La prima e l'ultima notte di Fred Buscaglione

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Gino Latilla e Mario Pogliotti rievocano in esclusiva per EPOCA i momenti del battesimo della sua prima canzone di successo e le ore che hanno preceduto la sua tragica fine.

Mi avevano dato una cabina infernale, la notte tra martedì e mercoledì della scorsa settimana, sul «letto» Milano-Roma : proprio sulle ruote. Ma non era soltanto per il «zum zum» dei carrelli proprio sotto di me, che non riuscivo a dormire: piuttosto perché tornavo a Roma, a casa, dopo il Festival di Sanremo. Avevo cercato di tirare il più a lungo possibile questo ritorno, come i ragazzini che fanno dieci volte il giro del palazzo, prima di salire le scale di casa, perché hanno preso un brutto voto a scuola e si vergognano.

Io sono il cantante che ha partecipato a più Festival di Sanremo di tutti, e sono sempre riuscito a portare le canzoni affidate a me in finale: quasi sempre fra le prime tre. Quest’anno, niente, un disastro. “Meno male”, pensavo, “che mio figlio Davide è ancora troppo piccolo per dirmi: Papà, che delusione!” Pensavo alle facce di circostanza degli amici, ai loro penosi tentativi di non parlare della cosa, o di trovarmi delle giustificazioni puerili. L’unico che mi avrebbe detto chiaro e tondo «Gino, hai fatto una figura da peracottaro» sarebbe stato Fred. Saremmo andati da qualche parte, io e Fred, a scolare una bottiglia e a dimenticare le nostre pene raccontandoci barzellette, come tante volte, per tanti anni. “Ecco”, pensavo tra me, “questa è la soluzione migliore. Appena arrivo a Roma, telefono a Fred e organizziamo una serata delle nostre. Carla - mia moglie - brontolerà un po’, ma capirà, e terrà pronte le limonate calde col bicarbonato, per quando, a una certa ora, le piomberemo a casa ridendo come stupidi. Come tante altre volte...”

Non ci sarebbe stata un’altra volta: mentre mi rigiravo nel lettuccio pensando a tutto questo, Fred, il mio amico Fred, moriva, sballottato come me da altre ruote, quelle dell’autobus lanciato inutilmente a corsa pazza verso l’ospedale.

1960 02 14 Epoca Fred Buscaglione f1Fred Buscagliene è morto a trentotto anni, nel momento in cui la sua carriera di cantante e di autore di canzoni era al colmo della popolarità. Per più di dieci anni era rimasto nell'ombra: era considerato un pazzoide che scriveva musica impossibile. Gino Latilla racconta in queste pagine come, conosciutolo in curiose circostanze, gli apri la strada della celebrità, lanciando la sua prima canzone di successo.

«È morto come uno dei personaggi delle sue canzoni» mi dicevano più tardi, per consolarmi, mentre stavo impietrito davanti alla porta ancora sbarrata della stanza dove avevano deposto il suo corpo straziato. «Fred non era tipo da morire di vecchiaia, o in un letto coi reumatismi e l’arteriosclerosi...» Ma cosa volete che m’importi, se è morto in maniera giusta o sbagliata? Non cambia niente, non addolcisce il fatto che Fred sia morto, che il migliore, il più caro amico che avessi al mondo non ci sia più. Voi che mi leggete, pensate un momento: è facile trovare un amico, un vero amico, tra la gente che fa il vostro stesso mestiere, tra la gente che aspira al vostro stesso posto, ai vostri stessi guadagni? No, non è facile, ed è umano che sia cosi. Io mi sentivo ricco, perché c’ero riuscito, l’avevo trovato. Adesso devo parlare di lui al passato, dire Fred ero, Fred aveva... Era, aveva : non credevo che potessero dare tanto dolore, queste due piccole parole...

Cominciò sei anni fa, a Torino, una notte, in un bar. Bevevo un po’ troppo, in quel periodo, forse per mandar giù una certa faccenda sentimentale, che è inutile ricordare: tanto ne hanno parlato fin troppo, i giornali dell’epoca. Anche quella notte avevo bevuto più del lecito; tanto da non saper più distinguere il whisky dal cognac.

«Ancora un po’ di questo cognac» stavo dicendo con un bicchiere di whisky in mano, quando una voce da grammofono preistorico mi rimbombò nelle orecchie: «Amico, chi confonde il cognac col whisky, merita di essere buttato subito nel Po».

«Nel Po c’è l’acqua, e quella te la bevi tu» risposi cercando di guardare in faccia lo scocciatore. Ma non riuscii a vedere altro che un paio di baffi, enormi come spazzoloni ; e due occhi di fuoco.

«Tu sei il diavolo» dissi.

«Come no» rispose la voce da grammofono rotto «e tu sei Tchumbaia-bey.»

«Chi è questo Cium... cium bey?»

«Te lo spiegherò un'altra volta...»

Cominciai ad urlare ed a piangere. «Se non me lo spieghi subito, rompo tutto.»

Eravamo al Sandro bar, il locale che è il punto d’incontro di tutti coloro che lavorano a Radio Torino. «Glielo spieghi» mi sembra di ricordare che disse a questo punto il proprietario «altrimenti quello là è capace di fare sul serio.»

1960 02 14 Epoca Fred Buscaglione f2Fred Buscaglione, in questa foto scattata qualche giorno prima del mortale incidente, appare seduto sul portabagagli della sua fuoriserie americana, una Thunderbird rosa pallido. Guidando questa automobile, è morto all'alba del 3 febbraio scorso.

«E va bene» tuonò di nuovo la voce «vieni, cocco, ti portiamo a casa, ti mettiamo a letto e se stai buono, ti racconto la storia di Tchum baia-bey in due minuti.»
Mi afferrarono in due, quello coi baffi e un tipo mingherlino, che doveva essere certamente l’aiutante del diavolo. Mi caricarono di peso prima su un tassi, poi nell’ascensore.

«Il piano!» chiese perentorio il vocione.

«C’è, c’è il piano» bofonchiai «sta nel salotto...»

«Il piano dove abiti!» urlò quello con i baffi. «Appena su, ti mettiamo con la testa nell’acqua, e vedrai che ricomincerai a distinguere il whisky dal cognac.» Pensai che se non era il diavolo, doveva essere un commerciante di whisky, per essersi offeso a quella maniera.

Qualche cosa di energico, dovettero farmi; perché una volta a casa, cominciai ad avere le idee più chiare. Mi resi allora conto che quel tipo coi baffi dovevo averlo già visto da qualche parte, e anche l'altro, il mingherlino.

«Adesso, amici» - dissi «voglia sapere questa storia di... come avete detto che si chiama quel bey della malora?»

Si misero a ridere. «Sarà bene presentarci, prima» gracchiò quello coi baffi. «Io sono Fred Buscaglione (adesso ricordavo, mi avevano già parlato di lui) e questo è Leo Chiosso. Fa l’avvocato, ma non deve valere gran che, perché perde il suo tempo a scrivere le parole delle mie canzoni. Cioè, non so se si possono chiamare canzoni, la gente dice che è roba da matti. Tchumbala-bey è il titolo della nostra ultima canzone. Adesso te la facciamo sentire. Un impresario mi ha detto che è roba da far vomitare. Allora è proprio quel che ti ci vuole, per smaltire la sbornia...»

Si mise al pianoforte e attaccò come un ossesso: «Son Tchumbala-bey - l’illuso, il folle Tchumbala-bey - il folle cavaliere - che per la steppa va...». Chiosso ritmava il tempo, agitandosi come una baiadera. E anch’io, a poco a poco, fui preso da quel ritmo indiavolato. A un tratto esplosi in una risata, fragorosa, inumana. I due s’interruppero, allibiti.

«Ci vuole la risata, qui ci vuole la risata» borbottai, poi non ricordo più niente. Mi hanno raccontato che sono piombato a terra, addormentato come un ghiro.

Da quella notte, ho messo Tchumbala-bey nel mio repertorio.
L’ho cantata tutte le volte che ho potuto, ed ogni volta mi piaceva di più. La cantavo con la risata, strappandomi la camicia (Dio sa quante camicie mi sono rovinato per Tchumbala-bey). In pochi mesi, la canzone è diventata un grande successo. Ma io non ero contento. Dicevo a tutti : «L’ha scritta Buscaglione: è un tipo eccezionale, molto più bravo di me. Ascoltatelo, fatelo lavorare...». Ma scrollavano le spalle: «Capita a tutti di scrivere una bella canzone» dicevano. «Ma le altre cose di Buscaglione non valgono niente, e il suo modo di cantare vale anche meno. Lascialo perdere, e pensa ai fatti tuoi».

Non potevo lasciarlo perdere, era un’Ingiustizia enorme che non capissero quanto fosse bravo Fred. Quando mi dissero che gli avevano fatto incidere i primi dischi solo per farmi un piacere, mi sentii il desiderio di picchiarli. «Il piacere l'ho fatto io a voi» urlai * ve ne accorgerete!»

Se ne sono accorti, ma adesso non serve più. Fred è andato via: ora cavalca nelle steppe del cielo, in groppa al destriero di Tchumbala-bey e canta per gli angeli.

Gino Latilla


1960 02 14 Epoca Fred Buscaglione intro2

«Il maestro Ludwig von Buscaglione?» Dall'altro capo del filo mi rispose la roca risata di Fred. Erano le otto e mezzo di sera del 2 febbraio. Da quando aveva usato il motivo beethoveniano del Chiaro di luna come accompagnamento di uno dei suoi più celebri motivi, talvolta lo chiamavo scherzosamente cosi e Fred rideva divertito. «Corri subito qui, in albergo, ho una bella cosa da farti vedere...». Dieci minuti più tardi entravo nella hall dell'Albergo Rivoli. Vincenzo Ratti, il figlio dei proprietari, mi venne incontro; erano legati da un profondo affetto a Fred, che con loro si sentiva veramente in famiglia, «Ha una sorpresa, ha detto di salire su da lui...». Tra l'ascensore e la sua camera, mi venne incontro come una lontana musica d'organo. Veniva proprio dal suo appartamento. Quando entrai, FYed mi sorrise raggiante, indicando una piccola «accordetta» : «Non è meravigliosa?». L’aveva acquistata poche ore prima, in un negozio del centro. «Così avrò il mio pianoforte portatile, come tu hai la tua macchina da scrivere. Non dovrò più scomodare nessuno per comporre... Siamo pari», e se la guardava golosamente, esultante, come un bambino col suo giocattolo fiammante. «Ascolta Bach : come ti riposa, come ti pulisce dentro...», e riprese a suonare. Era la Grande Messa in Si Minore di Giovanni Sebastiano Bach : per più di mezz'ora, la piccola pianola divenne per FYed un solenne organo, dalle lunghe canne d’argento che gli nascevano dalla tastiera e le note che s'inerpicavano su per le navate d’una cattedrale...

Si scosse da quella sorta di rapimento : «Voglio comperarmi tutte cose piccole per la mia casa. Voglio che non ci sia dentro niente di clamoroso, niente di definitivo», e mi indicava la minuscola radio, il televisore portatile, il giradischi e l'accordetta : tutte cose poco ingombranti. Poi ricominciò a suonare, ma volle rivedere un vecchio tema di circa un anno fa, al quale io avevo messo le parole e un titolo : Ossessione. Era una delle pochissime canzoni che avevamo scritte insieme: il suo paroliere inseparabile, come tutti sanno, è l’amico Leo Chiosso. La canzone aveva bisogno di alcune rifiniture e FYed in questo era esigentissimo e difficilmente accontentabile. «Vedrai che stavolta, su questo giocattolo, la mettiamo a posto...».

Era felice, pieno di entusiasmo per il lavoro che stava facendo. Gli uccelli della settima luna, una commedia di Marcel Aimeé che aveva appena terminato di musicare, l’aveva impegnato e preoccupato molto. Ne parlavamo, più tardi, a cena, alla Taverna degli Artisti di via Margutta. Per mesi lui e Chiosso si erano tuffati in questo lavoro e avevano scritto molta musica: dovevano tradurre musical-mente l'umorismo non certo facile dello scrittore francese e i fogli di musica si erano accumulati nel cestino, insieme agli appunti di Chiosso, finché erano uscite, linde, pulite, impeccabili, quattordici graziosissime canzoni «Pensa, una è intitolata : Mi fai ridere e, credimi, fa ridere anche me, ogni volta che la provo. È la confessione di una donna (che nella commedia è la brava Bice Valori) vittima di una curiosa anomalìa : pur volendo molto bene al marito, ogni volta che lui le viene accanto con aria tenera. chissà perché “... un attimo prima - di cadere tra le sue braccia -mi fa ridere !” e ride a tutto gas...» Ma le preoccupazioni maggiori erano certe difficoltà finanziarie in cui s’era trovata l’amministrazione della compagnia, che aveva imposto ripetuti rinvi! al debutto. Fummo interrotti dall’arrivo di due ragazze; la più giovane - esile, minuta, con due occhioni febbricitanti e dall’abbigliamento convenzionalmente variopinto - si rivolse a Fred: «Buscaglione, la mia amica è una sua ammiratrice e vorrebbe conoscerla, ma è timida, non come me. Ha una bambina che la vede sempre dal televisore e chiede di lei...». Fred firmò autografi, offrì correttamente da bere e poi, come soleva fare quando desiderava essere lasciato in pace, giocò a fare il distratto, il pensieroso. Le due «fans» capirono e si allontanarono discretamente.

«Stavo rimuginando un’idea. Si può cantare Dio dalla pedana di un night-club? Pensa: un essere stanco, bruciato dal fumo dei night, che Lo invochi attraverso quella nebbia: guardami, Signore! Sono anch’io uno schiavo, come lo erano i negri del Mississippi che Ti cantavano gli “spirituals” e Tu li ascoltavi e li affrancavi ! !...» Come gli capitava in questi momenti, l’eloquenza di FYed si librava come un gabbiano. Chi lo giudicò soltanto attraverso gli atteggiamenti impostigli dalla professione e dal suo stesso successo, forse stupirà, ma sotto quel sorriso sprezzante, sincopato dai baffetti convenzionalmente crudeli, si nascondeva una inestinguibile sete, più che di whisky, di sapere. I suoi autori prediletti erano Pavese ed Hemingway. Aveva letto tutto, di loro.

Era mezzanotte. L’indomani mattina Fred doveva recarsi all'Istituto Luce, a provare il doppiaggio di certi cortometraggi. Poi, a Cinecittà, l’attendevano per una visione del suo ultimo film, Noi duri, che uscirà a giorni. Era il primo film in cui Fred non cantava: recitava soltanto. «Pensa», mi diceva con orgoglio «il principe De Curtis, Totò, che ha una parte nel film, l’altro giorno mi ha detto: “Buscaglione, lasci dire a me, che ne so qualcosa: lei non è un attore, è qualcosa di più: un vero artista!”. Cosa ne pensi? Avrà scherzato?»

Non scherzava il principe De Curtis, eri un artista, Fred. Ricordo la grande orchestra ritmo sinfonica che avevi diretto a Radio Cagliari, nell’immediato dopoguerra: non aveva niente da invidiare a Morton Gould e André Kostelanetz e c'erano i più bei nomi del jazzismo di allora. Ricordo le prime «jam sessions» all'Hot Club Torino : venivamo tutti a sentire Io «tzigano del jazz» che improvvisava tuffandosi in avanti, sulla musica, e buttando sulla tastiera dello strumento quel gran ciuffo di capelli. Avevi educato, senza saperlo, il pubblico dei dancings e delle «balere» alla musica nuova e ancora cercavi nuove soluzioni alla logora tematica della canzone italiana.

Ma torniamo a quella sera. Era poco più di mezzanotte e seguivo la clamorosa «Ford Thunderbird» di Fred su per la salita del Muro Torto: «Beviamo un whiskyno e poi andiamo a letto», aveva proposto lui. Non l’aveva comperata per Fred Buscaglione, quella macchina. L’aveva comperata a Fred il duro, apparteneva al suo personaggio. Adesso lo vedevo davanti a me, al volante di quella vettura così grande da farmelo sembrare piccolo, rannicchiato in un angolo, solo. Era quasi sempre solo, Fred, anche tra la gente che lo applaudiva. Era solo tutte le volte che non c’era con lui Leo Chiosso o qualche altro suo amico, rari, difficili, perché per essergli amico bisognava innanzitutto cercare di essere buono e semplice come lui.

Noi duri, il film che Fred Buscaglione ha terminato di girare soltanto pochi giorni prima di morire. In questo periodo, Buscaglione era il cantante più richiesto: i night-clubs e le case cinematografiche se lo disputavano, costringendolo ad un'attività infernale, che aveva un po' indebolito la sua pur fortissima fibra. Il testo dell'ultima canzone a cui Fred stava lavorando. Ossessione, era però di Mario Pogliotti, che gli è stato accanto prima che avvenisse il tragico incidente.

Entrammo in un locale di via Veneto. Portieri, guardarobiere gli sorridevano. Non era gentilezza stanca, professionale: era la simpatia umana che emanava naturalmente da lui. Di che cosa parlavamo, mentre la ragazza dello «streap-tease» faceva il suo numero ? Ah, sì: gli ricordavo i tempi in cui suonava il violino. Perché non riprendeva quello che era stato il suo strumento prediletto? «È vero, me lo ha detto anche Leo, a Napoli, ultimamente. Lo farò, tanto più che, a Napoli, ci ho provato e mi sono trovato perfettamente a posto.»

Si avvicinò al nostro tavolo una ragazza: al solito, lo voleva conoscere, era imbarazzata. Fred le firmò una fotografia. «Ma lei è del locale?» le chiese guardandola attentamente. Era una «entraineuse». «Rimanga pure con noi, se le va, ma ci scusi: io ho già bevuto due whisky, in quanto al mio amico...», io scossi li capo. «Vede, non vogliamo bere. Però non voglio che lei ci rimetta. Perciò tenga questo...» e cercò di allungarle alcune banconote sotto il tavolo. Ma la ragazza non volle accettarle e si allontanò.

Parlammo ancora, tra un numero e l’altro, di un film, Due straordinarie pistole che avrebbe probabilmente interpretato con Panelli. Poi, come sempre, mi parlò di Fatima, che era rimasta la sola «bambola» che avesse in cuore: si volevano ancora molto bene, anche se sussistevano tra di loro motivi di dissenso, assolutamente estranei all'affetto, che rendevano loro troppo dura la vita in comune.

Erano ormai le tre. Cercavo di convincere Fred a uscire dal night: tra qualche ora lo aspettavano al LUCE. Ma si avvicinarono gli orchestrali che avevano ricevuto il cambio dall’altro complesso e Fred, che il lavoro notturno aveva abituato a recarsi a letto verso l’alba, volle rimanere a tutti i costi.

Ero stanchissimo. Uscii solo dal locale. Fuori l’«Uccello del Tuono» che avrebbe portato via Fred stava ormeggiato a un portiere gallonato, nella bruma della notte inoltrata. Un orologio invisibile, racchiuso in quell'elegante corazza d’acciaio, scandiva spietato i minuti che lo separavano dall'Appuntamento... «meno duecento... meno centonovantanove... meno centonovantotto...». È la prima volta, pensai, che ci lasciamo in un night e non davanti al portone di casa. «Telefonami alle nove di stamattina, in albergo» mi raccomandò prima che lo lasciassi. Non ho il telefono in casa. Non ricevo giornali. Mi alzai e, allegramente, mi precipitai nel bar sotto casa, a telefonargli in albergo : «C'è il maestro Ludwig von Buscaglione?», domandai scherzando, come la sera prima. «È morto ! È morto !» mi urlò una voce fuori di sé, dall'altro capo del filo.

Mario Pogliotti

«Epoca», anno XI, n.489, 14 febbraio 1960


Tempo
«Epoca», anno XI, n.489, 14 febbraio 1960