a settembre. Però abbiamo il migliore baccalà del mondo". Detesto il baccalà, sicché m'affrettai a tenere una specie di consiglio gastronomico, insieme col regista e con i notabili della troupe, e di nuovo chiesi aiuto a Roma: ci giunsero velocemente cento chili di spaghetti e bucatini, una montagna di parmigiano e qualche centinaio di scatole di pomodori pelati. A me la "schiavitù dello spaghetto" non piace per niente, la considero anzi una meschina tradizione provinciale, ma sa com’è, la fame è fame e gli spaghetti, in fin dei conti, sono spaghetti.

«Quando ci avventurammo tra le savane e nelle zone desertiche, si aprì un altro capitolo dei nostri guai. Giorno e notte eravamo insidiati dagli scorpioni, dal leopardi affamati, dalle mosche del sonno e dai serpentelli-un-minuto. Non li ha mai sentiti nominare? Beato lei. Sono rettili guizzanti, simili alle vipere ma molto più canaglie: il loro veleno uccide un uomo esattamente in un minuto. Abbiamo accoppato parecchi di questi rettili che sbucavano da tutte le parti rizzandosi sulla coda e fissandoci con occhietti lampeggianti di odio.

«Dopo quanto le ho raccontato, lei si sarà convinto che io e i miei colleghi della troupe non torneremmo in Angola nemmeno se ci pagassero un miliardo a testa. Invece, ora che siamo rientrati a Roma e possiamo farci un baffo di scorpioni e serpenti, proviamo un'inspiegabile nostalgia per quel meraviglioso paese fuori del tempo, dotato di incredibili bellezze naturali e popolato da gente affabile e Innocente. I Mukumbài e i Muiller ci hanno fatto la danza d'addio alla partenza e piangevano. Non capita tutti i giorni di vedere I selvaggi in lacrime. tanto più commoventi in quanto, privi come sono di fazzoletti, non possono nemmeno asciugarsele».

Un'ultima domanda: dove girerà il suo prossimo film?

«In Brasile e particolarmente a Rio e Bahia. Il film, di cui farò regista e interprete, racconterà una vicenda moderna, con forti contrasti di razza. Sarò impegnato in questo lavoro per tutto il prossimo inverno, in coincidenza cioè con l’estate brasiliana. Questa volta mi sono informato meglio sul mutevole gioco delle stagioni e ho almeno la fiducia di poter lavorare al caldo».

Ezio Saini, «Oggi», anno XXIV, n.35, 29 agosto 1968


Ezio Saini, «Oggi», anno XXIV, n.35, 29 agosto 1968