Totò e... Macario

Macario

Meraviglioso clown


Che cosa posso dire di quello straordinario Pulcinella moderno che è Totò? Per metà mimo, per metà attore, e tutto - nel cuore e nello spirito - napoletano, grande come soltanto i grandi napoletani sanno essere. Un meraviglioso clown, ecco; e io ritengo che clown sia la più bella e nobile definizione che si possa dare di un artista, quando sia capace, con un lazzo o una battuta, di interpretare e rappresentare la vita facendone un racconto.

Fui io, nel 1927, a procurargli la prima scrittura importante. Recitava quell'epoca, nella compagnia del cavalier Maresca e mi toccò tornare con Isa Bluette. Allora, al Maresca disperato per la mia sostituzione, segnalai un comico che avevo visto più volte, di pomeriggio al bar Apollo di piazza Duome Milano. Era Totò, e lo ingaggiarono subito. Soltanto che commisero l'errore di insegnargli le cose che facevo io e come le facevo io. Così, la prima sera, fu guaio. «Tu devi fare Totò perché sei Totò», gli dissi. E da lì nacque il Totò di rivista. Me ne fu sempre riconoscente, caro e generoso amico.


Da quando ho cominciato a recitare, un solo anno non ho fatto compagnia nel 1963. Colpa di Totò che, confidandomi il timore di avere ormai detto tutto nel cinema, espresse la speranza che insieme con me, forse, gli sarebbe riuscito di rinnovarsi. Ci impegnarono a girare un film: finimmo col girarne cinque. Tutti in quell'anno. Qualche tempo fa ho letto su un quotidiano romano un titolo che mi ha lasciato perplesso: "Dove sono andati a finire i soldi di Totò?» Io vorrei sapere, piuttosto, dove siano andati a finire gli enormi guadagni che hanno fatto i produttori dei film interpretati da Totò.


La stampa dell'epoca


Macario-Totò, un incontro sul video

Macario, 77, e non li dimostra. «Sono qua» dice, e il suo «sono qua», detto naturalmente in dialetto piemontese, significa che è sempre sulla breccia, che è pronto, che è disponibile, che ha voglia di fare. Nel teatro di via Santa Teresa è in corso la sua nuova rivista Oplà, giochiamo insieme, e da domani, per cinque settimane, è in televisione tutti i giorni, salvo il sabato e la domenica, sulla rete 2, verso le 19, in Buona sera con...

Non ho mai chiesto a Macario se nella sua lunga carriera piena di successi non abbia anche provato una volta — una volta sola — l'onta dell'insuccesso, e non si sia sentito arrivare, invece di caldi applausi, dei fischi. Non credo. Posso dire che in televisione tutti i suoi programmi sono sempre stati un successo, regolarmente accolti da alti indici di gradimento.

Bisogna sottolineare che — oltre a una popolarità che lo accompagna da oltre mezzo secolo — Macario «funziona» molto bene in tv. Quella sua faccia tonda in cui esplode una inimica da commedia dell'arte sembra fatta apposta per i primi piani del video. E d'altra parte Macario accanto all'esperienza teatrale ne ha una cinematografica che se non è altrettanto densa è stata tuttavia importante e positiva.

E teatro e cinema si danno la mano in questo Buona sera con... perché Macario, affiancato dalla giovane Cristina Gazzera e da altri attori, farà un po' di tutto: monologhi, scenette, brani di spettacoli, improvvisazioni, parodie di canzoni, dialoghi con le più rappresentative statue e con i più autorevoli busti dei monumenti torinesi. E in mezzo infilerà spezzoni di film dei quali ho ripetutamente e invano richiesto da tempo una rassegna in tv. Ma si vede che la rassegna è troppo difficile da organizzare. Godiamoci allora questi spezzoni ricavati da Il pirata sono io, da Imputato alzatevi e dai suoi tre film più divertenti del dopoguerra, tutti diretti da un altro torinese, il regista Carlo Borghesio, e cioè Come persi la guerra, L'eroe della strada, Come scopersi l'America.

Questa sul video dovrebbe essere una settimana meno tragica delle solite. Qualche risata dovrebbe insinuarsi tra cattive notizie, severi dibattiti, pellicole drammatiche e sceneggiati funebri. C'è Macario, e venerdi sera sulla rete 1 parte un ciclo di film di Totò. Non è il primo ciclo di Totò (anzi, ce ne sono stati diversi) e non sarà l'ultimo, ma la miniera cui attingere è enorme: il comico napoletano ha girato più di cento film e di questi solo circa un terzo sono passati sul teleschermo. Stavolta vedremo: Animali pazzi (1939) di Carlo Ludovico Bragaglia, un'autentica rarità per gli stessi addetti ai lavori perché è il secondo film di Totò, e da moltissimi anni non è più in circolazione; Il ratto delle sabine (1945) di Bonnard, L'imperatore di Capri (1949) di Comencini, Un turco napoletano (1953) di Mattoli, Il coraggio (1955) di Paolella, Totò, Peppino e i fuorilegge di Mastrocinque, Signori si nasce (1960) di Mattoli, Totò truffa (1961) ancora di Mastrocinque.

E' un bel ciclo? Si può rispondere che è un ciclo di Totò, ossia che è composto di pellicole tagliate su misura e confezionate appositamente (e di fretta) per lui. Seguita a circolare una vecchia, falsa storiella secondo cui in vita Totò sarebbe stato snobbato, addirittura disprezzato dai critici i quali poi, versando lacrime di coccodrillo, l'avrebbero rivalutato dopo la morte anche su un piano culturale. Non è vero. Allora tutti i critici seri riconoscevano le sue straordinarie doti, ma deprecavano che venissero troppo spesso —per la frenesia di uno sfruttamento cui Totò aderiva di buon grado — sciupate o utilizzate per una minima parte in film mediocri o scadenti. Occorre mettersi li con pazienza, sopportare sequenze deboli e insulse, e aspettare la sequenza dove copione e regia smettono di dormire e danno finalmente la possibilità a Totò di tirar fuori la grandissima carica di un umorismo surreale e irripetibile.

Ugo Buzzolan, «La Stampa», 7 ottobre 1979


1942 Toto Macario Taranto Navarrini Schipa 001 L

1962 Toto Macario 02

1942 Toto Macario Taranto Navarrini Schipa 003 L

1950 01 05 La Voce Repubblicana Macario Toto le Moko L


La Settimana Incom 9 giugno 1949 - Elena Giusti e altri attori famosi formano una vera compagnia di pellegrini per il Giubileo. Mondine in gita e netturbini romani, nei telegiornali dell'Istituto Luce i tanti volti dei pellegrini nei Giubilei tra il 1930 e il 1950


Quando i morti disturbano più dei vivi: storia della piazza contesa, del comico ribelle e delle sue donnine immortali.

Tutto ebbe inizio, come le migliori tragedie comiche, in una data che rimarrà scolpita negli annali dell'irrilevanza monumentale: il 7 ottobre 2001. Luogo del delitto (metaforico, sia chiaro): Cuneo. L'occasione? Nientemeno che la Fiera del Marrone! Sì, i marroni. Quelle castagne nobili, con due erre, affinché nessuno osi confonderle con la plebe delle castagne monosillabiche. E cosa si fa in una fiera dedicata a un frutto se non onorare l'arte, la cultura, e soprattutto... le citazioni cinematografiche pertinenti?

E così, illuminati da un lampo di genio municipale (o forse annebbiati dai fumi dello zucchero filato e della nebbia padana), i savi amministratori cuneesi decisero di dedicare una piazzetta (non un viale, non una piazza maggiore, una piazzetta – manteniamo le proporzioni) al Teatro Giovanni Toselli al Divino Totò. Il motivo? Qui sta il colpo di teatro, la scintilla che accese l'incendio. Non per la sua immensa filmografia, non per il suo impatto culturale, non per aver definito l'umorismo italiano. No. Per una sola riga di copione, pronunciata nel lontano 1952 nel film "Totò a colori" di Steno: «Sono un uomo di mondo! Ho fatto tre anni il militare a Cuneo: le basti questo!!!». Capite? Tre anni di naja, una battuta, e PUM! Piazza intitolata. Una logica ferrea, ineccepibile, che farebbe impallidire i teoremi di Gödel.

Ma non tutto fila liscio, neanche con i marroni a due erre. Appena si sparge la voce di questa commemorazione basata su un servizio di leva (probabilmente inventato per copione), la Lega Nord, nella persona del consigliere comunale Claudio Dutto (un nome da ricordare negli annali della piccola polemica), si erge a difesa della territorialità della risata. Perché onorare un... be', diciamolo, un napoletano? Un terrone, secondo la loro logica implacabile, quando in casa si ha il Gotha della comicità piemontese? E chi se non Erminio Macario, il figlio della terra sabauda, l'uomo che esaltava l'accento locale, l'idolo delle folle (piemontesi e non)?

E qui, signori e signore, entrano in scena i figli, Mauro e Alberto Macario. Non con una semplice letterina di protesta, no. Con "lettere infuocate e surreali" (il testo usa proprio queste parole, e come dargli torto?) a giornali e amministratori. Un diluvio epistolare che gridava allo "sfregio" nei confronti del padre. Immaginate le scene: penne che graffiano la carta con furia, inchiostro che ribolle, i fantasmi di Totò e Macario che si guardano dall'Aldilà chiedendosi "Ma che succede laggiù? Tutto 'sto casino per una piazzetta?". La "Guerra dei Marroni" (a due erre, non dimentichiamolo!) era ufficialmente iniziata.

La contesa si trascinò, come i traslochi il lunedì mattina, finché, nel maggio 2002, in occasione del centenario della nascita di Macario, la "grande" Torino (sempre un passo avanti, o forse solo un anno dopo) decise di rimediare. Ma attenzione, non senza "una serie di polemiche" anche lì. Perché dedicare una piazza in centro storico a un comico? Non è abbastanza serio? Alla fine, tra un mugugno e l'altro, Macario ebbe la sua piazza. E il Museo Nazionale del Cinema, bontà sua, gli dedicò un incontro. Un incontro. Quasi a dire: "Ok, te lo riconosciamo. Ora non rompete più".

Ma il vero, il grandioso, il memorabile modo di festeggiare il Macario, quello che zittì (o almeno, provò a zittire) le polemiche e lo riportò nel cuore (o sugli schermi) degli italiani fu un'operazione culturale di portata... da edicola. Il 30 novembre dello stesso anno, "La Stampa" (il giornale, non l'azione) decise di distribuire ben sei (sei! Non una, non due!) cassette di film macariani. Un'ondata anomala di pellicole d'epoca che si riversò nelle case degli ignari spettatori. "L'innocente Casimiro", "Come persi la guerra", "L'eroe della strada", "Come scopersi l'America", "Adamo ed Eva", "Il monello della strada". Titoli che da soli meritano un'analisi socio-antropologica.

E qui, signori, arrivano le sorprese per chi scopriva Macario solo allora, grazie a questo "salvataggio" editoriale. Non solo talento e abilità (che quelli c'erano, eccome), ma un'inaspettata dose di antimilitarismo e antiamericanismo. E, udite udite, qualche punta di frondismo antifascista nei tempi che furono. Immaginate la faccia dei leghisti che l'avevano eletto a simbolo anti-terrone! L'eroe che volevano contrapporre a Totò si rivelava un ribelle, un contestatore silenzioso, uno che prendeva in giro l'esercito e gli americani. Un capolavoro di auto-sabotaggio politico, non c'è che dire. Volevano un'icona autarchica, si sono trovati un anarchico gentile.

E la cosa più esilarante? Che tutta questa "guerra" era basata su un'assoluta, totale, vertiginosa incomprensione. Totò e Macario non erano nemici, non erano rivali nel senso campanilistico che la polemica voleva imporre. Hanno lavorato insieme. Sei film, per la precisione! "La cambiale", "Totò di notte n. 1", "Lo smemorato di Collegno", "Totò contro i quattro", "Il monaco di Monza", "Totò sexy". Sei testimonianze filmate della loro complicità, della loro stima reciproca. Mentre a Cuneo e dintorni si battagliava a colpi di lettere infuocate per una piazzetta, i due erano già da decenni (e per l'eternità) colleghi sullo stesso schermo. L'assurdo al suo culmine.

Macario, con quel cognome che sembra già un'invenzione da commedia dell'arte, con la sua piemontesità ostentata, la sua maschera da Pierrot surreale, la sua camminata ciondolante "un po' lunare quasi alla Ionesco", avrebbe meritato di più. Un'attenzione più autoriale al cinema. Non solo gag e battute. Solo Mario Soldati provò a vederlo oltre la maschera, affidandogli un ruolo drammatico in "Italia piccola". E Macario, da professionista serio, non tradì la fiducia. Ma il cinema, si sa, è ingrato. O forse il pubblico preferiva la leggerezza.

Sì, perché il pubblico, quello che comprava le cassette in edicola (o che ricorda i suoi spettacoli), preferisce ricordarlo circondato dalla sua legione, dalla sua armata invincibile, dal suo harem (platonico, immaginiamo... o forse no?) di "donnine". Le avvenenti soubrette dalle gambe chilometriche e dall'abbigliamento... be', diciamolo, essenziale. Una sfilza infinita di bellezze, dalle più note alle meno note, che Macario ebbe il merito di lanciare: Tina De Mola, Olga Villi, Isa Barzizza, le sorelle Nava, Elena Giusti, Marisa Maresca, Lauretta Masiero, Dorian Gray, Flora Lillo, Marisa Del Frate, Valeria Fabrizi, Sandra Mondaini, Lea Padovani. Nomi che hanno fatto la storia del cinema e del teatro leggero. E Macario, l'uomo della camminata lunare e del frondismo silenzioso, le guardava. Ah, come le guardava! Con un "erotico ammiccamento" (il testo è esplicito!) ma, attenzione, con "sostanziale candore". Ecco la differenza cruciale, la linea di demarcazione netta: non la "malcelata concupiscenza" nello sguardo di Totò. Macario era il seduttore (forse) con l'anima pura, Totò il genio della risata con l'occhio un po'... birichino.

E così finisce la nostra epopea. Una piazzetta a Cuneo dedicata a Totò per una battuta sulla naia, che scatena l'ira della Lega e dei figli di Macario, che volevano il loro beniamino piemontese (che poi si scopre essere un filo anarchico), il tutto mentre i due "rivali" facevano film insieme. Torino che rimedia un anno dopo con un'altra piazza (questa volta vera e propria) e delle cassette in edicola che rivelano un Macario insospettabile. E alla fine, la memoria popolare che lo fissa non come l'inventore della comicità o l'attore drammatico mancato, ma come il galante (e candido?)Pigmalione delle "donnine".

Un pastiche sublime di politica spicciola, rimpianti artistici, rivalità postume (e infondate) e gambe lunghe. Solo in Italia. E forse solo a Cuneo, alla Fiera del Marrone (quello con due erre).

Totò e... Macario - Le opere

La cambiale (1959)

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Daniele Palmesi, Federico Clemente
7148


Riferimenti e bibliografie:
  • "Totò" (Orio Caldiron) - Gremese , 1983
  • Foto © Archivio Famiglia Clemente
Sintesi delle notizie estrapolate dagli archivi storici dei seguenti quotidiani e periodici:
  • Ugo Buzzolan, «La Stampa», 7 ottobre 1979