Arte antica di Totò
Ci ricordavamo di lui quella sera, dopo averlo visto traversare il palcoscenico del Valle quasi per il suggerimento di un’ipnosi, o volteggiare con un'aria estatica e svagata intorno alla figura vampiresca della Magnani, come il simbolo vivente di un’antichissima vocazione comica.
Non si trattava più di Totò e tanto meno del marchese Antonio De Curtis, ci pareva di capire chiaramente mentre affacciati allo scavo dell’Argentina — dove ci aveva portato la nostra passeggiata notturna — lasciavamo che l’occhio vagasse sulle colonne di tufo dei templi repubblicani; quell'omettino magro ed elettrico, perpetuamente animato da un’imperativa cadenza interna, ci appariva assurdo nella sua comune entità di uomo della strada, ma perfettamente reale e giustificabile nella sua entità astratta di continuatore di una tradizione e di uno schema mentale.
Era lui a staccarsi dagli affreschi delle tombe del Pulcinella e degli Auguri a Tarquinia, ricreando i lazzi e la mimica di quei singolari personaggi in cappuccio ed abito a toppe, mentre lo guardavamo involarsi come un lemure della scena, in un modo funebre ed aereo; e ancora lui a ripetere ed arricchire il gioco ritmico degli Zanni e degli Arlecchini, la continua invenzione di quelle sagome asessuali e disossate.
E’ che l’arte di Totò scende in linea diretta da quei rami, o meglio fa parte senz’altro di quel tronco; e il suo inserirsi nella tradizione deriva, prima e al di fuori di ogni richiamo della cultura, dal senso tutto mediterraneo di una comicità intesa specialmente come fatto motorio, come inversione istintiva e continua delle leggi della statica e dell’equilibrio, cioè dell’armonia nel movimento. Le sue celebri apparizioni e scomparse a collo teso e ginocchia piegate rappresentano il contrario giusto di quanto si comprende comunemente nel concetto di danza: qualche cosa come una danza classica a rovescio. Può sembrare che si tratti.
in altre parole, di un contrappunto esemplare: dove l’esigenza di stilizzazione e di artificio meccanico che è tanta parte del Comico viene portata senza volere alle sue estreme conseguenze, attraverso un minuto collegamento di proporzioni sbagliate (ma tutte naturalmente nello stesso senso) che l’occhio coglie nella loro risultante di grottesca. Per questo l’obbiettivo del fotografo, che di un simile sovvertimento può fissare solo aspetti parziali e quindi necessariamente privi del ritmo capovolto che lo giustifica, è il naturale nemico di Totò; mentre la macchina da presa, utilizzata per lui sinora in modo tanto inadeguato quando non addirittura in contrasto con le sue più vere possibilità potrà precisare e moltiplicare i motivi di un’arte ricca di estri e di suggerimenti.
E, soprattutto, Totò non è un attore che debba ridere necessariamente ed in ogni occasione. Chi l’abbia visto nel suo numero del gagà, ad esempio, sa benissimo che senso di freddo e malinconico sgomento spiri da quella piccola figura in giacca bianca e cappelluccio schiacciato, un senso quasi tragico nell’evidenza rappresentativa con la quale è rilevata la miseria umana del personaggio, la sua fatuità, l'irrimediabile angustia del suo mondo e delle sue ambizioni.
Nella rapida serie di gesti e di atteggiamenti coi quali Totò raccoglie di- nascosto il mozzicone di sigaretta buttato via con negligenza un attimo prima di fronte a una donna, c’è odore di cavernose camere ammobiliate, di piccoli affari poco puliti, di pomeriggi oziosi trascorsi al caffè in discorsi vuoti e sciatti, di una moralità generalmente dubbia. Certamente queste cose non hanno niente a che fare con Eschilo e Shakespeare, ma è altrettanto vero che sono materia sulla quale ridere (o per lo meno ridere con abbandono e giovialità) sarebbe in tutti i sensi fuori luogo.
Aldo Paladini, «Tempo», anno V, n.130, 27 novembre 1941
Aldo Paladini, «Tempo», anno V, n.130, 27 novembre 1941 |