Le «spalle» di Totò
Molte volte il mio partner non ne può più di avermi accanto, non vede l'ora che la scena finisca per andarsi a riposare. Ma io continuo a non dargli pace: gli sto addosso, lo circondo da ogni lato, lo tocco e lo ritocco.
Le «spalle» del comico: gli eroi ignorati della risata
Nel meraviglioso mondo del teatro di rivista — quello pieno di lustrini, battute bislacche e ballerine in perizoma piumato — esiste una creatura misteriosa, fondamentale ma trascurata, l'equivalente teatrale della guarnizione perfetta in un motore da Formula 1: la Spalla.
Già, cari miei, mentre il pubblico si sbellica guardando il comico che inciampa nel sipario o che si ingarbuglia nelle sue stesse battute, dietro quella comicità apparentemente spontanea si cela un oscuro lavoro di cesellatura scenica compiuto dall’attore "di fianco". Un ruolo, questo, che richiede doti che nemmeno un cardiochirurgo svizzero sotto caffeina potrebbe sempre garantire: tempismo chirurgico, istinto da predatore della risata e un affiatamento con il partner più saldo di un matrimonio combinato bene.
Quando la Bellezza Non Basta... E Quando Serve una Spalla
Se le donne bellissime, per galanteria, "non hanno spalle" (vecchio adagio che avrebbe bisogno di un aggiornamento femminista urgente), i comici invece le spalle se le devono costruire a mano, con pazienza certosina, come uno scultore plasma la sua musa. Senza una buona spalla, anche il miglior mattatore rischia di sembrare un matto urlante nel deserto, uno che racconta barzellette ai cactus.
La "spalla" è insomma il gancio invisibile che fa dondolare il lampadario della comicità, il carburatore nascosto del motore scenico. Un comico senza una buona spalla è come un violino senza archetto: può anche essere uno Stradivari, ma farà il suono di una porta arrugginita.
E occhio: non basta essere simpatici per essere una buona spalla. Qui si richiede abilità da illusionista, tempismo da torero e pazienza da frate trappista, perché il vero scopo è brillare senza mai accecare il protagonista. Un'arte raffinata, più difficile di quanto sembri.
Il Club Segreto delle Grandi Spalle
Nel passato glorioso del teatro e del cinema italiano, il mestiere della spalla ha visto sfilare veri giganti, troppo spesso rilegati nei titoli di coda come "e anche…" o "con la partecipazione straordinaria di…". Ma chiunque abbia un minimo di sale in zucca teatrale sa che senza questi nomi la storia della comicità italiana sarebbe un funerale senza buffet.
Tra i maestri di quest’arte troviamo autentici fuoriclasse:
- Agostino Salvietti: il cui volto da eterno "complice" avrebbe meritato una medaglia al valore.
- Enzo Turco, Giacomo Furia, Ugo D'Alessio, Carlo Croccolo: il Dream Team delle risposte pronte e degli sguardi sghembi.
- Eduardo Passarelli, il primo (e unico) a sopportare Totò da vicino senza farsi ricoverare.
- Peppino De Martino, Nino Taranto, Pietro De Vico: che hanno trasformato il ruolo di spalla in un'arte autonoma, raffinata come il ricamo su tombolo.
Poi ci sono quelli che, in verità, erano così bravi da essere più co-protagonisti che semplici aiutanti: Peppino De Filippo (che, diciamolo, rubava la scena con la classe di un ladro di diamanti), Aldo Fabrizi, Macario, Luigi Pavese, Carlo Rizzo — nomi che suonano ancora come una sinfonia di risate nelle nostre orecchie nostalgiche.
E nel Futuro? Riscatto per le Spalle!
Guardando avanti — perché, diciamocelo, il passato è pieno di polvere e retorica — occorre prevedere un’epoca in cui le spalle riceveranno il riconoscimento che meritano. Basta pensare a loro come semplici gregari del comico superstar. La "spalla" è l'artigiano invisibile della comicità, il coreografo della risata che ancora oggi, anche nel cinema o nella TV iper-prodotta, tiene in piedi sketch, battute e gag che altrimenti cascherebbero rovinosamente come soufflé senza albumi.
Magari, nei teatri del futuro (o nei metaversi virtuali della stand-up comedy 3D), il titolo di "Miglior Spalla" sarà premiato quanto e più di quello di "Miglior Comico". Sarebbe ora: l'ombra, dopotutto, è spesso molto più affascinante dell'uomo che la proietta.
🎭 Discorso teatrale: "Ode alla Spalla, regina dimenticata della risata" 🎭
(Si schiarisce la voce. Breve pausa teatrale. Sguardo al pubblico.)
Signore, signori, e umanità in cerca di una buona battuta...
Vi invito questa sera a un piccolo atto di giustizia, una riparazione tardiva, ma doverosa:
rendere onore alla più umile, più fedele, più sottovalutata figura del nostro teatro comico: la Spalla!
(Cammina lentamente sul palco, ammiccando.)
Avete presente quella vecchia frase fatta, sussurrata alle signore con sussiego d’altri tempi?
"Le belle donne non hanno spalle…"
Ebbene — (con tono complice) — lasciate che vi dica che i veri comici, invece, le spalle ce le hanno, eccome se ce le hanno!
E non solo anatomiche, no: professionali!
(Pausa. Si ferma al centro.)
La "spalla", nel nostro nobile gergo di palcoscenico, non è un'escrescenza ornamentale.
È il pilastro invisibile, l’ombra fedele, la scintilla silenziosa che permette al fuoco comico di brillare senza estinguersi.
Senza la spalla, cari miei, il comico più bravo sembrerebbe un pazzo in cerca di eco in una grotta vuota!
Un diamante senza castone, un violino senza archetto, un uomo senza ombra...
(Sospira, teatrale.)
E ricordate la triste storia dell’uomo che vendette la propria ombra? Non finì bene.
Nemmeno per i comici senza spalla.
(Sguardo d'intesa al pubblico.)
Ma cosa serve per essere una grande spalla?
Non basta stare lì a fare da palo.
No, no!
Serve tempismo da orologiaio svizzero, istinto da felino, coraggio da equilibrista senza rete.
Una spalla deve sapere quando parlare e, soprattutto, quando stare zitta — che è la qualità più rara sul palcoscenico... (occhiata ironica al pubblico, piccola risata)
Una grande spalla può, se vuole, diventare essa stessa un grande comico.
Ma molti preferiscono non rischiare: e se poi non trovassero un’altra spalla brava come loro stessi?
Meglio restare nell’ombra… ma che splendida ombra!
(Tono più epico.)
I nostri palcoscenici hanno avuto delle Spalle magnifiche!
Nel teatro, nel cinema...
Agostino Salvietti, Enzo Turco, Giacomo Furia, Ugo D’Alessio, Carlo Croccolo, Eduardo Passarelli…
uomini che, dietro le quinte e davanti al sipario, hanno costruito autentiche cattedrali della risata!
(Cammina, conta sulle dita.)
E poi Peppino De Martino, Nino Taranto, Pietro De Vico…
E, diciamocelo, quelli che ormai erano troppo bravi per restare solo "spalle":
Carlo Rizzo, Peppino De Filippo, Aldo Fabrizi, Macario, Luigi Pavese…
(Si ferma. Voce più bassa, quasi commossa.)
Senza di loro, Totò sarebbe stato meno Principe…
E la nostra memoria collettiva avrebbe meno sorriso e meno malinconia.
(Pausa lunga. Poi un sorriso.)
E allora vi chiedo, amici: nel futuro che viene, non dimentichiamole più, queste Spalle meravigliose.
Nel teatro, nel cinema, persino nello streaming spaziale che un giorno ci piomberà addosso…
ricordiamoci che dietro ogni grande risata c’è, invisibile ma viva, una Spalla che ha saputo esserci.
(Ampio gesto verso il pubblico.)
Alla Spalla!
Sorella umile della Gloria!
Padrona silenziosa del nostro sorriso più sincero!
(Si inchina. Sipario.)
Il ruolo della «spalla»
Il ruolo tradizionale della «spalla» è quello di esaltare, far emergere al meglio le qualità, gli effetti, del primo attore. E accade, qualche volta o spesso, che le qualità e gli spazi dell’attore che fa da «spalla» vengano ristretti, assai impoveriti, soffocati da una funzione puramente meccanica. Non accade così con Totò primo attore.
Egli ha sempre mostrato una straordinaria forza nel ribaltare la chiave della «spalla». Le usava, se ne serviva, ma riconosceva loro valori grandissimi. Riusciva a far scattare, in questi attori, una sorta di dimensione, di spessore, di bravura persino, che moltissimi di loro non possedevano naturalmente. In genere erano attori anche mediocri che, al suo fianco, apparivano però nobili, degni, con delle corde e possibilità alte. Ricordo un film in cui Carlo Croccolo recitava, nel ruolo di «spalla», con Totò. Sembrava davvero un attore grandissimo. Non credo che abbia poi fatto niente di quel livello, perché da solo incapace e, con altri, privo dell’appoggio che Totò sapeva dare.
Ecco, era questo il suo segreto: saper sostenere l’altro; porsi, nei suoi riguardi, come una specie di asta per il salto in alto che, con la sua grande elasticità, dà appoggio e permette a tutti di librarsi in aria, di superare l’ostacolo.
La galleria che formano questi volti è varia, affollata; e tuttavia in nessuna immagine, in nessuna inquadratura, c’è il segno di una prevaricazione. Mi piace, a tratti, fermarmi a guardare questi volti, e dinanzi a tanti di loro spespunteggiatura, una sottolineatura, un trattino di distanza.
Così come ricordo, tra i «giochi» più belli, quelli che Totò faceva con Aldo Fabrizi. Difficilmente ho trovato Fabrizi così bravo come quando lavorava con Totò. Mi sembra proprio che, in questi casi, la versatilità di Totò fosse tale da riuscire a ritagliare il proprio profilo in rapporto agli attori con i quali recitava.
Svolgeva e guardava al lavoro dell’attore con la cognizione e l’etica di un grande mestiere. Anche quando - e questo è un mirabile paradosso - si obbligava a recitare in film decisamente orridi. Non bisogna dimenticare, infatti, che spesso ha avuto degli autori che erano di una pochezza assoluta, da cui riceveva mediocrità e a cui dava fama. E allora il prodigio, il mirabile del paradosso: dover riconoscere che la sua bravura consisteva nel riuscire a salvarsi in film appunto orridi.
Dario Fo
Mario Castellani
L’ottima «spalla» di S.A.R.I. Totò. Magro, distinto, piacevole, Castellani — come abbiamo già narrato — si avviava brillantemente per la carriera di dicitore-danseur. Ha incontrato per via Totò e si è fermato all’insegna del buonumore. Ormai Castellani ha talmente ben compreso la comicità del suo illustre collega che — forse — potrebbero apparire entrambi sulla scena, senza un rigo di copione scritto, senza aver preso il minimo accordo, senza aver ricevuto il più vago suggerimento, e divertire ugualmente il pubblico per mezz’ora.
Qualche sera avevo l'impressione che stesse per picchiarmi. Era la scena del wagon-lit in teatro, in cui ero davvero intrattabile. Angariavo in ogni modo il povero Castellani, gli impedivo di dormire, gli gettavo la valigia dalla finestra, gli ripetevo una dopo l'altra, le mie solite frasi di disturbo: "sono un uomo di mondo; ma lei non sa chi sono io; quando c'è la salute; tampoco; a prescindere; eziandio; comunque; appunto, dico..."
Al contrario della «spalla» tradizionale, Castellani non finge di incollerirsi per le buffe scemenze del proprio interlocutore, ma anzi sembra sforzarsi di comprenderle, con elaborato interesse, e di fraintenderle, poi, con stupore dignitoso. La sua corretta mansuetudine, allora, serve da sprone alla balordaggine dell’altro, che si fa petulante, proterva, aggressiva. Quando Castellani vorrebbe ribellarsi, è troppo tardi: Totò si è ormai impadronito della situazione e ci gioca, ci giostra, sbatacchiandola in ogni senso al suo inimitabile modo. Tutto questo può parere semplice: ma per arrivare alla progressione esilarante della famosa scena del vagone-letto, ad esempio, ci vuole veramente dell’arte. E la parola non è troppo grossa.
Carlo Rizzo
Inarrivabile «spalla» di Macario è, in un certo senso, un figlio d’arte. Suo zio è stato celebre nel campo dell’Operetta: Carlo Lombardo. Suo fratello e sua sorella sono ottimi elementi minori della Rivista. Corpulento, cordiale, sicuro di se, egli oppone alle aeree indecisioni, alle astratte timidezze, alle lunari scemenze di «Maca», un massiccio buon senso, una solida bonomia, una robusta logica. Alla comicissima balbuzie più spirituale che materiale dell’altro, Rizzo va incontro con alluvionale facondia. È inevitabile che Macario finisca per brancolare in quel torrente di parole e si aggrappi a quella che gli passa più vicina, credendo di salvarsi; ed ecco la parola che gli sembrava così promettente e sicura, si sgretola nelle sue mani malferme e dalle briciole, da ogni briciola, sprizza una risata, brilla un concetto ameno, rimbalza un sorriso. E allora Rizzo lancia un’occhiata a «Maca», tra sorpresa e divertita: sembra domandarsi che razza di individuo sia quell’ometto dalla faccia d’uovo pasquale, dalla bocca a spicchio di luna. Da quel momento lo tratta con la rassegnata pazienza che si usa per i bambini, si fa paterno, quasi materno. «Maca» se ne approfitta subito e — là — butta fragoroso, scattante, il più audace dei suoi frizzi, quello che farà veramente andare su tutte le furie il povero Rizzo. Arte, signori miei, arte anche questa, credeteci sulla parola. Con Totò ebbe modo di incontrarsi solo in "Totò di notte n.1"
Enzo Turco
Forse non era nato per fare la «spalla». Le sue innegabili doti di comicità e di spontaneità potevano dargli diritto — come ai grandi di Spagna — di tenere il cappello in testa dinnanzi a Sua Maestà La Risata. Ma Turco è napoletano e perciò è filosofo oltre che artista. Egli deve essersi chiesto quanto formaggio gli sarebbe rimasto, visto che tanti «sùrice» di buona dentatura e di acuti unghioli erano vittoriosamente mossi all’attacco della forma di cacio capocomicale. E allora ha deciso di dedicarsi al lardo, lasciando parmigiano, provolone e pecorino ai sorci più grossi. Dopo tutto anche il lardo, quando lo si scelga ben stagionato e ben salato, è cibo sopraffino. Ecco dunque Turco «spalla» di Taranto. Napoletano l’uno, napoletano l’altro. Si capiscono a occhiate; meglio ancora, a sbatter di palpebra. Dal modo con cui Nino inizia una battuta, Enzo sa come dargli la ribattuta. Dal modo con cui Enzo pone un interrogativo, Nino sa come deve rispondergli. Sentirli recitare assieme è un piacere cordiale e sottile per chi sia appassionato d’arte scenica; è un po’ del glorioso San Carlino che si affaccia nei loro dialoghi; è la tradizione classica che si perpetua, insaporita dal più originale modernismo. Il nasetto a patatina, il viso minuto, la fronte stretta di Turco si contrappongono amenissimamente al naso rapace, alla faccia faunesca, alla fronte mascagnana di Taranto. E mentre Nino ama — col roteare degli occhi da rana, con le smorfie della bocca tumida — sottolineare l’umorismo di certe battute, Enzo affetta di scivolarvi su, con un gesto vago della mano curiosamente piccola e con un tipico moto del capo, uguale a quello delle foche quando acchiappano a volo il pesciolino-premio della loro bravura. Chi è assiduo frequentatore della Rivista, vada con la mente, per un attimo, al Turco degli sketches : «Edipo turistico» e «Il mago di Napoli». Se non è arte quella, saremmo curiosi di sapere che cosa s’intenda per arte.
Edoardo Passarelli, Renato Mariani e Peppino De Martino
Figli d’arte, tutti e tre. De Martino — figurarsi — discende da un Pulcinella eccelso. Passarelli viene addirittura da una famiglia della quale si può dire, parafrasando l’affermazione del «Gastone» petroliniano (il quale asseriva che in casa sua, se non erano inventori, non nascevano) che se ì rampolli non erano attori, non li metteva al mondo. Mariani è il meno napoletano (il vero «terrone» era il suo povero papà, un tempo lui pure ottimo attore di Rivista).
Tutti e tre sono i pittoreschi astucci che fan risaltare.
il fulgore delle pietre preziose affidate alla loro custodia. Tutti e tre sono i valenti pianisti che accompagnano i virtuosi del violino della comicità. E i critici musicali sanno che per accompagnare degnamente al piano uno Jascha Heifetz, un Menuhin o uno Stern, occorre indiscutibilmente un artista.
Riferimenti e bibliografie:
- "Guida alla rivista e all'operetta" (Dino Falconi - Angelo Frattini), Casa Editrice Accademia, 1953
- "Totò. Manuale dell'attor comico", Dario Fo, Aleph, Torino, 1991