E' morto Vincenzo Scarpetta, "'na criatura sperduta"
Figlio del celebre Eduardo, il comico napoletano era l'unico superstite della grande epoca teatrale partenopea. Sarà ricordato come l’eccezionale creatore di “Miseria e nobiltà’"
Napoli, agosto
Con la morte di Vincenzo Scarpetta, si è concluso il destino, troppo spesso infausto, dei grandi attori napoletani cui egli era l’ultimo e più degno rappresentante. A parte questa sua prerogativa che gli derivava per fatalità di eventi e di circostanze, era l'unico superstite di quel mondo scarpettiano di teatro che non era finito con Eduardo, il suo creatore, ma che si era proiettato nel tempo fin quando i mutati gusti del pubblico non ne avevano disperso o, meglio, annullato, ogni seria validità. Da dieci anni circa sì era ritirato dalle scene, recitando per l’ultima volta in quella «Miseria e nobiltà» scritta da suo padre, espressa-mente per lui. nella quale, a soli undici anni, aveva esordito da attore. Allora nella parte di Peppeniello, un bambino; dopo cinquantasei anni in quella di Semolone, il caratterista, nella compagnia di Raffaele Viviani che aveva voluto riprendere la classica commedia, l’unica originale, ovvero non ridotta dal francese, del grande Eduardo.
Vincenzo in «’Na criatura sperduta»
Fino a tre anni fa Vincenzo scendeva dalla sua casa in Via Vittoria Colonna, a prendere il sole sul marciapiedi e la domenica per ascoltare la Messa. L’ultima volta si trascinò al braccio di un congiunto, per recarsi nella vicina chiesa di Santa Teresa ad accogliervi sua sorella, la povera Maria, morta d’improvviso mentre suonava il violino. Da allora i suoi mali non gli consentirono più di lasciare quei tanti ricordi che costituivano ormai l’unica sua ragione di vita. Il tempo s’era fermato nel grande palazzo di Via Vittoria Colonna, dove all’ultimo piano il povero Vincenzo viveva tra i cimeli di suo padre e quelli della sua singolare carriera di attore. Era invecchiato, ripeteva, senza rimpianti: tuttavia. diventato misantropo, non amava parlare di sè e del suo passato, preferiva, tutt'al più, mostrarvi un grosso album, in cui sua moglie aveva incollato ritagli di giornali, programmi e le deliziose caricature che suo marito segretamente schizzava, come segretamente componeva gustose poesie in lingua e in dialetto.
L'ultima fotografia di Vincenzo Scarpetta, morto a Napoli la settimana scorsa. La grande foto alle spalle dell’attore raffigura il padre di Vincenzo, Eduardo Scarpetta, in «Miseria e nobiltà».
Durante questo tempo egli leggeva, di solito, romanzi francesi e libri di teatro. Ha scritto anche tre commedie che forse non saranno mai rappresentate. I familiari ritengono che, tra le pareti del suo studio, tappezzate dalle grandi fotografie di Eduardo nelle sue maggiori interpretazioni, egli rileggesse ogni giorno le antiche canzoni francesi; un ricco repertorio, forse unico del genere, che si era inserito anch’esso, come le altre inappagate aspirazioni della sua vita, nella «grande rinuncia» che ne aveva intristito gli anni migliori. Era nato nel 1875 e fin da bambino aveva mostrato, recitando da solo, in casa, autentiche virtù di attore, oltre che di musicista precoce. A soli otto anni debuttò infatti al «Rossini» in un assolo di Mozart: subito dopo gli fu maestro di composizione e di direzione di orchestra, per un lungo periodo, il maestro Giannetti, autore inconsolabile di un’opera lirica, «Èrebo», famosa nella città, per quanto mai rappresentata. A undici anni, come s’è detto, debutti va regolarmente, dopo aver cantato talvolta su ribalte minori canzonette scritte per lui. Egli stesso, più tardi, componeva una delle più popolari canzoni napoletane: ’A femmeita bella me fa cunznlà!
Un’interpretazione di Vincenzo Scarpetta che gli spettatori non hanno mai dimenticata è quella di «Tre pecore viziose». Qui l’attore è nel punto culminante del secondo atto.
Ebbe inizio da allora il dramma della sua vita di artista che doveva durare sessant’anni all’incirca, di cui cinquanta nelle vesti di un personaggio che il padre aveva rifatto, aggiornandolo, su quello del «Pulcinella» Antonio Peti-to. di cui era stato il successore, senza più maschera nera e camiciotto bianco, al «San Carlino». Tra Vincenzo Scarpetta e Felice Sciosciammocca, protagonista di tutte le commedie scarpettiane e con il quale Eduardo, ancora in vita, era passato alla storia nonché ai miti di Napoli, vi fu un antagonismo costante e insanabile, né valse l’ininterrotto successo che accompagnò, per alcuni decenni ancora, la fortuna della nuova maschera, a confortare il segreto cruccio dell’erede che Eduardo aveva inesorabilmente destinato alla sua successione.
Invano Vincenzino (come è stato chiamato da tutti fino alla morte) oppose, nei limiti che gli consentivano i furori paterni, la sua resistenza e la sua ribellione. Nella sua casa, in cui pontificava, in apparenza come un dolce patriarca familiare, ma in effetti come un despota spietato, Eduardo, con la papalina di velluto, la veste da camera a fiorami e le pantofole ricamate in oro, proprio come un personaggio delle sue commedie, se pure talvolta tenerissimo e paterno, faceva sentire e pesare, tuttavia, la sua gloria di artista e la sua dittatura di capo di famiglia. La violenza dei conflitti e degli scontri fra lui e il suo erede designato, assumevano a volte aspetti teatralmente drammatici.
«Il romanzo di un farmacista povero» è il titolo di questa farsa che Vincenzo animava nel ruolo dei protagonista, una parodia dell’allora rappresentatissimo «Romanzo di un giovane povero», libro che inondò di commozione donne di ogni ceto.
Per alcuni mesi Vincenzino fu relegato nella sua camera e non più ammesso alla mensa patema. Un’ altra volta le ire del vecchio attore. ormai stanco di recitare e che ad intervalli pretendeva di essere sostituito dal figlio, di fronte alle sue preghiere ed alle sue implorazioni di essere invece esonerato, provocarono un vero finimondo all’ora di pranzo: la grande tavola imbandita venne scaraventata contro i vetri del balcone che s’infransero. Sempre invano, con la più devota prudenza, Vincenzino tentò ancora di evitare il fallimento delle sue risorse di attore brillante e di trasformista alla maniera di Fregoli: si rassegnò infine alla sua sorte è solo talvolta riuscì ad evadere con qualche 'spettacolo, autore egli stesso, in cui rappresentava una decina di personaggi e cantava da tenore, da baritono e in falsetto.
Nel mondo circoscritto di un teatro borghese, in cui gli elementi dell’umorismo erano di solito ricavati dalla contrattazione grottesca dell’aristocrazia napoletana, che tentava di mantenere un prestigio ormai svanito, Vincenzo Scarpetta rimase solo come attore. Come uomo fu davvero, in tutti i sensi e in tutte le forme, un raffinato elegantone del suo tempo, in rivalità con Marcello Orilla, considerato il «Petronio» napoletano, e con Ruggero Ruggeri, assiduo ospite dì Napoli e compagno dei due in clamorose avventure galanti. Vestito sempre all’ultima moda, con il fiore all’occhiello, Vincenzo Scarpetta si valeva del particolare fascino della sua simpatia: simpatia di un sorriso e di uno sguardo a cui non seppero resistere, ad esempio, la bella Otero e Cléo de Mérode. Eugenie Fougère, la famosa stella parigina, che avrebbe voluto condurlo con sè in Francia, riebbe i suoi gioielli, perduti durante una rappresentazione al «Salone Margherita» di Napoli, in omaggio a quella simpatia: tramite il famigerato camorrista «Erricone», che fu qualche anno dopo uno dei protagonisti del processo Cuocolo, da cui si era recato Scarpetta, i brillanti e le perle, finiti in losche mani, furono a lei restituiti.
I primi passi teatrali di Vincenzo furono compiuti all’età di undici anni, nella parte di Peppeniello in «Miseria e nobiltà».
La canzonatura della «Francesca da Rimini», su testo di Antonio Petito, rappresentava il cavallo di battaglia dell'attore.
Qualche tempo dopo, nel 1904, una ricchissima baronessa ungherese, divorziata, folleggiava d’amore per lui. Ma Eduardo vigilava anche sulla vita privata del figlio e temendo che il progettato matrimonio con Vincenzo potesse naufragare o finir male, come poi accadde, stipulò addirittura un contratto con la donna. Avvenne così che la baronessa, tornata in patria dopo sei mesi di fidanzamento, vi rimase, trattenuta dai suoi familiari, senza possibilità di ritorno, ma in base a quei patti legali fu costretta a cedere ad Eduardo Scarpetta i preziosi mobili, le casse della finissima biancheria e quelle del vasellame di argento che aveva acquistato per il suo appartamento nuziale a Napoli.
La carriera artistica di Vincenzino procedeva, intanto, nella segreta amarezza di dover animare ogni sera quel personaggio sempre più fuori del tempo, mentre grandissimi attori come Zacconi e Zago lo esortavano a presentarsi ad Ermete Novelli che sarebbe stato felice di accoglierlo nella sua compagnia. Le uniche parentesi, per lui, di evasione, erano costituite dalle prime riviste italiane (Babilonia, L’ommo che vola) scritte da suo padre in collaborazione con Rocco Galdieri e durante le quali egli non solo poteva esibirsi in molti ruoli diversi, ma anticipare la regìa di codesti spettacoli nelle attuali composizioni. Oltre tutto egli è stato, come suo padre, un grande maestro di attori. più severo forse di Virgilio Talli: sebbene direttore di una compagnia dialettale egli curava, tra l’altro, anche la dignità degli abiti e degli indumenti dei suoi comici. Perché essi indossassero, mutando l’abito, un'altra camicia, aveva cura di rendere inservibile quella da cambiare, con i segni di una matita rossa di cui era sempre fornito. Non conosceva limiti alle sue fatiche direttoriali ed aveva strane abitudini : provava spesso dalle dieci alle diciotto e pretendeva che sua moglie gli lasciasse sulla tavola le pietanze a lui destinate fin dall’ora consueta della colazione. Aveva sposato una giovane e bella attrice esordiente, Amelia Bottone, con la quale ha vissuto in tenerezza di sentimento fino alla morte.
Un altro aspetto della versatilità di Vincenzo Scarpetta può essere còlto nelle vesti del famoso personaggio in «Il dottor Jekyil».
Rieccolo in «Miseria e nobiltà», cinquantasei anni dopo. Stavolta caratterizza la complessa figura dell’attempato Semolone.
Eleganze e mondanità a parte, egli era rimasto napoletano nelle abitudini e negli usi tradizionali: anche nella sua casa di Via Belsiana a Roma, dove trascorreva molti mesi dell’anno, recitando al «Manzoni». festeggiava alla maniera partenopea il Natale, la Pasqua, gli onomastici e i compleanni della sua famiglia: ogni volta, per la sua festa, regalava alia moglie una torta con una sorpresa dentro. Dopo l’8 settembre del ’43, in quella casa romana, temendo che i tedeschi potessero cercarvi i suoi due figli e Vittorio Viviani, suo genero, s’era preparalo ad inscenare una farsa tragica, quella che è poi servita da finale per il primo atto di «Napoli milionaria» ad Eduardo De Filippo, di cui anche era stato maestro per un lungo ventennio. Voleva, con la barba finta e il trucco, fingersi morto e far nascondere quei ragazzi sotto il letto, mentre, vestite da suore, le donne di casa avrebbero pregato e pianto intorno a lui.
Roberto Minervini, «Settimo Giorno», anno V, n.34, 29 agosto 1952
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Roberto Minervini, «Settimo Giorno», anno V, n.34, 29 agosto 1952 |