Federico Fellini, il vitellone di Rimini

Federico Fellini era un giovane magro, allampanato: gli piaceva passeggiare, di notte, in compagnia degli amici per le strade della città. Leggeva, oziava, disegnava caricature. Poi, un giorno, salì su un treno per Roma.
Rimini, febbraio
Federico Fellini lasciò Rimini la mattina del 4 gennaio 1938. Aveva vissuto, nella sua città, diciannove anni. Lo accompagnarono fino a Bologna i tre amici più intimi: Luigi Benzi, detto «Titta» o «il grosso», Mario Montanari e Luigino Dolci. La città non fece caso a quella partenza e il non rivedere più l’allampanato ragazzo lungo il corso, sul molo o davanti al bar di Raoul, non meravigliò nessuno. Rimini estingueva il proprio inverno fra le sue due piazze, in quell’anno vagamente isterico a cavallo fra due guerre.
Del resto Fellini non aveva compiuto, a Rimini, nulla di eccezionale o di profetico. La sua città natale rappresenta per lui un dato autobiografico espresso, nella misura più nostalgica, da I vitelloni. La stessa città, con tardivo orgoglio campanilistico, non gli ha mai perdonato di non avere girato, fra le mura di casa, le storie del celebre film.
Fellini frequentava raramente i caffè; preferiva passeggiare. Aveva pochi amici essendo la sua comunicativa pigra e allusiva. Non destò ammirazione né sollevò speranze. D’altra parte quelli erano tempi mitici; le cose dovevano avere proporzioni eroiche per colpire la fantasia della gente. Fellini, invece, andava rubando con Titta pile di baccalà dalle vasche esposte sui marciapiedi per regalarli a qualche poveraccio e ricevere in cambio interminabili discorsi sui gradini di S. Agostino o dell’Arengo. «Toh, mangia un baccalà!», diceva al primo vecchietto che incontrava, e si faceva raccontare tutta la «settimana rossa». Un giorno che, a scuola, dettero per tema l’illustrazione dei doveri di un figlio del Littorio, scrisse : «Io non so niente. Chi vuol saperlo è pregato di rivolgersi al mio amico Luigi Benzi che è anche capocenturia». E consegnò il foglio. Aveva una profonda noia per le astrazioni dai veri e semplici temi della vita. Il sabato, alla premilitare, era lo stesso Benzi che lo comandava. Federico aveva avuto in dotazione un fucile e portava a spasso l’ordigno stancamente, devastando tutte le volte il rigore geometrico della marcia: e sempre, in cima alla canna, c’era un cespuglietto di margherite. Ogni tanto si buttava in 'un fosso ammiccando all’amico che comandava il plotone.
Federico Fellini, a diciannove anni, sulla spiaggia di Rimini. Nel film I vitelloni ha rievocato molte storie della sua giovinezza e dei suoi amici.
Ma Benzi non tollerava omertà e Federico, guardandolo di traverso, gli diceva: «Chi credi di essere,
pataca. Napoleone?». E continuava a fumare. Durante la campagna d’Africa ebbe un improvviso ricupero patriottico. Aveva scoperto il sistema, del resto variamente applicato in tutta Italia, per evitare legalmente le ore di lezione. Ogni due o tre giorni inventava la presa di un caposaldo.
«Signor preside, hanno preso Bumba-Dumba!»
«E allora?», dice il preside per prendere tempo.
«Come “allora?”! Se non si va fuori per Bumba-Dumba quando si deve andare?»
Il preside Arduino Olivieri è uomo argutissimo e liberale, ma erano tempi difficili e un genitore di quelli che si mettono l’orbace anche di ferragosto può rovinargli l’onesta carriera. E poi quel Bumba-Dumba lo sentiva nominare per la prima volta. Alzando la voce, dice: «I destini imperiali, ragazzi, si compiono ad Addis Abeba. Quel giorno vi autorizzerò a scendere in piazza!».
Nell’album di Fellini ci sono numerose fotografie con dedica ai genitori. «Alla mia mamma che ebbe la bellissima idea e la grande originale trovata di mettermi al mondo.» E al padre: «Io penso a te papà dalle tempie grigie, ma tu mi stai a sentire?».
Fellini incalza: «Addis Abeba va bene, signor preside, ma lei deve riconoscere che i destini passano anche per Bumba-Dumba, dove il soldato in kaki ha scritto ieri sera, al tramonto, una pagina...». Sull’onda dì quella prosa la classe è già. Idealmente, in piazza Giulio Cesare. Ma il preside ha un’idea.»
«Fatemi vedere quant’è grosso questa Bumba!...» E si volta a guardare la carta dell’Africa Orientale.
Tutta la classe si lancia verso la cattedra per collaborare alla ricerca. Solo Fellini, che non ha alcuna fiducia nel sopraluogo, è già sulla porta e con voce melo-drammatica annuncia:
«Per me, che lo troviate o no, Bumba-Dumba esiste. Esiste nel mio cuore, come tutti i nomi dei villaggi dove mio fratello lascia una stilla del suo sangue di avanguardista!»
L’estrema risorsa di Federico è sensazionale. Tutti sanno, chi più chi meno, che Riccardo è pieno zeppo di globuli rossi e che giuoca al pallone, dalla mattina alla sera, nella piazzetta dei Teatini. Il preside ha addirittura un dubbio fondamentale: che il fratello di Federico sia ancora balilla. Ma, ormai, tutta la classe è trascinata via dal grido di dolore di Federico, precipita lungo le scale e guadagna la strada.
Fece, nel corso dell’anno, sessantaquattro assenze e tuttavia fu promosso ancora una volta. Otteneva tutti gli anni la media del sei, bilanciando i quattro in matematica fisica e scienze con gli otto in italiano latino e storia. In filosofia prendeva addirittura il nove. Il preside Olivieri, che Fellini invita regolarmente alla prima visione dei suoi film, giura che La dolce vita è il frutto di un amore scolastico di Federico il quale prese una cotta per la sesta satira di Giovenale, dandone un'interpretazione vivacissima e penetrando, con particolare curiosità, i versi che illustrano i costumi delle donne di Roma.
Federico Fellini, a Roma. Gli inizi sono difficili, il regista disegna vignette umoristiche, non ha molti quattrini e ha, invece, nostalgia di Rimini e dei suoi amici. Ma lo spirito goliardico non l'abbandona.
Passata l’età in cui per comprare due «nazionali» e pagarsi il cinema Fellini tagliava i bottoni dai cappotti di mezza Rimini per poi venderli alla titolare di un negozio locale, cominciò a fare caricature che gli rendevano uno scudo, d’estate, quando cioè lavorava al Grand Hotel, e una lira, d’inverno, quando irretiva qualche cliente nel bar di Raoul. Lavorava in coppia con Benzi che gli portava i colori e il cavalletto. Poi dividevano a metà, compravano mezzo chilo di caramelle e noleggiavano una carrozza dalla quale, per tutta la città, lanciavano caramelle a nugoli di bambini. Questa prodigalità, che ha in sé qualcosa di primordiale, è rimasta un dato del suo carattere. Un giorno, incontrata una vecchietta che campava con la pensione del figlio morto, le regalò ventimila lire. «Gliele manda l’ANIC! Ha presente quella fabbrica che hanno fatto a Ravenna? Danno via ventimila lire per ogni vecchietta. Io sono un incaricato.» E lasciò nella povera donna questo stupendo mistero.
I pochi scherzi che giuocò al suo prossimo nella città natale prendevano di mira, con una costanza che merita d’essere sottolineata, la categoria dei commercianti. •Essendo l’uomo meno venale del mondo, agiva evidentemente nel suo inconscio una sorta di antipatia per coloro che hanno una vita piena di traffici.
La contessa a spasso con una sciarpa al... guinzaglio
Nel 1937 se la prese con un certo Brunetti, un galantuomo che gestiva una calzoleria in Corso d’Augusto. Aveva scoperto che tutti i mercoledì e tutti i sabati il signor Brunetti, seguito da un aiutante che si chiamava Temeroli, trasferiva dal negozio alle corriere le scarpe destinate ai paesi del circondario. All'una e un quarto, puntualmente, uscivano dell negozio, una dopo l’altra, due montagne di scatole e, sotto, navigavano il titolare e l'inserviente. Attraversato il Corso, le scatole si perdevano nell’intrico della città vecchia, dondolando sulle braccia dei due come i ceri di Gubbio. Un passaggio obb'igato era la pescheria, alla quale si accedeva attraverso una strettoia. In quel punto focale del trasferimento Fellini tendeva una corda, e la catastrofe era Inevitabile. Poi, per quante altre vie cercassero, Fellini continuò a precederli e a tendere la cordicella, tanto che tutta Rimini, ormai, conosceva quella campagna persecutoria e il fracasso delle scatole che rovinavano era diventato, per la città, una specie di rumore storico. All’una e venti si sentiva un gran trambusto e la gente diceva: «È Fellini che ha tirato la corda!». Come il cannone a Roma.
1938, via IV Novembre, a Rimini. Fellini ha aperto un negozio di caricature. Disegna anche, in società con Demos Bonini, cartelloni per i cinema. Nella foto, da sinistra: il fratello Riccardo e Fellini, con gli occhiali.
Un’altra volta, non potendosela prendere con una blasonata locale, infierì contro il suo cane. In forma primigenia e profetica anticipava una certa ironia della quale sta beneficiando, dopo circa vent’anni, una parte dell’aristocrazia italiana. Questa contessa aveva l’abitudine di passeggiare tutti i giorni lungo il Corso recando un cane di proporzioni così esigue da parere tin topo. Al passaggio della contessa e del cane, Fellini lasciava la compagnia, raggiungeva il cagnolo e lo sganciava dalla padrona. Poi, per evitare che il guinzaglio, strisciando per terra e facendo rumore, rivelasse la mancanza della bestia, vi annodava, in fondo, una sciarpa di lana. Cosicché la povera contessa, un po' sorda e un po’ in là negli anni e tuttavia assai bizzarra nei modi e nelle abitudini, si portò a casa tre volte le sciarpe di alcuni volontari.
Un bel giorno aprì un negozio di caricature. Aveva deciso di applicare in modo proficuo il suo talento. Ma guadagnò molto di più disegnando, in società col pittore Demos Bonini, grandi cartelloni reclamistici per i cinema di Rimini. Il compenso consisteva, infatti, in un certo numero di biglietti che garantivano l'ingresso a torme di amici che si prenotavano in un apposito registro. Finché non gli arrivò un vaglia di due lire. Glielo spediva l’amministrazione del 420. Era il frutto di una vignetta umoristica spedita al giornale, a sua insaputa, da Demos Bonini. La notizia fece il giro degli amici, circolò nelle aule del Liceo e nei caffè attirandogli qualche curiosità. Aveva diciannove anni e si preparava a lasciare Rimini.
Federico Fellini con Aldo Fabrizi. Comincia a lavorare nel cinema come sceneggiatore, soggettista. Al padre manda una loto con la dedica: «Al caro papà Urbano con affetto ed orgoglio, Federico detto il "bello"».
Sveglia gli amici prendendo a sassate le loro finestre
Adesso che è diventato uno tra i poeti più autentici del cinema mondiale, la sua città va lentamente prendendo coscienza della personalità di Fellini. Gli unici che ne difesero sempre il singolare talento sono i suoi tre o quattro amici. Pochi, per un ragazzo che, da solo, illustra tutta Rimini. Benzi e Montanari sono avvocati ed hanno una vasta reputazione che tuttavia non ha impedito, a Benzi, di prendere a pugni, dopo la prima milanese de La dolce vita, quel tale che disapprovò il film sputando sul regista; Dolci e Bonini sono l’uno industriale e l’altro pittore e insegnante. Fellini toma a casa di notte, li sveglia prendendo a sassate le finestre e si fa accompagnare in giro per la città. Poi, con Benzi, va a vedere il mare, il mitico personaggio dei suoi racconti.
C'è, poi, una sparuta società di intellettuali che si ostinano a dir male di tutti i suoi film, anche di quelli che non hanno visto. Alcuni, per anticipare il giudizio della città, vanno invece a vederli a Bologna, facendo una sfacchinata in treno che influirà sul giudizio negativo. Messi alle strette, difendono il loro rigore critico adducendo che Fellini rifiuta di venire a prendere un caffè da Raoul, che è un uomo senza memoria, un poeta senza nostalgia. Non è cattiveria, è la pigrizia altissima, quasi ellenica, che si incarna in una piccola e civilissima società di immaginatori i quali, se avessero avuto le stesse opportunità, dicono, avrebbero fatto né più né meno quello che ha fatto Fellini. Attori nelle mani del regista che disapprovano e protagonisti di una delle sue storie più celebri, tra un film e l’altro di Federico Fellini continueranno poi a disputare sulla convenienza di dire «gomma telata» o «tela gommata». Finché durerà l’inverno. Poi coi primi cieli aperti di primavera e col venire dell'estate ricomincerà anche per loro la dolcezza di vivere. E di Fellini, per tutto il tempo della leonina stagione, non si occuperanno più. Soltanto la madre di Federico, una cara donna che vive la sua solitudine in un calmo decoro borghese, continuerà a dire, anche d’estate, che suo figlio «avrebbe fatto meglio se fosse rimasto». Lo sogna ancora in uno studio di avvocato come Benzi, come Montanari. «Non avrebbero inventato la storia dei circhi, degli zingari,. dei carabinieri che me l'hanno portato a casa non so quante volte!», dice. Poi protesta: «È mai possibile che debba costare tanto la celebrità di un figliolo?». Infine, sfiorata dal dubbio, mi chiede : «Lei crede che Federico possa avere avuto una seconda vita?». D’istinto non crede alle storie che i giornali raccontano, presta fede soltanto a Titta, l’amico di Federico. Rimini, in fondo, rifiutandone il mito, le conserva suo figlio.
Sergio Zavoli, «Epoca», anno XI, n.491, 27 febbraio 1960
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| Sergio Zavoli, «Epoca», anno XI, n.491, 27 febbraio 1960 |
